Una concezione più marcatamente olistica tende, al contrario, ad individuare in una complessità di fattori il passaggio dallo stato di salute a quello di malattia. Nella visione positivista la domanda che il terapeuta fa la paziente (che d’ora innanzi chiamerò cliente) é “dove ha male?” invece di “Cosa sente?” (M.Foucault, 1968). Noi assumiamo l’idea guida che il terapeuta stesso cocostruisce la realtà insieme al suo cliente e che” … gli esiti stessi della situazione terapeutica sono il risultato di un processo a cui terapeuta e paziente contribuiscono entrambi, costruendo un sistema coevolutivo” (L. Onnis, 1993).
Fatta questa breve premessa, possiamo ora definire in modo più comprensibile il
significato relazionale che può assumere un disturbo quale la iperprolattinemia. La prolattina é l’ormone responsabile del latte materno al termine del periodo di gestazione. Talvolta accade che la sua iperproduzione avvenga in periodi diversi da quello della gestazione provocando una serie di disturbi (amenorrea, glattorrea, ecc.).
Ovviamente é necessario effettuare tutti gli accertamenti clinici del caso per valutare se non vi sia un tumore dell’ipofisi. Accade però che in certi casi, non essendoci segni “organici”, si pensi ad una diagnosi differenziale su base psicogena. E’ questo il caso di una cliente da me seguita, insieme all’équipe di coterapeuti, in cui si chiedeva la consulenza psicologica per un disturbo di iperprolattinemia che tendeva a cronicizzare nonostante un lungo trattamento farmacologico. La cliente era stata inviata al nostro studio dalla ginecologa che la seguiva e che aveva fatto gli accertamenti diagnostici del caso, che avevano escluso un tumore o altre implicazioni organiche. Dal colloquio emergeva una storia di sofferenza per il distacco dalla famiglia in cui parti della storia famigliare, incomprensione tra i genitori, pesavano sulla lontananza dalla figlia. In effetti il sintomo aveva fatto la sua comparsa al momento della separazione abitativa legata al matrimonio della cliente.
Da quel momento le richieste di presenza presso la casa dei genitori si erano fatte pressanti e colpevolizzanti ogni molta che la figlia non poteva corrispondere al desiderio dei suoi genitori. La cliente stessa era consapevole, già dal primo colloquio, della connessione tra il sentimento di colpa che le suscitava la lontananza dai suoi e la manifestazione del disturbo. Sono state necessarie 13 sedute, distanziate di 15-20 giorni, per permettere l’esplorazione di tutte le implicazioni relazionali del sintomo e permettere la risoluzione del conflitto. Ovviamente per necessità di spazio tralascio la descrizione delle ipotesi dell’équipe terapeutica e della descrizione dei “miti” presenti nella famiglia di origine della cliente. Ricordo soltanto che quest’ultima rappresentava per il suo nucleo familiare la depositaria del sistema comunicazionale tra l’asse maschile, rappresentato dal padre e dal fratello maggiore, e l’asse femminile (madre e cliente stessa).
Questo intreccio relazionale aveva rappresentato per la cliente un vero e proprio ostacolo evolutivo che nel momento della separazione del nucleo familiare si era manifestato con tutta la sua “carica emozionale”.
L’utilizzo dello spazio terapeutico aveva fatto sì che si creasse la condizione per una riflessione sulle tematiche conflittuali permettendo un’uscita dal sintomo. Un controllo a distanza di 5 mesi, dall’ultima seduta, aveva confermato l’esito positivo della terapia.
I fattori individuati come maggiormente significativi per il buon andamento del trattamento sono stati:
1- Un inviante autorevole che ha saputo cogliere la necessità di valorizzare altre vie di terapia;
2- Una forte motivazione della cliente.
3- Un sistema terapeutico capace di cogliere i significati più ampi del sintomo.
Sergio Sabatini
Psicologo – Psicoterapeuta
Pubblicazione giugno 1997