Un italiano su 4 è affetto da ‘fegato grasso’, ovvero da ‘steatosi epatica non alcolica’ (Nafld), una patologia un tempo ritenuta innocua ma che è ormai noto essere un fattore predisponente alle malattie croniche di fegato (fino alla cirrosi) e alle malattie cardiovascolari. Ecco la conclusione a cui sono giunti gli esperti della Società Italiana di Gastroenterologia (Sige)
Assetto genetico
“Nel corso degli ultimi millenni – spiega Antonio Craxì, presidente SIGE – l’evoluzione costante della specie umana ha selezionato gli individui più capaci di accumulare grassi, premiandone la maggiore resistenza alla malnutrizione. Questo assetto genetico “’frugale’ costituiva un importante vantaggio in tempi di fame e carestie, ma si è trasformato in uno svantaggio potenzialmente letale, per le conseguenze metaboliche (diabete, malattie cardiovascolari) nel momento in cui il nostro profilo alimentare si è arricchito a dismisura di fonti caloriche e nel contempo l’attività fisica si è ridotta. Il fatto poi che si viva assai più a lungo, grazie ai progressi nel curare malattie e traumi, favorisce ulteriormente la comparsa delle malattie degenerative legate all’accumulo di grassi in molti organi e sistemi del nostro corpo”.
Se dunque nasciamo già predisposti ad accumulare troppo, a peggiorare le cose generando una vera e propria epidemia di ‘fegato grasso’ (al momento è la più comune malattia di fegato nel mondo, presente nell’80-90 per cento degli obesi e nel 30-50 per cento dei diabetici) interviene un fattore potenzialmente correggibile, e cioè una dieta ricca di grassi e di calorie, tipica dei regimi dietetici di tipo ‘occidentale’, che si sono troppo discostati dalle nostre radici alimentari, dal regime dietetico amico della salute per eccellenza, la dieta mediterranea. Negli ultimi anni tuttavia ci si è resi conto che questo effetto negativo delle diete piene di ‘cibo spazzatura’ non è sempre diretto, ma anche mediato da un ospite silenzioso e importantissimo per la salute, il microbiota intestinale.
Il Microbioma intestinale
“Per microbiota intestinale – spiega Ludovico Abenavoli, professore associato di gastro-enterologia dell’Università Magna Graecia di Catanzaro – si intendono quei miliardi di batteri localizzati in particolare nel piccolo intestino, che possono raggiungere una massa di 2-3 chili”. Il microbiota facilita la digestione e l’assorbimento degli alimenti che passano dallo stomaco nell’intestino. Ma la relazione tra il microbiota e il suo ospite, cioè l’uomo, è ‘bidirezionale’, nel senso che il tipo di alimenti che compongono la dieta abituale di un individuo è in grado di ‘modellare’ la composizione del microbiota.
Di anno in anno si vanno moltiplicando i lavori a conferma di questa osservazione, che risale ad uno studio molto importante di Carlotta De Filippo e colleghi pubblicato nel 2010 su PNAS. Questa ricerca ha valutato la flora batterica intestinale di un gruppo di bambini di Firenze, paragonandola a quella di un gruppo di bambini del Burkina Faso. I bimbi africani, che hanno una dieta a base di verdura, frutta e fibre, presentavano una maggiore variabilità nella composizione del microbiota intestinale, rispetto a quello dei bambini italiani, che seguono un regime alimentare ricco di carne, fruttosio e altri zuccheri complessi. “E oggi sappiamo – spiega Abenavoli – che una ridotta variabilità del microbiota intestinale predispone ad una serie di patologie: aumenta la suscettibilità allo stress ossidativo, altera il metabolismo degli zuccheri e dei grassi e quindi predispone al sovrappeso-obesità, in particolare a livello viscerale, all’insulino-resistenza e al diabete mellito, alle patologie cardiovascolari, ai tumori e, come scoperto più di recente, anche alla steatosi epatica non alcolica.
Chi consuma una dieta ricca di frutta e verdura – aggiunge Abenavoli – ha un microbiota ricco di tante specie batteriche diverse (Actinobatteri, Bacteroides, Firmicutes, Proteobatteri), mentre chi indulge in una dieta occidentale o nel cibo da fast food presenta un microbiota ricco solo di Firmicutes. Questo squilibrio predispone a maggior stress ossidativo, ad un aumento della permeabilità a livello dell’intestino (soprattutto del piccolo intestino), con conseguente passaggio delle tossine batteriche (soprattutto del lipopolisaccaride batterico) e di altre componenti tossiche nel circolo portale, che le veicola al fegato,dove provocano danni e facilitano l’infiammazione.
Questo microbiota dalla composizione squilibrata e dalla scarsa variabilità induce un aumento dei livelli circolanti di citochine infiammatorie, che predispongono alla formazione della placca ateromatosa e favoriscono l’aggregazione piastrinica; fattori questi che a loro volta predispongono allo sviluppo di eventi cardiovascolari nel medio-lungo termine. Avere il fegato grasso (cioè le cellule epatiche piene di trigliceridi) va dunque considerato un campanello d’allarme non tanto per oggi, quanto per gli anni futuri. Secondo stime americane, entro il 2030 il fegato grasso sarà la principale causa di cirrosi e la prima causa di ricorso al trapianto di fegato, superando le epatopatie croniche da virus dell’epatite B e C (che grazie alle nuove terapie e al vaccino sono destinate a ridursi nel tempo) e la cirrosi alcolica.
La dieta mediterranea
Ma il modo per contrastare questa epidemia di malattie epatiche e cardiovascolari dei prossimi decenni esiste. “La dieta mediterranea – afferma Abenavoli – è una nostra caratteristica culturale e la nostra ricchezza, anche da un punto di vista economico. Investire in dieta mediterranea significa avere un importante ritorno in salute per la società. La dieta mediterranea, bilanciata e facilmente accessibile, non determina quegli squilibri nutritivi tipici delle diete vegetariane o peggio di quella vegana, che a lungo andare possono avere importanti ripercussioni sulla salute (anemia, problemi neurologici, possibile predisposizione dei vegani all’Alzheimer). Allo stesso tempo ci consente di ‘coltivare’ il nostro amico microbiota intestinale che è molto importante, ci accompagna per tutta la vita e ci protegge da una serie di malattie”.
Di recente si è visto che la dieta vegana può influenzare la salute di un individuo, agendo sul suo microbiota intestinale. Ma non si può certo affermare che questa sia una dieta ideale. “Dieta mediterranea o dieta vegetariana/vegana – afferma Abenavoli – hanno effetti simili per quanto riguarda il microbiota intestinale, anche se gli studi pubblicati non hanno fatto confronti diretti tra queste tre diete, ma tra dieta vegana-vegetariana o dieta mediterranea e dieta occidentale, piena di grassi e cibi da fast food.
Posto che dieta vegetariana, vegana e mediterranea hanno tutte un effetto positivo sulla composizione del microbiota intestinale, esistono tuttavia grandi differenze tra questi tre regimi alimentari per quanto riguarda il deficit di alcuni nutrienti. Una dieta mediterranea bilanciata non determina deficit nutritivi, cosa che invece è possibile osservare nei soggetti che seguono una dieta vegetariana e ancor di più in quelli a dieta vegana. Non consumare carne determina un deficit di vitamine del gruppo B e di ferro. Nei vegani stretti si possono verificare deficit di vitamine del gruppo B, D, ferro, zinco e altri micronutrienti.