articoli

STRATEGIA VINCENTE PER LE ANTIPATICHE MACCHIE SCURE

Le macchie sono una modificazione del colorito normale della pelle, legate ad un’alterata distribuzione del pigmento melanico. Possono essere “ipercromiche”, in questo caso si distinguono per un aumento della colorazione, oppure “acromiche” e allora c’e un difetto o un’alterazione della colorazione, sono cioè biancastre. Ancora le macchie possono essere circoscritte a determinate regioni del corpo, come al volto, o diffuse a una larga regione. Si differenziano poi in primitive, quando sono presenti da sempre o secondarie, cioè come esito di altre malattie della pelle o dermatosi. 

Possono regredire spontaneamente in un tempo più o meno lungo, ma in genere sono permanenti e persistono indefinitamente. Le macchie “ipercromiche o iperpigmentazioni” sono dovute ad un’ alterata colorazione della cute causata da un’anormale distribuzione quantitativa e qualitativa del pigmento, cioè ad un eccesso di melanina, e sono le macchie vere, possono avere forma variabile e colorito che va dal bruno, al bruno- giallastro, al bruno- nerastro. Esistono delle pseudomacchie o ipercromie non riferibili a variazioni del pigmento, ma a sostanze coloranti estranee penetrate direttamente nella cute dall’esterno, come nel caso dei tatuaggi o arrivate ad essa attraverso il sangue, cioè dall’interno come ad esempio i pigmenti derivati dall’ emoglobina o i carotenoidi: queste ultime non sono macchie vere.
Le iperpigmentazioni vere sono quelle che ci interessano in modo particolare. Esse sono dovute a molteplici fattori:
GENETICHE: come ad esempio le efelidi i o le macchie melaniche
DA CAUSE ESTERNE: come quelle legate alla eccessiva fotoesposizione, il cosiddetto “fotoinvecchiamento” dove fondamentale e la durata negli anni dell’esposizione solare.
I danni cutanei indotti dall’esposizione cronica alla radiazione ultravioletta consistono in assottigliamento dell’epidermide, alterazioni della pigmentazione che si presenta irregolare con formazione di macchie e lentiggini solari o senili, comparsa di rughe, secchezza e fragilità di superficie, fino alla formazione di papule giallastre e di placche.
Più in profondità il danno solare cronico può portare alla formazione delle cosiddette “cheratosi”: sono lesioni che si presentano frequentemente, in genere sono multiple e insorgono dopo i 45 anni, localizzate alle zone fotoesposte come il volto, il collo, i/l petto, il dorso, ma un po’ dovunque.
Progressivamente queste piccole formazioni diventano rilevate, più grandi, più scure e si ricoprono di squame- croste ruvide; la caratteristica è che nonostante siano superficiali, in realtà sono le pia frequenti lesioni precancerose e per questa vanno verificate e asportate con mezzi fisici, come i laser o con tecniche chirurgiche.
POST-INFIAMMATORIE: rientrano in questa gruppo tutti gli esiti conseguenti a patologie dermatologiche come la ben nota acne, i traumi, le ustioni e molte altre dermatosi.
Di origine ORMONALE: è il cosiddetto melasma cioè le macchie di colorito bruno, di forma irregolare, localizzate per lo più al volto: fronte, labbro superiore, guance, porzioni laterali del viso, che si formano in corso di terapie estro­progestiniche o in seguito all’assunzione o all’uso di sostanze foto sensibilizzanti.
Ed ancora con il nome di cloasma si descrivono e macchie che compaiono durante la gravidanza. In genere alle prime fotoesposizioni, già in primavera, si evidenziano o si scuriscono, se già presenti, creando notevole disagi. Ancora possono essere di ORIGINE METABOLICA e NEOPLASTICA.
A questa punta che cosa fare per debellare questa antipatico problema?
La strategia esiste cominciando dall’uso di foto-protezioni molto alte adatte al tipo di pelle, che vanno applicate sempre in ogni stagione, ma di più quando la luce si fa intensa e soprattutto in qualsiasi luogo all’aperto, quindi anche in città ogni volta che si esce. Tenendo presente che la melanina mantiene la memoria e una volta foto stimolata in modo da creare la macchia, questa stessa tende a ricomparire nella medesima posizione ed eventualmente ad allargarsi e anche a peggiorare.
Inoltre bisogna valutare gli eventuali prodotti per l’igiene cutanea, detergenti, creme o prodotti da trucco utilizzati perchè possono contenere dei componenti che con il concorso della luce stimolano
la melanina in modo scorretto . Abbiamo detto precedentemente che le ipercromie o macchie melaniche una volta comparse tendono a permanere, quindi occorrono opportuni trattamenti dermocosmetici.
Per la melanina superficiale in genere pratico un peeling combinato con più sostanze presenti che agiscono a vari livelli nel processo di melanogenesi provocando dei blocchi nei vari passaggi di maturazione, impedendo così l’accumulo del pigmento nelle aree macchiate.
A distanza poi di circa quindi giorni si interviene sui pigmento depositato più in profondità a livello del derma con un particolare tipo di laser.
II sistema laser Fraxel e una nuova tecnologia molto avanzata, nata negli USA, che, sapendola gestire in modo corretto, serve ad ottenere in modo efficace, sicuro e prevedibile l’eliminazione delle macchie cutanee con una convalescenza minima e vedremo pia avanti non solo questo. E’ particolarmente indicato il trattamento di zone come il viso, il colo , il decolletè e le mani, ma si può usare in qualsiasi zona del corpo, come dorso, le spalle, il seno, le natiche, gli arti e qualsiasi altra zona presenti questo inestetismo .
Questa apparecchiatura e un laser a fibrere ottiche, la cui prerogativa è quella unire i vantaggi di due tipi di laser fino ad oggi utilizzati per questi in estetismi, quelli ablativi (con asportazione dello strato superficiale della cute) e queelli non ablativi (che non asportano questa parte esterna).
Come un laser non ablativo non vaporizza gli strati superficiali della cute e non crea abrasioni o croste, ma riesce ad arrivare in profondità.
Infatti attraverso il manipolo si producono migliaia di minuscoli buchini; oltrepassando lo strato corneo più superficiale che rimane indenne, la luce laser arriva precisamente nel derma dove zone colpite dalla luce laser, zono microtermiche, si trovano accanto a zone completamente indenni di tessuto che non viene danneggiato e rimane sano. Questo particolare tipo di laser è l’ultima innovazione nella tecnologia laser in medicina estetica per la ristrutturazione della pelle.
La tecnica provoca un effettivo, prevedibile e sicuro, non cruento trattamento per pazienti con melasma o alterazione del colore da causa ormonale, macchie da sole e da invecchiamento.
Esso produce anche un sostanziale miglioramento del tono, della texture e della pigmentazione della cute con un limitato tempo di recupero .
Anche per lentiggini e aumentata pig­mentazione di vecchie cicatrici sia traumatiche, che chirurgiche, è un effettivo strumento di ristrutturazione per la cute.
Si usa per il fotodanneggiamento del viso, collo, decolletè, mani e braccia, si notano miglioramenti del colore, della texture, delle rughe sottili e la cute appare più tesa e tonica e con un colore chiaro ed omogeneo.
II Fraxel ha il potenziale di creare un danno al derma profondo senza i tempi di guarigione delle tecniche ablative.
E’ adatto a tutti i tipi di cute con fototipo da I a VI; poichè non è associato a significative complicazioni possono essere trattate anche le pelli scure, cioè i soggetti di colore, e anche per melasma resistente ad altri trattamenti. La penetrazione più profonda causa una migliore catabolizzazione del derma usurata e una digestione del pigmento, per una rigenerazione naturale di nuovo collagene che crea un ottimo rimodellamento del derma.
La tecnologia scannerizzata del Fraxel crea un’uniformità di applicazione dell’ energia a differenza di altri sistemi che usano una modalità a stampo, e il risultato finale è un trattamento più uniforme.
Si può considerare una tecnica aggiuntiva per i pazienti che si sottopongono a interventi chirurgici che possono così aumentare il tono, migliorare la texture e schiarire la pelle in modo da completare il risultato delle procedure chirurgiche a cui si sono sottoposti.
Sebbene l’esatto meccanismo del photodanneggiamento sia complesso e per ora si siano individuati bene i segni clinici e gli aspetti biochimici associati al processo, il concetto di rimodellamento non ablativo del collagene fu sviluppato in seguito ai rischi anche di formazione di macchie e al significativo tempo di recupero associato all’ uso dei tratta­menti ablativi.
In conclusione, oltre a seguire gli opportuni accorgimenti per la fotoprotezione, l’associazione del peeling con l’impiego del laser Fraxel rappresenta una strategia vincente in grado di debellare una problematica difficile, quella delle antiestetiche macchie solari.

Autore:Dr.ssa Clara RIGO
Specialista in Dermatologia e Dermatologia estetica
VERONA Tel. 045 8300334
MILANO Tel. 02 2046160 3201106247
www.chirurgiadermatologiaestetica.it
info@chirurgiadermatologiaestetica.it
Pubblicazione aprile 2010

TATUAGGI COME RIMUOVERLI

Nel Medioevo i pellegrini usavano tatuarsi con simboli religiosi dei santuari visitati. La religione ebraica vieta tutti i tatuaggi permanenti, ovvero ogni incisione accompagnata da una marca indelebile di inchiostro o di altro materiale che lasci una traccia permanente. I tatuaggi permanenti sono vietati anche dalla religione musulmana mentre sono concessi i tatuaggi temporanei fatti per mezzo dell’ henna, pigmento organico di color rosso-amaranto, ricavato dalla pianta della “Lawsonia inermis”, “Henna” in arabo. I tatuaggi d’henna sono estremamente decorativi, quasi sempre con motivi floreali stilizzati; quelli molto elaborati finiscono per sembrare delle opere d’arte che hanno la durata media di qualche settimana. Altri popoli che svilupparono la tecnica del tatuaggio sono quelli dell’Oceania, famosi i Maori. Alla fine del XIX secolo l’uso di tatuarsi si diffuse anche fra le classi aristocratiche europee, tatuati celebri furono, ad esempio, lo Zar Nicola II e Sir Winston Churchill. E da segnalare che il criminologo Cesare Lombroso ritenne, in un’epoca di positivismo, essere il tatuaggio segno di personalità delinquente. La diffusione del tatuaggio in tutti gli strati sociali e fra le persone più diverse negli ultimi trent’anni relega tali considerazioni criminologiche a mera curiosità storica. 

I tatuaggi possono essere di vario tipo ma la forma più conosciuta, èquella che si effettua con un ago che introduce dell’inchiostro nella pelle. II risultato è un disegno che a seconda della miscela può essere permanente o temporaneo.
II tatuaggio occidentale viene invece eseguito tramite un disposivo elettrico, cui sono fissati degli aghi in numero vario a seconda dell’effetto desiderato; il movimento della macchina permette l’entrata degli aghi nella pelle, i quali depositano il pigmento nel derma. Tra e sostanze più usate ci sono il cinabro (per ottenere il rosso), il cromossido (per il verde) e il cobalto (per il blu) o polveri fini di minerali, oro o argento.
Più o meno grandi, con o senza scritta, i tatuaggi tradizionali durano per sempre, ma con il passare degli anni si schiariscono se non sono eseguiti da un professionista; non provocano in genere effetti collaterali, raramente però si possono verificare delle allergie alle sostanze coloranti usate.
In ogni caso è sempre preferibile ricorrere ad esperti che operino in ambienti idonei adatti, in condizioni igieniche ottimali ed utilizzino strumentazione monouso, dal momento che in caso contrario esiste il rischio di contrarre infezioni anche assai gravi.
Per quanta riguarda il trattamento successivo all’esecuzione di un tatuaggio la prassi consiste normalmente nell’applicazione di un bendaggio da rimuoversi dopo 1-3 ore per sciacquare (possibilmente con sapone neutro) eliminando il colore in eccesso. Da quel momento si consiglia di far prendere aria al tatuaggio e di coprirlo più volte al giorno con un sottilissimo velo di pomata lenitiva e protettiva. II tatuaggio deve essere lavato quotidianamente e guarisce completamente in 20-30 giorni.
Un tatuatore ha il compito di iscrivere sulla pelle in modo indelebile un disegno. Per la responsabilità conferitagli, egli deve essere persona coscienziosa e con profonda cono­scenza del mestiere. Un tatuatore serio, informa dettagliatamente il cliente sui rischi e gli oneri che comportano le sedute che servono a realizzare un lavoro.

COME RIMUOVERE UN TATUAGGIO
La crescente tendenza a sottoporsi a tatuaggi decorativi tra gli adolescenti e i giovani adulti ha determinato un
aumento dei pazienti che richiedono la rimozione di un tatuaggio. L’avvento del laser Q-switched ha rivoluzionato il trattamento per rimuovere i tatuaggi, dopo le delusioni legate all’utilizzo di altre tecniche, quali dermoabrasione, salabrasione, laser Argon o CO 2 che lasciavano esiti cicatriziali permanenti al posta del tatuaggio.
Quando si trattano i tatuaggi e importante determinare il tipo di tatuaggio, attraverso la valutazione del colore. Poichè i tatuaggi sono realizzati con vari colori di inchiostro e varie composizioni della tintura, la reazione ai trattamenti laser non è uniforme.
Una classificazione semplificata dei tatuaggi può essere questa:
* tatuaggi professionali (realizzati da un artista con una pistola per tatuaggi),
* tatuaggi artigianali (realizzati da un non professionista, utilizzando inchiostro India o carbonio),
* tatuaggi traumatici (dovuti alla penetrazione nella pelle di particelle estranee),
* tatuaggi cosmetici (cosiddetto “trucco permanente”),
* tatuaggi medici (utilizzati come guida per i trattamenti a radiazione o l’applicazione di apparecchi medici interni).

La maggior parte dei tatuaggi che si incontrano al giorno d’oggi è eseguita da professionisti.
I tatuaggi professionali sono più difficili da rimuovere di quelli; amatoriali perchè sono disegnati con inchiostri di più colori posti a varie profondità nel derma e spesso sono impossibili da rimuovere completamente con l attuali tecnologie.
Pertanto, definire aspettative realistiche per ciascun paziente è fondamentale per raggiungere un risultato soddisfacente. Deve essere ribadito con chiarezza che di norma sono necessari trattamenti multipli, variabili tra 5 e 20. Inoltre, anche dopo numerosi trattamenti, è probabile che alcuni pigmenti persistano.
Prima di sottoporre il paziente alla rimozione del tatuaggio, è fondamentale un’accurata anamnesi e la valutazione dei criteri d’esclusione comuni a tutti i trattamenti laser.
Si deve procedere con estrema cautela nei pazienti di carnagione scura (fototipi IV-VI secondo Fitzpatrick) o abbronzata perchè possono presentarsi come effetti collaterali al trattamento con il laser sia ipopigmentazione temporanea sia ipopigmentazione iperpigmentazioni permanenti dovute all’assorbimento competitivo della luce da parte della melanina che si trova nell’epidermide.
II paziente ideale per la rimozione di un tatuaggio è un soggetto dalla carnagione chiara non abbronzata (foto­tipo I 0 II) e con un tatuaggio blu scuro o nero che è state fatto da almeno un anno. Più vecchio è il
tatuaggio, migliore sarà la risposta al trattamento con il laser poichè i macrofagi ovvero le cellule “spazzine” sono già presenti nella cute e stanno attivamente tentando di fagocitare i pigmenti estranei per rimuoverli. Questo tentativo naturale dell’organismo di rimuovere i pigmenti estranei dell’inchiostro del tatuaggio è la ragione per cui i tatuaggi più vecchi sono spesso illeggibili e hanno margini sfocati o indistinti. Quando un tatuaggio viene trattato con luce proveniente da un laser Q­switched, le particelle del tatuaggio si scompongono in frammenti più piccoli, facilitando la rimozione da parte dei macrofagi e rendendo possibile in alcuni casi la rimozione completa del tatuaggio.Al contrario, tatuaggi recenti a più colori fatti su individui di carnagione scura possono essere molto difficili da rimuovere completamente e il trattamento dovrebbe essere tentato solo da chirurghi esperti per ridurre il rischio di cicatrici o di alterazioni della pigmentazione.
Come detto in precedenza, di solito sono necessari 5-20 trattamenti per rimuovere completamente o quasi un tatuaggio e anche dopo numerosi trattamenti alcuni tatuaggi possono non essere rimossi completamente con le attuali tecnologie.
La risposta del tatuaggio alla luce laser è influenzata dal colore, dalla profondità e dalla composizione chimica dell’inchiostro utilizzato.
I tatuaggi blu scuro o neri rispondono meglio alla laser terapia mentre i pigmenti giallo, rosso e verde possono rispondere poco o solo in maniera incompleta al trattamento. II trattamento dei tatuaggi bianchi e cosmetici dovrebbe essere evitato da medici che non abbiano acquisito una buona esperienza poichè questi possono mutare permanentemente in un colore più scuro o grigio immediatamente dopo la terapia con il laser Q switched e risultare poi impossibili da rimuovere.
Quando un tatuaggio viene completamente rimosso dal laser, di solito lo è in maniera permanente.
Bersaglio della luce laser e il pigmento, con un minima coinvolgimento dei tessuti circostanti. Questo fa si che la maggior parte dei pazienti avverta solo un modesto disagio durante il trattamento. Nei pazienti più sensibili è prevista l’applicazione di una crema anestetica.
Vi e un’ampia variabilità di costi per la rimozione di un tatuaggio mediante laser legata alla dimensione del tatuaggio e al numero di trattamenti necessari per ottenere un’eliminazione il più completa possibile. Alcuni tatuaggi di grandi dimensioni, policromatici e resistenti possono richiedere molti trattamenti costosi per ottenere uno schiarimento sufficiente a soddisfare il paziente.
Una profilassi orale antivirale dovrebbe essere sempre presa in considerazione nei pazienti con una storia di herpes simplex (HSV) nel sito del trattamento o vicino ad esso. Se e presente un’infezione da HSV attiva nel giorno previsto per il trattamento laser, l’appuntamento dovrebbe essere annullato e rimandato fino ala completa guarigione dell’area e finchè il paziente non possa essere sottoposto a un’appropriata profilassi antivirale preoperatoria prima dell’inizio del trattamento.
La luce dei laser Q-switched può causare danno permanente alla retina e perdita della vista. Pertanto è necessario proteggere gli occhi con occhiali schermati od occhialini specifici per il laser in uso.
Anche le persone presenti nella stanza durante il trattamento laser dovrebbero indossare adeguate protezioni per gli occhi.
Subito dopo il trattamento residua un po’ di gonfiore, che può essere ridotto raffreddando la pelle con l’applicazione di ghiaccio.
Se è stato usato un laser Q-switched, l’area pare abrasa dopo il trattamento. Occorre applicare uno strato di unguento antibiotico o vaselina sotto un bendaggio non adesivo e insegnare al paziente a cambiare la medicazione due volte al giorno dopo aver ripulito delicatamente l’area con acqua e sapone. L’operazione dovrebbe essere ripetuta finchè l’area non si è completamente riepitelizzata. L’area dovrebbe essere tenuta umida con vaselina o con un unguento antibiotico e non si dovrebbe mai formare una crosta secca. L’area trattata dovrebbe guarire in 5-14 giorni.
Ulteriori trattamenti dovrebbero aver luogo a distanza di 6-8 settimane. Nei trattamenti successivi, il flusso di energia (J/cm2) può essere aumentato poco a poco (1-2 Joule) fino ad un massimo che varierà in base al laser e alla natura del tatuaggio trattato.
Quando si valuta un paziente con un tatuaggio prima di iniziare la terapia, bisogna palpare con cura ed esaminare il sito per essere sicuri che non siano presenti cicatrici, ipopigmentazione o indurimenti. E’ probabile che molti pazienti non si rendano conto che le attuali procedure di tatuaggio possono causare sia cicatrici sia perdita della normale pigmentazione. Se il trattamento laser per la rimozione di un tatuaggio fa emergere una
di queste complicanze, può accadere che il paziente accusi ingiustamente il medico di averla causata, quando, di fatto, era gia presente prima del trattamento. La fotografia preoperatoria e un altro metodo eccellente per documentare l’aspetto del tatuaggio sia prima sia nel corso del trattamento. Molti pazienti possono scoraggiarsi nel non vedere evidenti miglioramenti dopo alcuni trattamenti, ma le fotografie scattate prima e durante le varie fasi del trattamento possono essere mostrate al paziente e dimostrare l’effetto che trattamento ha avuto.

Rimozione di tatuaggi cosmetici.
Quando i tatuaggi vengono usati per far risaltare la forma delle labbra, ricostruire o migliorare l’aspetto delle sopracciglia o ricostruire l’aspetto dell’areola in seguito a una mastectomia, la tecnica prende il nome di tatuaggio cosmetico. Gli inchiostri sono di solito una miscela di pigmenti bianchi (titanio) e rossi (ossido di ferro), la cui relativa concentrazione e determinata dal sito e dalla pigmentazione naturale dell’area da trattare. Talvolta, questi tatuaggi sono eseguiti da persone inesperte, oppure lo stile cambia rendendo l’aspetto del tatuaggio “fuori moda”, oppure ancora il paziente può semplicemente non gradirne l’aspetto.
Indipendentemente dal motivo, alcuni pazienti chiedono la rimozione di un tatuaggio cosmetico. In queste situazioni, bisogna sempre prestare attenzione al fenomeno dello scurimento del pigmento, che è stato ormai osservato con tutti i laser Q­switched usati per la rimozione dei tatuaggi. Quasi immediatamente
dopo il trattamento laser, nella cute ha luogo una reazione chimica che cambia l’originale colore bianco o rosso in grigio o nero. Questo colore non è solo inaccettabile dal punta di vista cosmetico, ma è anche molto difficile da rimuovere con successivi trattamenti. Per questa ragione, si deve adottare estrema cautela eseguendo in primo luogo un piccolo test nella parte meno visibile del tatuaggio usando uno spot il più piccolo possibile. Normalmente, il cambio di colore è immediato. Per una maggiore sicurezza, sarebbe preferibile condurre il test e poi visitare il paziente 6-8 settimane dopo, per stabilire se siano indicati ulteriori trattamenti. Se non si è verificato alcuno scurimento del tatuaggio e il colore si è sbiadito, sarebbe ragionevole procedere con il trattamento vero e proprio, ma solo con il consenso scritto del paziente perchè lo scurimento può ancora verificarsi durante trattamenti futuri e può essere permanente.

Autore: Dr.ssa Tiziana LAZZARI
Medico Specialista in Dermatologia, Venereologia e Chirurgia estetica
Genova
Pubblicazione aprile 2010

CELLULEVIVE: BIORIVITALIZZAZIONE E ANTIAGING DEL FUTU

Occorre sottolineare che circa un 6% di pazienti è allergico al collagene con comparsa di reazioni avverse, anche se oggi il prodotto si è evoluto e ha superato certi limiti e si è arrivati al collagene di derivazione umana, che è stato estratto dapprima dall’ uomo e poi elaborato con l’ ingegneria genetica che si occupa di tessuti e riprodotto nella sua esatta composizione in laboratorio. E ancora che queste sono correzioni temporanee, poiché le proteine da cui sono costituiti i filler sono distrutte dalle collagenasi e dai radicali liberi presenti nei tessuti vivi in cui sono iniettati, per cui, entro qualche mese dall’ iniezione, il prodotto è completamente degradato e metabolizzato. 

Per superare tutti questi limiti, si è pensato di sviluppare una tecnica di coltura di cellule vive autologhe, cioè provenienti da quella persona stessa che si sottopone al trattamento.

Cellule vive: è questa la parola chiave intorno a cui si muove la medicina del futuro, base da cui partire per individuare le terapie più avanzate.
Occorre tenere presente che i problemi dell’invecchiamento sono legati a molti cambiamenti, in particolare della cute, dove nel derma c’e via via una perdita di acido jaluronico che comporta una minore idratazione e, contemporaneamente, un’usura delle fibre collagene ed elastiche.
Queste stesse mantengono la corretta architettura strutturale del derma, cioè l’impalcatura dove poggia l’epidermide che è la parte più superficiale e visibile.
Una volta alterata si ha una conseguente formazione di rughe e rilassamento dei tessuti con evidente cedimento dei contorni del viso per scollamento della cute dai tessuti sottostanti; con questa tecnica insieme ad altre metodiche mediche o chirurgiche si cerca di agire riparando la comparsa di questi eventi.
Le proteine connettivali, collagene ed elastina vengono prodotte da un tipo di cellula chiamata “fibroblasto” presente nel derma.
Quando queste cellule sono vive, vitali e numerose la cute appare sana, compatta ed elastica. L’invecchiamento penò comporta una diminuzione di numero e di attività di queste cellule, con rallentamento e cattiva produzione della proteina chiave del derma, cioè del collagene. Ciò si traduce in riduzione dello spessore, della compattezza e dell’ elasticità cutanea.
Con l’uso delle cellule vive si può arrivare ad una sufficiente correzione dei difetti del viso e si verificano meno rischi di reazioni avverse perchè le cellule sono del proprio organismo.
Si tratta di una metodica innovativa: è una sorta di biorivitalizzazione veramente rivoluzionaria, che non si basa sull’uso di vitamine o biostimolanti, ma dei propri fibroblasti.
Come si arriva ad ottenere queste preziose cellule per la salute della pelle?
La tecnica consiste, dapprima, in un minimo prelievo ambulatoriale di una piccolissima e sottile porzione, 3 mm di cute della regione dietro l’ orecchio, prelevata dal paziente che si vuole sottoporre al trattamento.
Da questo microprelievo, inserito in un apposita provetta con un brodo di conservazione, cioè un liquido dove viene immerso il frammento di cute, viene estratta una riserva personale di cellule fresche vitali e attive, in grado di restituire al viso un aspetto tonico e giovane.
II laboratorio biotecnologico dove viene inviato il frammento e specializzato nella coltura e conservazione di tessuti umani, come ad esempio il cordone ombelicale. Le cellule chiave della rivitalizzazione dei tessuti cutanei vengono perciò estratte, espanse e una parte crioconservate:
- 196 gradi centigradi, in azoto liquido, e la temperatura a cui vengono conservate per dieci o venti anni le cellule di cute prelevate .
Queste cellule, cioè i fibroblasti autologhi vivi, moltiplicati numericamente, vengono poi riiniettati direttamente nel derma del paziente come un rivitalizzante o un filler, senza pericolo di rigetto o allergie.
Dove vengono collocate, queste stesse creano un sistema continuo di riparazione proteica.
Coltivare in vitro i fibroblasti estratti dal campione prelevato permette di disporre in poco tempo di un elevato numero di cellule vitali e attive; il loro deposito e destinato ad un impiego immediato, ma anche futuro.
Congelando un campione delle proprie cellule a bassissime temperature oggi, è possibile, alla comparsa dei primi segni del tempo, reiniettarle moltiplicate e vitali dove serve. Recenti studi hanno dimostrato obiettivamente e soggettivamente, durante i 12 – 48 mesi successivi, un aumento di produzione di fibre collagene nei difetti del viso trattati.
E anche l’analisi istologica dimostra che l’iniezione dei fibroblasti, oltre ad aumentare la formazione di collagene, è accompagnata da un concomitante aumento della compattezza e delila densità della texture cutanea.
Ringiovanire la pelle riportandola indietro nel tempo con l’utilizzo di tecniche assolutamente naturali come quella descritta è ifl sogno di ogni uomo e donna e le biotecnologie dei tessuti umani ci stanno venendo sempre più incontro per trasformare questo sogno in realtà.

Autore: Dr.ssa Clara RIGO
Specialista in Dermatologia e Dermatologia estetica
VERONA Tel. 045 8300334
MILANO Tel. 02 2046160 www.chirurgiadermatologiaestetica.it
info@chirurgiadermatologiaestetica.it
Pubblicazione marzo 2010

LE ALLERGIE PROFESSIONALI

Questo dato è spiegabile con il fatto che apprendisti e neoassunti sono più spesso destinati a mansioni che comportano una maggiore esposizione a detergenti, sostanze chimiche aggressive ed acqua (lavaggio, tintura e pulizie dell’ambiente), rispetto ai professionisti più esperti, impiegati in attività a minor contatto con agenti irritanti ed allergizzanti (taglio e piega). Nei primi anni di lavoro, inoltre, vi è una minor consapevolezza dell’importanza dell’utilizzo costante di misure di protezione individuale come i guanti. 

Nei parrucchieri sono frequenti sia le dermatiti eczematose da contatto irritante (DIC), che le dermatiti allergiche da contatto (DAC) delle mani.
Le prime sono indotte dalle frequen­tissime esposizioni ad acqua, shampoo e balsami. Lo sviluppo di una DIC delle mani è pertanto di solito il risultato di una esposizione cronica e cumulativa a deboli irritanti piuttosto
che ad irritanti forti. II “lavoro bagnato”, quando si protrae per oltre 2 ore, è ritenuto il principale fattore di rischio per DIC. Inoltre, il contatto con i tensioattivi presenti negli shampoo, compromettendo I’organizzazione dei lipidi cutanei, modifica la permeabilità e le capacità di barriera della cute.
Clinicamente la DIC si manifesta con una dermatite caratterizzata da arrosamento, desquamazione e fissurazioni soprattutto nelle aree di flessione delle articolazioni delle mani; con il tempo possono insorgere profondi spacchi ragadiformi tanto dolorosi da compromettere le normali capacità lavorative. La DAC si verifica solo in coloro che si allergizzano a qualche sostanza (allergene). , più comuni allergeni responsabili di DAC nei parrucchieri sono le amine aromatiche presenti nelle tinture permanenti per capelli, come la parafenilendiamina (responsabile del colore nero) e la paratoluendiamina (colorazione più rossastra). II 17-58% dei parrucchieri sottoposti a patch test mostra una reazione positiva alla parafenilendiamina e il 14-25% alia paratoluendiamina. Altri importanti allergeni professionali dei parrucchieri sono l’ammonio persolfato presente in prodotti decoloranti e il gliceril monotioglicolato in prodotti per permanenti. Sono frequenti anche allergie a coloranti azoici (Disperso arancio 3), che possono dare reazioni crociate sia con la parafenilediamina che con la paratoluendiamina.
Clinicamente la DAC si manifesta in modo simile alla DIC e i due quadri, che possono coesistere, sono spesso difficilmente distinguibili. Nelle DAC sono più accentuati gli aspetti infiammatori e nelle forme acute sono talora evidenti piccole vescicole che, rompendosi, comportano fenomeni essudativi. Nelle forme croniche si apprezza cute secca, ispessita e fissurata. Più intensa è di solito la sintomatologia pruriginosa. Gli estetisti sono esposti agli stessi rischi dei parrucchieri essendo a contatto sia con agenti irritanti (lavoro umido, detergenti … ) che con allergeni come oli essenziali, profumi e conservanti dei cosmetici .Una recente fonte di allergia professionale osservata negli estetisti è rappresentata dalla attivà di ricostruzione delle unghie.
Le lavoratrici sono esposte a resine acriliche altamente allergizzanti durante il processo di costruzione dell’unghia. In questo caso sembrano essere agenti responsabili delle allergie soprattutto i monomeri liberati durante il processo di polimerizzazione delle resine (idrossietilmetacrilato, metil metacrilato .. ). La dermatite interessa le falangi distali delle dita per estendersi poi a tutte le dita e al dorso delle mani. Sono possibili anche localizzazioni a distanza (volto, collo) per diffusione aerotrasmessa degli allergeni. Per una diagnosi corretta delle dermatiti delle mani, sia in parrucchieri che in estetisti, è fondamentale l’esecuzione dei test epicutanei a lettura ritardata (patch test) da eseguirsi anche con le specifiche serie professionali di allergeni (Serie Parrucchieri, serie Profumi e serie Cosmetici). Spesso, specie negli estetisti, è utile eseguire i test anche con i prodotti commerciali utilizzati in ambiente lavorativo, testati come tali.
Ovviamente tali test devono essere eseguiti in centri dermatologici specializzati. Una volta che la dermatite da contatto si è instaurata è spesso difficile ottenerne la guarigione se persiste l’esposizione agli irritanti ed agli allergeni, cioè se l’operatore continua la mansione. E pertanto di fondamentale importanza l’attuazione di misure di prevenzione come l’utilizzo di guanti per evitare il contatto con allergeni ed irritanti, “uso di creme emollienti ed idratanti appropriate, ma soprattutto istituire corsi informativi ed educativi sulla pericolosità delle sostanze manipolate. E’ ora dimostrato che i guanti, anche di diversi materiali (latice, vinile, nitrile), se appropriatamente usati, sono una valida barriera verso i principali allergeni di parrucchieri ed estetisti. Bisogna però evitare di ri-indossare o riciclare guanti già usati che, se indossati a rovescio, potrebbero essere contaminati e potrebbero addirittura, data l’occlusione, facilitare la penetrazione di allergeni.

DERMATITE ALLERGICA DA CONTATTO DA COSMETICI
Dr.ssa Rosella Gallo
Sezione di Dermatologia – Di.S.E.M.
I prodotti cosmetici possono causare diversi tipi di reazioni avverse, la cui prevalenza sembrerebbe relativamente bassa se rapportata all’ampio uso di questi prodotti. Si ritiene che il fenomeno sia in realtà sottostimato perchè molte reazioni da irritazione, soprattutto se di lieve entità, non giungono all’attenzione dei dermatologi e non vengono segnalate dai consumatori che risolvono il problema semplicemente sostituendo i prodotti in causa.
Ben diverso è il caso delle ermatiti allergiche da contatto (DAC) che, qualora non vengano riconosciute e correttamente diagnosticate, possono causare notevoli disagi e quadri clinici anche gravi. La prevalenza di DAC da cosmetici nella popolazione generale è bassa (0.4%), ma sale al 10% circa tra i pazienti sottoposti a test epicutanei, i test diagnostici utilizzati dai dermato-allergologi per identificare gli allergeni causa di DAC (1). Tali test, detti anche “patch test”, consistono nella applicazione sulla cute del dorso di speciali cerotti contenenti una serie dei più comuni allergeni da contatto integrati eventualmente da allergeni supplementari sospettati in base all’anamnesi. I cerotti vengono rimossi dopo 48 ore con un secondo controllo dopo 72 ore per verificare se uno o più allergeni hanno dato reazione positiva. Molti ingredienti dei cosmetici, in particolare fragranze e conservanti, sono potenziali allergeni da contatto e la serie standard dei test epicutanei comprende ben tre sostanze rivelatrici di allergia a fragranze (Profumi mix, Balsamo del Peru e Lyral) e quattro conservanti (Kathon, Parabeni, Formaldeide, Metildibromo, Glutaronitrile). Altri comuni allergeni correlati ai cosmetici so no la Paraenilendiamina, (il principale allergene delle tinture per capelli) gli Alcoli della Lanolina (una sostanza emolliente) e la Colofonia (una sostanza resinosa ricavata dalle conifere, i cui derivati si possono trovare soprattutto in prodotti da trucco come mascara e matite per occhi). La legislazione Italiana sui cosmetici, in conformità con quella CEE, contiene norme specifiche volte a limitare il rischio di reazioni allergiche da contatto e a facilitare l’identificazione dei prodotti che contengono potenziali allergeni. In particolare, il Dig n. 50 del 15-2-2005 riporta indicazioni e restrizioni riguardanti fragranze e conservanti. Per esempio il Kathon non può essere usato in concentrazione superiore allo 0,0015 %, mentre la normativa ha di recente proibito l’impiego nei cosmetici del Dimetildibro-moglutatronitrile, un conservante fortemente allergenico fino ad ora consentito, a basse concentrazioni, solo nei prodotti a risciacquo. A partire dall’ 11 marzo 2005, inoltre, vige l’obbligo per i produttori di indicare in etichetta gli ingredienti con il loro nome INCI (International Nomenclature Cosmetic Ingredients), una terminologia, prevalentemente in lingua inglese, stabilita dalla COLIPA per dare uniformità internazionale all’etichettatura dei cosmetici. II Kathon, per esempio, è riportato in etichetta come Methylchloroisothiazolinone/Methylisothiazolinone. Per quanta riguarda le fragranze, a tutt’oggi la più frequente causa di DAC da cosmetici, la legge prescrive che le sostanze profumate siano segnalate in etichetta con il termine generico “parfum” o “aroma”, salvo che nel caso di 26 sostanze specifiche, a riconosciuto potere sensibilizzante, che devono essere elencate singolarmente, con il loro nome INCI, se presenti in concentrazione superiore ai 0,01% nei prodotti a risciacquo e 0,001% nei prodotti che non vengono risciacquati (creme, lozioni, fondotinta ecc). La concentrazione consentità è piu alta per i prodotti a risciacquo in quanto questi, non restando a lungo a contatto con la pelle, comporterebbero teoricamente un minor rischio di sensibilizzazione. Tuttavia saponi e detergenti in genere, se vengono poco e mal risciacquati, possono facilmente causare irritazione ed eventualmente anche allergia. L’etichettatura INCI è molto utile da un punta di vista dermato-allergologico perché consente di identificare i cosmetici contenenti l’uno o l’altro allergene, ad eccezione di eventuali impurezze che non si ritrovano ovviamente tra gli ingredienti. Per quanto riguarda il nichel, la più nota tra queste impurezze, la legge sottolinea il fatto che nessun cosmetico può contenere nichel se non in tracce inevitabili dovute ai processi di lavorazione. Grazie all’ottimizzazione di tali processi i consumatori allergici al nichel possono utilizzare oggi senza rischi la grande maggioranza dei prodotti in commercio e la DAC da nichel nei cosmetici può essere considerata ormai un evento raro, se non eccezionale. Sebbene tutte queste misure contribuiscano a limitare l’incidenza di DAC causata dagli allergeni più comuni, nessuna formulazione cosmetica è del tutto esente dal
rischio di indurre sensibilizzazione allergica e la letteratura è ricca di segnalazioni di DAC da “allergeni emergenti”. Di fronte al sospetto clinico di reazione allergica da contatto da cosmetici è importante rivolgersi
al dermatologo e sottoporsi ai test epicutanei. In caso di negatività dei patch test standard, è importante sospendere i cosmetici sospetti ed eventualmente testarli come tali con la metodica del test ripetuto in aperto (ROAT). II ROAT consiste nell’applicare il prodotto sospetto alla piega del gomito, mattino e sera, fino alla comparsa di una reazione eczematosa o per un massimo di 10 giorni, qualora non si verifichi nessuna reazione.
Una volta individuato con certezza il prodotto o i prodotti responsabili, sarà possibile effettuare test più approfonditi per identificare il/i componenti allergenici. Fino a quando non si siano identificati gli allergeni o, quantomeno, i prodotti in causa, sarebbe opportuno utilizzare pochi prodotti cosmetici, a composizione molto semplice e con basso numero di componenti. Ciò può, da un lato, favorire la guarigione clinica, riducendo il rischio di reazioni avverse, dall’altro facilitare l’identificazione dell’allergene, qualora si verifichi una reazione avversa ai prodotti scelti.

DERMATITI DA CONTATTO ALLERGICHE IN ETA’ PEDIATRICA
Serena Lembo, Nicola Balato
Clinica Dermatologica
Università di Napoli Federico II
Le dermatiti da contatto allergiche dei bambini sono ritenute, oggi, essere molto più comuni di quanto si pensasse in precedenza, rappresentando circa il 20 % delle dermatiti dell’età pediatrica. In passato si credeva che
i bambini fossero meno esposti a sostanze chimiche e che il loro siste­a immunitario non fosse stimolato alla produzione di anticorpi specifici.
Numerosi studi ed analisi retrospettive di database italiani ed internazionali hanno dimostrato che si tratta, invece, di un problema di frequente riscontro. II picco di incidenza di tale patologia, secondo alcuni autori, è riferibile a bambini di età inferiore ai 3 anni, secondo altri, invece, sembra i essere l’adolescenza il periodo più rappresentativo. La cute del bambino è più sottile di quella dell’adulto, la matrice cementante extracellulare è spesso deficitaria, per cui l’incompleta adesione tra i cheratinociti non garantisce la perfetta impermeabilità
della barriera cutanea rispetto agli agenti esterni irritanti. Inoltre si deve considerare che al di sotto degli 8 anni l’aumento del rapporto superficie cutanea/volume corporeo predispone i bambini ad assorbire maggiormente le sostanze chimiche applicate sulla cute, rispetto all’adulto. Anche le sostanze chimiche a cui sono esposti i bambini differiscono da quelle degli adulti: basta pensare all’ industria cosmetica di prodotti per l’igiene dei bambini, come creme, detergenti e shampoo specifici, preparazioni associate ai pannolini, o, ancora, alle sostanze contenute nei giocattoli, o in alcuni medicinali e vaccini specifici. E’ compito del dermatologo saper riconoscere i segni di una dermatite da contatto ed indirizzare i genitori dei “giovani” pazienti attraverso specifiche procedure diagnostiche, terapeutiche e preventive.
Sui territorio nazionale sono numerosi i centri di dermatologia allergologica collegati con la Socieàa Italiana di Dermatologia Allergologica, Professionale ed Ambientale (SIDAPA) che propone linee guida sempre aggiornate nel settore. Quando il dermatologo sospetta una dermatite da contatto invita i genitori del piccolo ad effettuare test allergologici chiamati test epicutanei o patch test: attraverso l’applicazione cutanea diretta di una serie specifica di sostanze, si riesce ad individuare quella eventualmente responsabile del problema cutaneo. Esiste per l’appunto una serie “pediatrica” di apteni da testare, risultati dalla selezione di quelli più frequentemente responsabili di dermatiti dell’età infantile. Questa serie di sostanze viene periodicamente aggiornata e talora integrata, secondo le condizioni ambientali e le abitudini comportamentali che potrebbero portare nuovi componenti dannosi a contatto con la pelle dei bambini. I più recenti studi italiani, in accordo con quelli internazionali, indicano i metalli come responsabili più comuni delle dermatiti allergiche da contatto in età pediatrica: tra questi il Nichel solfato ed il Cobalto contenuti nei monili, nelle monete, nelle sedie di scuola, negli apparecchi ortodontici. Anche alcune fragranze e conservanti, come il Timerosal o le Cocamidopropilbetaine componenti di bagnoschiuma, shampoo e creme, sono frequentemente responsabili di dermatiti. Da non sottovalutare inoltre il potere irritante ed allergizzante di alcuni componenti delle scarpe, di coloranti tessili e di alcuni principi farmaceutici contenuti nelle creme che vengono prescritte per curare la stessa dermatite. I cortisonici topici, ad esempio, possono essere responsabili di dermatiti da contatto.
Per una corretta diagnosi e indispensabile rivolgersi al dermatologo e praticare le indagini adeguate.
Se non si individua e non si allontana l’agente causale, la dermatite assumerà andamento recidivante o cronico a dispetto di ogni terapia. E’ inoltre fondamentale saper consigliare i genitori su come evitare i prodotti contenenti la sostanza responsabile, fornendo schede informative su che cosa può, o non può, essere usato dal piccolo paziente.

LE FOTO DERMATITI ALLERGICHE
Paolo Daniele Pigatto
Dipartimento di Tecnologie per la Salute Ospedale R Galeazzi & Università degli Studi di Milano
Nella pratica dermatologica stanno aumentando i casi di dermatiti indotte dal contatto con alcune sostanze
ambientali e dall ‘esposizione alla radiazione ultravioletta ; queste forme vengono diagnosticate come fotodermatite allergica da contatto (fotoDAC) rappresentano circa il 10 % del totale delle fotodermatiti.
La frequenza è in aumento sia perchè vengono utilizzati molti prodotti cosmetici e aumenta il contatto con materiali presenti in alcune lavorazioni ma soprattutto per l’aumentata esposizione a fonti di radiazioni UV sia naturali che artificiali. Molte sostanze sono state definite fotoallergizzanti, ma l’esatto meccanismo d’azione con il quale si instaura la sensibilizzazione allergica rimane ancora non completamente chiarito. Infatti il trattamento UV appare interferire direttamente con l’induzione e l’espressione della ipersensibilità da contatto, senza deprimere invece alcune reazioni immuni cellulomediate. Lo sviluppo di cloni T linfocitari citolitici e il rigetto di tessuti allogenici non è alterato dalla esposizione animale a radiazioni UV. Al momento attuale non sembra invece possibile stilare dei dati conclusivi sugli altri tipi di immunità cellulomediata e saranno necessari altri studi per valutare il comportamento delle risposte immuni di tipo ritardato ad antigeni proteici e la risposta alle infezioni da microorganismi intracellulari.
I soggetti affetti da fotoDAC rappresentano una minoranza di soggetti esposti a sostanze immunogene forse legata alla loro costituzione genetica. La prevalenza della FotoDAC è variabile negli anni legata probabilmente all’introduzione e l’uso di nuove sostanze nei cosmetici e nei farmaci. Esistono pochi studi significativi pubblicati (Am.J.Cont.Derm. 7: 158-163, 1996) e solo lo scorso anno è stato pubblicato un lavoro frutto di
un lungo studio di standardizzazione delle metodiche diagnostiche e di una rilevazione dei risultati a livello nazionale (Contact Dermatitis 2008: 59: 103-108). I centri che hanno partecipato all’indagine sono stati numerosi e distribuiti in modo omogeneo a livello nazionale (tab1). Lo studio è state condotto in modo retrospettivo multicentrico per determinare la prevalenza di fotoallergica dermatite da contatto in Italia. La procedura prevedeva l’ applicazione di una doppia serie di apteni tenuti in situ per 48 ore. Dopo questo periodo entrambe le serie venivano rimosse e una soltanto veniva ricoperta con materiale opaco. Si procedeva alla fotoirradiazione con una dose variabile in relazione al fototipo da 3 a 5 Jcm2 (precedentemente 5-10 J cm2) di luce UVA ottenuta da 6 lampade Philips TLK 40 /09 N in grado a 20 cm di distanza di emettere 5 mW/cm2. I tempi di irradiazione variavano pertanto da 10 a 17 minuti. I pazienti venivano osservati a 10 minuti e a 24 e 48 ore dopo la fotoirradiazione.
L’ allergia da contatto fotoallergica veniva diagnostica quando la sola zona fotoirradiata era positiva mentre l’altra non mostrava alterazioni. Infine per la valutazione della rilevanza il paziente positivo veniva reinquadrato in base alla storia clinica , la effettiva presenza dell’aptene e un nesso temporale valido tra foto-esposizione e comparsa della dermatite. Sono stati valutati un totale di 1.082 pazienti con storie e caratteristiche cliniche suggestive
di dermatite da contatto fotoallergica Tutti i pazienti erano stati sottoposti a photopatch test con allergeni proposti per l’Italia, nonchè con altre sostanze suggerite dalla storia personale di ciascun paziente. 234 pazienti (21,6%)
sono risultati positivi ad almeno una sostanza al photopatch test standard con un totale di 290 reazioni positive. 204 delle reazioni sono state vere reazioni fotoallergiche; 68 reazioni sono state di tipo allergico semplice; 18 le reazioni sono state considerate fototossico. Lo sforzo unificativo e di selezione sia dei pazienti che dei centri operanti sui territorio nazionale che si estende in senso verticale dal 46° al 38° parallelo ha dovuto tenere conto di condizioni di esposizioni solari e d’abitudini di vita molto differenti. Il gruppo predominante dei fotoallergeni era quello dei farmaci, seguita dai filtri UV e dagli agenti antimicrobici. II gruppo merceologico più cospicuo è costituito dai farmaci con il chetoprofene leader indiscusso del gruppo topico di impiego tipicamente mediterraneo per la piccola traumatologia e la terapia domestica del dolore . II chetoprofene è ora giunto al primo posto tra i fotoapteni sempre più autosomministrato in Italia mentre molto meno frequenti appaiono gli
altri farmaci arilpropionici come ibuproxam e ibuprofene. Recentemente si è aggiunto l’etofenamato con un numero cospicuo di fotoallergie già precedentemente segnalato dai colleghi spagnoli come importante fotoaptene della realtà iberica. Facendo un confronto con il nostro primo studio vediamo che non abbiamo notato nessun nuovo caso di fotoDAC da additivi dei cosmetici e da piante. Rispetto alla nostra precedente indagine stanno acquistando una certa rilevanza numerica i casi dovuti a topici protettori solari che sono saliti al secondo posto assoluto dopo i farmaci. La campagna di difesa dall’ esposizione sconsiderata al sole sta sortendo i suoi effetti.

Tabella 1 . Centri che hanno
preso parte nello studio
Genova
Verona
Roma
Bologna
Firenze
Bari
Milano
Napoli

“UPDATE” SULLA DERMATITE DA CONTATTO DA NICHEL
Colombina Vincenzi, Antonella Tosti
Dipartimento di Medicina Interna, dell’Invecchiamento e Malattie Nefrologiche
Gruppo di Ricerca in Clinica Dermatologica, Alma Mater Studiorum Universita di Bologna

II nichel rappresenta la causa più frequente di dermatite da contatto nella popolazione generale (incidenza di sensibilizzazione 15% per le donne e 3% nei maschi), sia nei bambini che negli adulti, e anche in campo professionale è la causa più frequente di dermatite da contatto cronica delle mani. II nichel si trova in moltissimi prodotti sia industriali che di uso comune come l’acciaio inossidabile, parti metalliche di abbigliamento (bottoni, fibbie, ganci), bigiotteria, orologi, monete di metallo, ect, ed è pertanto quasi impossibile evitarne il contatto nella vita quotidiana. La principale fonte di sensibilizzazione al nichel è rappresentata dal “piercing” cioè dalla foratura dei lobi auricolari o di qualsiasi altro distretto cutaneo; l’81.5% delle donne che sono allergiche al nichel avevano fatto il “foro” all’orecchio. L’allergia al nichel è favorita anche dalla sudorazione, infatti il sudore aumenta il rilascio di ioni liberi di nichel dagli oggetti di metallo. II rischio di sensibilizzazione al nichel aumenta quano più nichel viene rilasciato dagli oggetti metallici a contatto con la cute e da quanta più è prolungato il contatto dell’oggetto con la superficie cutanea. Nel tentativo di ridurre l’incidenza della dermatite da contatto da nichel, nel 1994 l’Unione Europea emanava una direttiva (94/27 ICE) in cui inseriva il nichel fra le sostanze ed i preparati pericolosi, limitandone l’impiego in alcuni oggetti destinati ad entrare in contatto diretto e prolungato con la cute (limite di 0.5 ug/kg/week) . Nonostante questa direttiva il nichel continua ad essere al “primo” posto come prevalenza di causa di allergia fra i soggetti sottoposti a patch test, raggiungendo picchi del 30% fra le donne e 8% fra i maschi; e frequente anche nei bambini (15%) e nei soggetti più anziani (13%). Sono stati descritti anche casi di allergia al nichel in neonati e bambini molto piccoli e in questi casi le fonti di sensibilizzazione sono diverse fra cui, oltre agli orecchini, i gioielli usati dalla madre, culle di metallo, bottoni e ganci delle tutine, giocattoli di metallo, maniglie delle porte e altro. Anche gli apparecchi ortodontici possono essere causa di allergia al nichel, manifestandosi con cheilite, dermatite periorale e stomatite, anche se si è visto che la frequenza di sensibilizzazione al nichel è più bassa fra i bambini che, prima di effettuare il piercing, hanno usato un apparecchio con il nichel. E’ invece ancora da stabilire quanto una protesi ortopedica di metallo possa indurre o esacerbare una dermatite da contatto da nichel; l’allergia al nichel non viene comunque considerata una controindicazione all’applicazione di una protesi. In ambito professionale, soprattutto fra coloro che lavorano nelle industrie che producono acciaio inossidabile, materiali elettrici, batterie, monete etc, il contatto con il nichel è alquanto significativo e quindi è alto il rischio di sviluppare non solo una dermatite da contatto da nichel ma anche problemi respiratori come l’asma allergico. Non si conosce però la prevalenza di allergia da nichel dovuta esclusivamente all’ambiente lavorativo, in genere chi è già sensibilizzato al nichel può sviluppare secondariamente una dermatite da contatto, in genere delle mani, che è difficile prevenire anche con l’utilizzo di guanti di gomma in quanto il nichel è in grado di penetrare anche attraverso la gomma. II trattamento della dermatite da contatto da nichel , vista la sua ubiquitarietà, è molto difficile e quindi è importante una diagnosi precoce e attuare strategie sia preventive che terapeutiche. Per la diagnosi è importante valutare la sede della dermatite in quanto la dermatite da contatto da nichel è in genere localizzata nelle sedi di diretto contatto con gli oggetti metallici come il lobo delle orecchie (orecchini), il polso (orologio), il collo (collane) e la regione ombelicale (bottone dei jeans), ma anche il volto ed il cuoio capelluto possono essere interessati (telefoni cellulari, piercing, fermagli per capelli). In individui allergici al nichel è possibile anche l’’insorgenza di una dermatite da contatto generalizzata in seguito all’esposizione per altre vie come le vie respiratorie o orale. Anche la disidrosi delle mani, la cosiddetta”pompholyx”, è stata associata all’allergia al nichel ma però non c’e ancora una dimostrazione diretta della loro correlazione. I patch test rappresentano l’indagine diagnostica utile per confermare l’allergia al nichel che viene testato sotto forma di nichel “solfato” in vaselina alla concentrazione del 5% negli adulti e al 2.5% nei bambini, anche se secondo alcuni studi anche nei bambini può essere testato al 5%; una concentrazione inferiore è invece raccomandata in caso di reazione dubbia. In caso di reazione falsamente negativa, in presenza di un aspetto clinico fortemente suggestivo per allergia da nichel, è indispensabile ripetere il patch test utilizzando il nichel sotto forma di “cloruro” (5% in vaselina), forma che aumenta la concentrazione del nichel oppure utilizzare, prima di applicare il patch test, sostanze che favoriscono la penetrazione come il dimetilsulfossido o effettuare lo scratch cutaneo.
Per gli individui allergici al nichel è anche disponibile un test (spot-test alla dimetilgliossima) che serve ad identificare gli oggetti di metallo che contengono un’alta concentrazione di nichel. E’ un kit che contiene una soluzione alcolica a1l’1% di dimetilgliossima e al 10% di ammonio cloruro: si strofina con un cotton-fioc imbevuto di tale soluzione l’oggetto personale di metallo e se la punta del cot­ton-fioc diventa di colore rosa significa che l’oggetto contiene un’alta quantità di nichel e ne viene pertanto sconsigliato l’uso. Sopratttutto nei casi di dermatite da contatto delle mani di origine professionale può essere utile il test dell’immersione
del dito, che consiste nel fare immergere una o più dita del soggetto allergico in una soluzione contenente nichel per valutare a quale concentrazione di nichel la dermatite delle mani si riaccende.
E’ ben documentato che evitare il contatto con oggetti di metallo è il metodo migliore per evitare le recidive della dermatite da contatto da nichel. La strategia di ricoprire gli oggetti di metallo con smalto per unghie ocon adesivi e/o altre resine in realtà può essere rischioso in quanto esiste la possibilità di sviluppare un’allergia anche a queste sostanze. Anche alcuni cosmetici possono contenere il nichel; ad esempio il mascara e gli ombretti per occhi possono essere causa di allergia alle palpebre in soggetti allergici al nichel e per questo è utile consigliare l’utilizzo di cosmetici “nichel-free” che contengono cioè basse quantità di nichel (<1ppm). In alcuni casi si può consigliare l’uso di deodoranti antiperspiranti allo scopo di diminuire la sudorazione che, come già sottolineato, aumenta la liberazione di ioni di nichel dagli oggetti metallici a contatto con la cute. Anche il fumo rappresenta un rischio per i soggetti allergici al nichel in quanto in alcuni tabacchi può essere contenuta un’alta concentrazione di nichel (contenuto medio per sigaretta da 1 a 3 ug).

Per quanta riguarda il trattamento della dermatite da contatto da nichel varia in correlazione alla gravità delle manifestazioni: antistaminici orali se e presente intenso prurito (assolutamente da sconsigliare l’uso di antistaminici topici in quanta altamente sensibilizzanti); cortisonici topici di bassa potenza per aree cutanee come il viso e le braccia o anche di alta potenza per aree cutanee più spesse come il palmo delle mani e la pianta dei piedi; cortisonici per via orale da usare per periodi brevi in caso di dermatite più diffusa. Le creme cosiddette “barriera” possono essere utili in quanto, applicate sulla cute, possono agire come un “guanto invisibile” ed impedire la penetrazione del nichel grazie alla presenza in esse di sostanze in grado di legare il nichel; le sostanze più utilizzate nelle creme barriera sono l’EDTA (acido etilendiamino tetra-acetico), il cliochinolo (5-cloro-7-iodochionolin-8-olo), e i sili­coni. Alcuni cibi hanno un alto contenuto di nichel, ad esempio la farina integrale, l’avena, i legumi, le noccioline, la liquirizia e il cioccolato ma è ancora controverso quanto sia utile prescrivere una dieta a basso contenuto di nichel ai soggetti allergici, anche se alcuni pazienti ne hanno tratto beneficio. In particolare sarebbe utile seguire le cosiddette “linee guida di Veien” che consistono nel controllare l’efficacia della dieta nichel free per 1-2 mesi, dopo i quali decidere se continuare o meno.
Esiste anche la possibilità di utilizzare un vaccino orale allo scopo di indurre una tolleranza nei confronti
del nichel: è stato condotto uno studio in cui la somministrazione orale di 5.0 mg di nichel solfato 1 volta alla settimana per 6 settimane ha ridotto notevolmente le manifestazioni cutanee dell’allergia da nichel; in un altro studio si è invece utilizzata la metodica di somministrare il nichel solfato in quantità crescenti da 0.3 ng a 3000 ng associata ad una dieta nichel-free in 24 soggetti allergici e si è visto dopo 16 mesi una diminuzione dei sintomi in tutti e in 20 di essi la reintroduzione del nichel nella dieta non è stata seguita da alcuna manifestazione allergica. Nonostante questi studi l’efficacia dei vaccini per il nichel attualmente in commercio non è stata ancora provata.
La gestione dei pazienti con allergia da nichel di possibile insorgenza professionale richiede un’attenzione particolare in quanto sono più difficili sia la diagnosi che la prevenzione e il trattamento. Generalmente le pilù colpite sono le mani, che sono le più esposte al contatto con strumenti che rilasciano il nichel e la dermatite delle mani che ne con segue spesso porta ad invalidità lavorativa, essendo le mani fondamentali per la maggior parte delle attività. E’ necessario valutare l’effettiva esposizione al nichel nell’ambiente di lavoro e per questa sarebbe senz’altro utile un test che è in grado di quantificare il contenuto di nichel nelle unghie e nella cute che è stato descritto in uno studio ma che purtroppo non è ancora disponibile. Accertata la dermatite da nichel sarebbe necessario mobilitare il soggetto in un’altra mansione che non comporti il contatto con i metalli e comunque raccomandare a tutti misure protettive come l’utilizzo di guanti di PVC (polivinilcloride).

Tabella 2 . Risultati dei fotopatch tests
Farmaci antinfiammatori
Arilpropionici
Ketoprofen
Ibuproxam
Ibuprofen
Altri fotoallergici
Octocrylene
Piroxicam
Fentichlor
Benzophenone
Benzophenone- 3
Ethyhexyl
Prometazine
Buyl methoxydibenzoylmethane
Fragrance mix I
Drometrizole trisiloxane
Trichlorocarbanilide
Isoamy p-methoxycinnamate
Dichlorophene
Benzophenone
Bithionol
Chlorhexidine digluconate
PABA
Musk mix
Tribromasalicylanilide
Ethyhexyl triazone
Polyethylene glycol-25 PABA
Sesquiterpene lactone mix
4-methylbezylidene campphor
Ethylhexyl dimethyl PABA
Thiourea
Triclosan
6-methyl coumarin
Etofenamate
Homosalate
Phenybenzimidazone sulfonic acid
116
110
5
1

23
19
16
10
15
13
12
9
8
5
5
4
4
4
3
3
2
2
2
2
1
1
1
1
1
1
1
1
0
0

Pubblicazione gennaio 2010

LA DAY-SURGERY & PATOLOGIE DEL PIEDE

Intanto passavano i giorni; il paziente viveva con l’ansia dell’intervento; il ricovero indeboliva il suo fisico; la noia accentuava la sua ansia e, per passare il tempo, aiutava il personale paramedico a piegare le garze da sterilizzare e mentre piegava pensava che forse una di quelle garze sarebbe stata utilizzata per il suo intervento … si, ma quando?

Arrivava finalmente il giorno fatidico … anestesia … intervento … ritorno in corsia ore buie, spesso molta nausea e conati di vomito. “Finalmente è passato il peggio”.
Questo pensiero era solamente una speranza, un sogno del povero paziente: seguivano giorni forse ancora più terribili di quelli passati nell’attesa dell’operazione.
Giorni di immobilità sotto le coperte e sopra un materasso che, coperto da una tela cerata diventava una graticola, ma lui non doveva muoversi, altrimenti sarebbero potute intervenire complicazioni serie e, perché no, irreparabili.
Per fortuna tutto questo appartiene al passato, anche se non troppo lontano. La realtà chirurgica si è velocemente trasformata e quest’evoluzione è un fatto estremamente positivo sia per il paziente sia per la Sanità.
Molti interventi oggi si effettuano in regime ambulatoriale o di Day Surgery, in altre parole ricovero, intervento e dimissione in giornata. Per quanto riguarda il campo specifico della chirurgia del piede il progresso medico è stato veramente incredibile.
Tutti colleghiamo l’immagine dell’Ortopedia, della Chirurgia ortopedica, della chirurgia del piede in particolare a quella di un apparecchio gessato, di un’ immobilizzazione a letto di giorni e giorni, di degenze lunghissime … BASTA!!!!! ABBIAMO GIRATO PAGINA!!!
Patologie quali l’alluce valgo, le dita a martello, le sindromi neurologiche periferiche ecc. oggi sono risolte sempre chirurgicamente, ma con ricoveri giornalieri o addirittura ambulatoriamente.
La filosofia di ieri ci imponeva ad esempio dopo un intervento al piede, l’applicazione di apparecchi gessati e il divieto di carico per diversi giorni.
Questo significava costrizioni e complicazioni: l’apparecchio gessato infatti spesso doveva essere aperto perché l’arto operato, gonfiando, era compresso con conseguente dolore violento e poteva anche verificarsi una compressione di nervi con complicazioni ancora peggiori. L’immobilità, poi, in caso di insufficienza venosa poteva causare, al momento in cui si permetteva al paziente di alzarsi, la mobilizzazione di trombi causa, a volte, di embolia e di decesso!!!!!
La filosofia odierna ci invita a non ingessare praticamente più, a far alzare al più presto il paziente. Non sono favole; oggi la chirurgia del piede per quanto riguarda l’alluce valgo, le dita a martello, le sindromi di Morton non prevede allettamento o costrizione in gesso. Pensate che il paziente operato di alluce valgo può essere dimesso ed iniziare a camminare dopo 24 ore dall’intervento, mentre interventi minori come correzione di dita a martello o rimozione di neurinomi possono addirittura lasciare la struttura non appena cessato l’effetto dell’anestesia, vale a dire all’incirca dopo due, tre ore, ma camminando autonomamente e senza l’uso di apparecchi gessati.
Questa inversione di rotta nella chirurgia ortopedica ci offre una miriade di vantaggi sia per il paziente sia per il Servizio Sanitario.
Come ho scherzosamente descritto in apertura di articolo, il paziente ha i seguenti vantaggi: l’intervento viene programmato, vengono eseguiti gli esami preoperatori che vengono controllati dall’anestesista che visiterà e addormenterà. Il paziente, il ricovero avviene il mattino stesso dell’intervento. II pomeriggio stesso si procede alla dimissione (al massimo questa può essere programmata per la mattina successiva).
Quanto stress in meno per il paziente, che in questo modo può anche sperare in liste di attesa più snelle, non è umiliato da lunghe permanenze in reparto, si sente meno malato ed ha un recupero psicofisico molto più veloce.
Non dimentichiamo, poi che questo permette anche minori costi sanitari con strutture più snelle e quindi un’ottimizzazione nell ‘utilizzo delle risorse strutturali ed umane.

Luigi GREMESE
Specialista in Ortopedia e Traumatologia
Genova
Pubblicazione del 2004

IL MONITORAGGIO DELLA PRESSIONE ARTERIOSA

E’ già da tempo nota a tutti, inoltre, la cosidetta “Ipertensione da camice bianco” (White coat hypertension), tipica reazione d’allarme provocata dalla visita medica, che comporta una elevazione improvvisa e spesso importante della pressione arteriosa in un grande numero di pazienti (falsi positivi).

D’altra parte l’automisurazione effettuata a domicilio dallo stesso paziente o dai familiari, anche se permette la rilevazione d un numero maggiore di valori pressori, può essere influenzata da numeriosi variabili (validità dell’apparecchiatura, errori di lettura da parte dell’osservatore, innalzamento della pressione arteriosa dovuto dallo sforzo per la misurazione con gli apparecchi che comportano il pompaggio a mano dell’aria del manicotto, ecc) che limitano l’affidabilità della misurazione stessa.
Il monitoraggio ambutoriale della pessione arteriosa (ABPM – Ambulatory Blood Pressure Monitoring) viene impiegato sempre più frequentemente nello studio clinico dei pazienti ipertesi; rappresenta una metodica affidabile, di notevole praticità e comodità d’uso, dotata di ottima precisione per la valutazione del profilo pressorio delle 24 ore.
L’evoluzione tecnologica ha consentito di minimizzare gli apparecchi di monitoraggio fino a quelli più recenti del peso di pochi grammi (300-400 circa), dotati di una memoria solida, possono archiviare un elevato numero di misurazioni che, mediante opportuni sistemi di informatizzazione vengono analizzate nei dettagli e rappresentate in forma grafica.
L’apparecchiatura consiste in un manicotto che viene applicato al braccio del paziente e collegato mediante tubi di gomma ad una pompa elettrica alimentata da quattro piccole batterie da 1,5 volt che, ad intervalli regolari e programmabili, immette aria nel manicotto gonfiandolo e sgonfiandolo progressivamente, come avviene per una misurazone della pressione arteriosa effettuata con un normale sfigmomanometro a mercurio o aneroide.
Gli intervalli di misurazone attalmente più usati sono 10-15-20 minuti di giorno e 30-60minuti durante il riposo notturno, in modo da consentire al paziente una attività simile a quella svolta quotidianamente.
L’inizio di ogni singola registrazione automatica viene effettuato mediante un lieve segnale acustico a cui fa seguito, dopo circa cinque secondi, il gonfiaggio del manicotto fino a valori ottimali; la fine della registrazione, preceduto dallo sgonfiamento lento e progressivo dell’aria dal manicotto, viene segnalata da analogo segnale acustico.
Per consentire un sonno fisiologico al paziente, il segnale acustico durante il riposo notturno viene eliminato.
La durata dell’esame è contenuta nelle 24 ore; registrazioni più prolngate, anche se possibili, possono compromettere l’accettabilità della prova.
Il paziente viene dotato di un diario su cui può annotare diversi dati: attività svolte, sintomi avvertiti, stress psicologici, eventuali assunzioni di farmaci, posizione del corpo (seduto, all’impiedi, sdraiato a letto) e qualunque altro dato egli ritenga utile segnalare ai fini di una corretta valtuzione della pressione arteriosa.
Inoltre l’apparecchatura è dotata di un pulsante che consente una o più misurazioni istantanee della pressione nel momento desiderato, oltre i normali intervalli di registrazione programmati.
E’ facile, a tal punto , intuire l’enorme utilità ed i vantaggi del monitoraggio ambutoriale della pressione arteriosa nelle 24 ore:
- diagnosi corretta dei diversi casi e gradi di ipertensione arteriosa;
- valutazione di eventuale terapia antipertensiva (resistenza al farmaco, efficacia dello stesso, necessità di sostituzione di esso di associazione di farmaci);
- valutazione della pressione arteriosa notturna, che normalmente deve essere più bassa di quella diurna sia nei valori di sistolica (massima) che distolica (minima);
- rilevazione delle pericolose crisi ipertensive;
- diagnosi , inoltre , anche di ipotensione sintomatica ed eventale terapia;
- riproducibilità dell’esame data la sua assoluta innocuità e comodità d’impiego;
- e, infine, fatto non secondario in tempi di economia sanitaria, di poco costo per il paziente.

Dott. Carlo Mantuano
Spcialista in Cardiologia
c/o Centro Medico Genovese
Pubblicazine Gennao 1996

ANEURISMI NELLA TERZA ETA’

Non viene così naturale quindi immaginare una malattia che colpisce le arterie aumentando il diametro in determinati segmenti oppure in modo quasi generalizzato. Soprattutto non è così immediato percepire la gravità di una malattia le cui complicanze possono essere disastrose.

Anche le vene e il cuore possono presentare dilatazioni circoscritte ma in questo articolo verarnno solo trattati i casi che colpiscono le arterie.

 ANEURISMA

L’aneurisma è una dilatazione localizzata, abnorme e permanente di un’arteria, dove le pareti del vaso abbiano perso il loro naturale parallelismo. In particolare si può parlare di aneurisma nel caso di un’arteria che presenti una dilatazione localizzata il cui diametro superi almeno della metà il valore del diametro di settori normali. Se l’aorta addominale di un soggetto presenta un diametro di 2cm. un settore dilatato si dice aneurismatico se il rispettivo diametro supera i 3cm. Dilatazioni di calibro minore sono dette “ectasie”.

ANATOMIA E FISIOLOGIA
Le arterie sono condotti dotati normalmente di pareti robuste in grado di resistere alle pressioni generate dalla pompa cardiaca. Sono costituite da 3 strati (“tonache”) sovrapposti. La più interna si chiama “intima” ed è a diretto contatto con il sangue, la più esterna si chiama “avventizia” ed aderisce ai tessuti e agli organi vicini alle arterie. Lo strato principale delle arterie di grosso e medio calibro è la tonaca “media” che è formata da fibre elastiche e cellule muscolari lisce. Grazie alle proprietà elastiche di questo strato, l’arteria si distende sotto l’impulso di ogni battito cardiaco, e riprende poi il suo calibro iniziale contribuendo così alla progressione e alla velocità del sangue ricco in ossigeno che scorre verso le cellule di tutti gli organi.
Se nella parete arteriosa si verifica uno sfiancamento, un cedimento delle caratteristiche elastiche, la pressione vigente all’interno del condotto tenderà ad aumentarne il diametro.
E’ la stessa cosa che si verifica nelle camere d’aria dei pneumatici difettosi o troppo compressi. Un settore del condotto tende a rigonfiarsi in modo più vistoso (adesso abbiamo imparato che si potrebbe dire “aneurismatico”). Quando questo fenomeno si verifica basta un piccolo aumento di pressione per aumentare sempre di più il diametro del settore bozzoluto, dove la parete si assottiglia sempre più, fino all’inevitabile scoppio.
Esistono delle leggi fisiche poste alla base di questi eventi, come ad esempio la legge di Laplace, o il teorema di Bernoulli che fanno comprendere come l’equilibrio tra pressione, diametro dell’arteria e tensione sviluppata dalle caratteristiche elastiche della parete possa modificarsi per il variare anche di uno solo di questi parametri. Questo spiega come un aneurisma tenda inesorabilmente a crescere di diametro progressivamente nel tempo, come la sua parete tenda a resistere sempre meno alle pressioni interne, assottigliandosi fino all’inevitabile rottura.

CLASSIFICAZIONE DEGLI ANEURISMI ARTERIOSI
Degenerazione
Aneurismi arteriosclerotici
Necrosi cistica della tonaca media
Fibrodisplastici
In corso di gravidanza

Da cause meccaniche
Traumatici
Post stenotici
Anastomotici

Infiammazione
Micotici
Batterici

Congeniti
Sindrome di Marfan
Ehlers-Danlos

Forma
Sacculare
Fusiforme

Localizzazione
Centrale (aorta)
Periferica
Renale
Splacnica
Cerebrale

Struttura
Veri aneurismi
Falsi aneurismi

La maggioranza degli aneurismi ha cause degenerative, imputabili alla malattia arteriosclerotica. Per quanto riguarda l’aorta, il 95% dei casi di aneurisma è riconducibile a questa malattia.
E’dimostrata in questi casi una predisposizione ereditaria, con una maggiore possibilità di sviluppare la malattia tra consanguinei, fratelli e sorelle.
A determinare la comparsa dell’aneurisma concorrerebbero fattori biomeccanici (progressivo deterioramento con debolezza della parete arteriosa) e fattori congeniti geneticamente determinati come è il caso di particolari enzimi attivi contro il collagene e l’elastina.
I pazienti colpiti presentano nella loro maggioranza un’età superiore ai 60-65 anni, rappresentano il 2-10 % della popolazione di quell’età e sono prevalentemente maschi. Gli aneurismi degenerativi non arterosclerotici sono molto rari.
Quelli legati alla gravidanza riconoscerebbero come causa l’aumento nel sangue di un enzima elastolitico la relaxina che potrebbe determinare maggiore cedevolezza di alcune arterie viscerali ed in special modo dell’arteria splenica.
Gli aneurismi infiammatori possono essere di natura sifilitica per distruzione delle tonache dell’aorta da parte del Treponema Pallidum. Sono forme attualmente molto rare. Nei pazienti immunodepressi o portatori di endocardite batterica si possono avere emboli settici (materiale con colonie di batteri che viene trasportato dal flusso del sangue) e infiammazioni della parete arteriosa (“arterite”) con distruzione parziale della media e relativo sfiancamento della stessa. Anche cause traumatiche possono danneggiare le arterie e portare a queste manifestazioni. Tipico è il caso di gravi traumi che coinvolgono il torace e l’aorta, determinando la comparsa di aneurismi anche a distanza di tempo. Gli aneurismi congeniti dipendono da una debolezza della parete arteriosa presente sino dalla nascita per anomalie importanti e molto rare del tessuto connettivale. Per quanto riguarda la forma l’aneurisma può manifestarsi come una “sacca” per cedimento di una limitata porzione di arteria. Si presenta come una bozza talvolta sferiforme con un limitato colletto di comunicazione con l’arteria più sana. Oppure la degenerazione si estende longitudinalmente per estesi tratti e quindi l’aneurisma si presenta come un fuso aumentando progressivamente di diametro dai settori meno ammalati via via verso i settori più alterati che presentano diametro maggiore per maggiore debolezza.
Nella maggioranza dei casi l’aneurisma colpisce l’aorta sia nella sua porzione toracica che in quella addominale. Quest’ultima localizzazione e’ la sede dell’80% di tutti i casi di aneurisma, con interessamento di una o di entrambe le arterie iliache.
Meno frequentemente si verificano aneurismi nelle arterie periferiche degli arti e in questi casi le sedi più tipiche sono le arterie poplitee e le arterie femorali comuni e superficiali. Molto rare sono le localizzazioni alle arterie viscerali (arteria epatica, renale, splenica) o alle arterie a destino cerebrale (carotide comune, interna ed esterna e vertebrale).
Gli aneurismi delle arterie dell’arto superiore (arteria ascellare e succlavia) sono anch’essi rari e spesso secondari a compressioni,od esiti traumatici.
La distinzione tra Vero e Falso Aneurisma distingue tra la dilatazione di un tratto di arteria ove sono presenti tutte e tre le tonache del vaso (aneurisma vero) e aspetti dilatativi in esiti di puntura o trauma dove la tumefazione non e’ altro che la reazione infiammatoria o cicatriziale senza che i costituenti della parete siano chiaramente riconoscibili (falso aneurisma o ematoma pulsante).

SINTOMI E COMPLICANZE
Tratteremo inizialmente l’aneurisma aorto-iliaco, il più frequente nella popolazione. E’abbastanza consueto il riscontro di questa malattia in soggetti assolutamente privi di ogni sintomo.
Solo una piccola parte degli aneurismi viene riconosciuta durante una visita medica. Infatti la palpazione dell’addome permette al medico attento di riconoscere aneurismi di dimensioni già cospicue, almeno 4-5 cm. di diametro.
In soggetti poco collaboranti oppure obesi, la palpazione non è significativa. Talvolta è il paziente stesso che avverte una abnorme pulsazione addominale all’inguine oppure al cavo popliteo e si presenta per questo al chirurgo. E’ molto frequente che l’aneurisma venga incontrato occasionalmente durante l’esecuzione di un esame ecografico o di una TAC dell’addome eseguiti per valutazione di sintomi non correlati o per il controllo di malattie concomitanti (problemi urologici o calcolosi biliare, ad esempio). Talvolta la radiografia della colonna lombosacrale o dell’addome mette in evidenza delle calcificazioni aortiche che fanno sospettare la presenza dell’aneurisma. Purtroppo molto spesso il riconoscimento dell’aneurisma coincide con l’accadere della sua più temibile complicanza: la rottura.
La quota di aneurismi che si presentano con la rottura varia dal 10 al 30%. La rottura dell’aneurisma causa emorragia più frequentemente verso lo spazio retroperitoneale (posteriormente ai visceri addominali) o nel cavo peritoneale. In questo caso la perdita di sangue è massiva e il paziente può giungere a morte in pochi minuti. Se la rottura è limitata e l’emorragia tende a limitarsi, il paziente può sopravvivere, lamentando tuttavia dolore violento alla regione dorso lombare o al fianco. Si verifica ipotensione, pallore, anemia, tachicardia e spesso sudorazione profusa. Il malato si presenta intensamente sofferente ed angosciato.
Un altro sintomo legato alle complicanze dell’aneurisma è la comparsa di ischemia (“mancanza di sangue”) alla periferia. All’interno della sacca aneurismatica tende ad accumularsi sangue trombizzato che si deposita progressivamente. Frammenti di trombo parietale possono staccarsi ed essere trasportati dal flusso ematico sino in periferia. Si verificano cioè embolie.
Accade anche che aneurismi di arterie di calibro più piccolo (arterie femorali o poplitee) si occludano per trombosi. In entrambi i casi il paziente accusa dolore alle estremità. Il piede o un dito di questo si presentano pallidi e freddi; qualche volta si apprezza anche un colore bluastro (cianosi).
Come in tutti i casi in cui l’apporto di sangue non è sufficiente, può verificarsi la necrosi dei tessuti con gangrena.

DIAGNOSI
Di fronte ad un sospetto di aneurisma con i seguenti esami strumentali si ottiene una diagnosi di certezza e la definizione delle caratteristiche della malattia.

ECOGRAFIA
E’l’esame strumentale forse meglio conosciuto e diffuso in molti campi della Medicina. Gli ultrasuoni possono penetrare nei tessuti ed essere riflessi dalle strutture del corpo. Opportune sonde ed apparecchi permettono cioè di “guardare” all’ interno del corpo umano. Il medico si addestra a riconoscere i vari organi e a capirne la consistenza, i limiti e le forme osservando le immagini ottenute su un monitor. Non è necessaria alcuna manovra cruenta ed è un esame ripetibile senza disagio e con bassi costi. La tipica immagine ottenuta in caso di aneurisma è una dilatazione dell’arteria che presenta pareti più o meno ispessite.E’ ben individuabile la presenza di trombi. Ovviamente possono essere effettuate misurazioni dei diametri massimi. Con gli apparecchi dotati di analisi Doppler con codice colore (ECO COLOR DOPPLER) si possono visualizzare i flussi di sangue all’interno delle vene e delle arterie e quindi sono possibili migliori definizioni delle trombosi e dei rapporti con le arterie e con le vene che sono vicine all’aneurisma. L’esame ecografico può essere effettuato in pochi minuti, direttamente sul lettino del Pronto Soccorso anche in pazienti con condizioni critiche e permette di diagnosticare la rottura dell’aneurisma e la presenza di emorragia interna. Si tratta della metodica più affidabile che viene utilizzata sia in esami di screening della popolazione, sia come monitoraggio nel tempo di piccoli aneurismi iniziali o di ectasie.

TOMODENSITOMETRIA
E’ un esame più complesso e costoso. Permette di definire con esattezza i rapporti dell’aneurisma con le strutture e gli organi vicini. Ottiene precise misurazioni dell’aneurisma e della trombosi endoluminale. E’ una tecnica insostituibile nello studio dell’aorta toracica dove gli ecografi non possono ottenere immagini di qualità per tutta la sua estensione.

RISONANZA MAGNETICA
E’ un esame che permette di visualizzare con precisione le strutture interne del corpo solo sfruttando ed amplificando i campi magnetici dei tessuti. Non sono normalmente necessari mezzi di contrasto. E’ un esame molto costoso, riservato a casi dubbi e complessi.

ANGIOGRAFIA
E’un esame “invasivo” che prevede la puntura di una vena del braccio o di un’arteria (normalmente l’arteria femorale all’inguine) e l’introduzione di un liquido radio-opaco (mezzo di contrasto) all’interno delle arterie da esaminare. Vengono così a definirsi i contorni del lume delle arterie e la geometria del loro decorso. Si evidenziano le occlusioni, le trombosi endoluminali e i settori di arteria non colpiti dalla malattia. Le pareti non sono visualizzate, sono intuite. E’ come se si vedesse il liquido contenuto in una bottiglia senza vedere il contenitore.
E’un esame che viene riservato ai pazienti candidati all’intervento chirurgico. Nel caso di aneurismi toracici o addominali permette di identificare le arterie renali ed evidenziarne il loro coinvolgimento nel processo patologico o di lesioni stenosanti associate.

TERAPIA
I risultati del trattamento chirurgico degli aneurismi addominali senza rottura sono molto validi con una mortalità inferiore al 5% (nelle casistiche più moderne del 2-3%). Le complicazioni post-operatorie sono infrequenti e normalmente bene controllate nelle sale di terapia intensiva post-chirurgica.
Da quanto detto appare evidente che il comportamento corretto è quello di trattare chirurgicamente tutti gli aneurismi diagnosticati, evitando al paziente il rischio della rottura. Nella maggioranza dei Centri specializzati si tende a sottoporre ad intervento chirurgico tutti i pazienti che presentino un aneurisma dell’aorta addominale di diametro uguale o superiore a 4cm. e gli aneurismi più piccoli che presentino, ai ripetuti controlli strumentali, una crescita superiore a 0,5cm all’anno (considerata come valore normale).
I pazienti che incorrono in queste condizioni presentano un rischio di rottura statisticamente maggiore e quindi non appare logico e prudente procrastinare per essi la corretta terapia. Gli aneurismi, addominali o periferici, che siano divenuti sintomatici per ischemia dovrebbero essere trattati con urgenza, possibilmente dopo valutazione generale del paziente e dopo studio angiografico.

TECNICHE CHIRURGICHE
Il segmento di arteria aneurismatico viene sostituito da un innesto. Una protesi in materiale plastico che viene collegata ai settori di arteria sana. Il chirurgo isola l’arteria ammalata per tutta la sua estensione e nel caso dell’aorta addominale deve spostare molti visceri per arrivare alla sua sede.
Prima di sostituire l’arteria, viene interrotto il flusso ai due capi con speciali pinze: l’arteria viene quindi sezionata senza importanti emorragie e sostituita da un tubo di calibro e forma adeguata. Nel caso di rottura già in atto il chirurgo si trova nella necessità di isolare l’aorta in pochissimi minuti, ostacolato da una grande quantità di sangue già presente nell’addomee da un’attiva emorragia dal punto di lacerazione del vaso.
Quando finalmente sono posizionate le pinze che interrompono l’emorragia si può procedere alla sostituzione come precedentemente illustrato.
Anche nel caso di aneurismi isolati delle arterie femorali o poplitee si procede con identica modalità: isolamento, sezione e sostituzione delle zone aneurismatiche. Quando è possibile viene utilizzata la vena safena prelevata dallo stesso individuo. Recentemente sono state messe a punto protesi miniaturizzate che vengono collocate dall’interno delle arterie senza la necessità di incidere la parete addominale ed eseguire l’intervento chirurgico tradizionale. Attraverso particolari strumenti è possibile praticare una piccola incisione o una puntura dell’arteria femorale all’inguine e così raggiungere l’interno dell’aneurisma aortico. Qui viene dispiegata la particolare protesi, senza sostituire l’arteria malata, impedendone così la rottura. Sono procedure molto moderne, attualmente consigliate per pazienti ad alto rischio operatorio e con aneurismi piuttosto piccoli. Sono in corso di realizzazione protesi di questo tipo sempre più perfezionate ed è lecito attendersi importanti sviluppi di questa modernissima tecnica.

CONCLUSIONI
La malattia aneurismatica delle arterie è un evento relativamente frequente dopo i 65 anni, i sintomi sono quasi sempre assenti o molto modesti.
La diagnosi può essere facilmente ottenuta con esami ecografici che rendono possibili anche frequenti controlli periodici di iniziali dilatazioni. La terapia razionale degli aneurismi è il trattamento chirurgico che in mani esperte e dopo adeguata preparazione del paziente presenta un rischio molto basso, sicuramente inferiore all’elevata probabilità di morte in caso di rottura.

 

ANEURISMI ARTERIOSI

Sopratutto non è così immediato percepire la gravità di una malattia le cui complicanze possono essere disastrose. 

Definizione
L’aneurisma e’ una dilatazione localizzata, abnorme e permanente di un’arteria, dove le pareti del vaso abbiano perso il loro naturale parallelismo. In particolare si può parlare di aneurisma nel caso di un’ arteria che presenti una dilatazione localizzata il cui diametro superi almeno della metà il valore del diametro di settori normali. Se l’aorta addominale di un soggetto presenta un diametro di 2 cm. un settore dilatato si dice aneurismatico se il rispettivo diametro supera i 3 cm. Dilatazioni di calibro minore sono dette “ectasie”

ANATOMIA & FISIOLOGIA
Le arterie sono condotti dotati normalmente di pareti robuste in grado di resistere alle pressioni generate dalla pompa cardiaca. Sono costituite da tre strati (”tonache”) sovrapposte.
La più interna si chiama “intima” ed e’ a diretto contatto con il sangue , la più esterna si chiama “avventizia” ed aderisce ai tessuti e agli organi vicini alle arterie. Lo strato principale delle arterie di grosso e medio calibro e’ la tonaca ”media” che è formata da fibre elastiche e cellule muscolari lisce.
Grazie alle proprietà elastiche di questo strato l’arteria si distende sotto l’impulso di ogni battito cardiaco, e riprende poi il suo calibro iniziale contribuendo così alla progressione e alla velocità del sangue ricco in ossigeno che scorre verso le cellule di tutti gli organi.
Se nella parete arteriosa si verifica un mancamento, un cedimento delle caratteristiche elastiche, la pressione vigente all’interno del condotto tenderà ad aumentarne il diametro.
E’ la stessa cosa che si verifica nelle camera d’aria dei pneumatici difettosi o troppo compressi. Un settore del condotto tende a rigonfiarsi in modo più vistoso (adesso abbiamo imparato che si potrebbe dire “aneurismatico”). Quando questo fenomeno si verifica basta un piccolo aumento di pressione per aumentare sempre più il diametro del settore bozzoluto, dove la parete si assottiglia vieppiù, fino all’inevitabile scoppio.
Esistono leggi fisiche che stanno alla base di questi eventi, come ad esempio la legge di Laplace o il teorema di BemouIli che fanno comprendere come l’equilibrio tra pressione, diametro dell’arteria e tensione sviluppata dalle caratteristiche elastiche della parete possa modificarsi per il variare anche di uno solo di questi parametri. Questo spiega come un aneurisma tenda inesorabilmente a crescere di diametro progressivamente nel tempo, come la sua parete tenda a resistere sempre meno a pressioni interne, assottigliandosi sino alla inevitabile rottura.

CLASSIFICAZIONI
La classificazione di una malattia consente di interpretarla con maggiore precisione, analizzarne le cause e le localizzazioni. Nel caso della malattia aneurismatica delle arterie e’ adottato questo schema:
CLASSIFICAZIONE ANEURISMI ARTERIOSI

 

Degenerazione
Aneurismi arteriosclerotici
Necrosi cistica della tonaca media
Fibrodisplastici
In corso di gravidanza

Infiammazione
Micotici
Batterici

Da cause meccaniche
traumatici
post stenotici
anastomotici

Congeniti
Sindrome di Marfan
Ehlers – Danlos

 

 

Forma
Sacculare
Fusifome

 

 

Localizzazione
Centrale (aorta)
Periferica
Renale
Splacnica
Cerebrale

 

 

Struttura
Veri aneurismi
Falsi Aneurismi

 

La maggioranza degli aneurismi ha cause degenerative, imputabili alla malattia arterioscIerotica. Per quanto riguarda l’aorta il 95 % dei casi di aneurisma è riconducibile a questa malattia
E’ dimostrata in questi casi una predisposizione ereditaria, con una maggiore probabilità di sviluppare la malattia tra consanguinei, fratelli e sorelle.
A determinare la comparsa dell’aneurisma concorrerebbero fattori biomeccanici (progressivo deterioramento con debolezza della parete arteriosa) e fattori congeniti geneticamente determinati come è il caso di particolari enzimi attivi contro il collagene e l’ elastina.
I pazienti colpiti presentano nella loro maggioranza un’ età superiore ai 60 – 65 anni, rappresentano il 2 -10% della popolazione di quell’età e sono prevalentemente maschi.
Gli aneurismi degenerativi non arterosclerotici sono molto rari.
Quelli legati alla gravidanza riconoscerebbero come causa l’aumento nel sangue di un enzima elastolitico, la relaxina, che potrebbe determinare maggiore cedevolezza di alcune arterie viscerali ed in special modo dell’arteria splenica.
Gli aneurismi infiammatori possono essere di natura sifilitica per distruzione delle tonache dell’aorta da parte del Treponema Pallidum. Sono forme attualmente molto rare.
Nei pazienti immunodepressi o portatori di endocardite batterica si possono avere emboli settici (materiale con colonie di batteri che viene trasportato dal flusso del sangue) e infiammazione della parete arteriosa (“arterite”) con distruzione parziale della media e relativo sfiancamento della stessa.
Anche cause traumatiche possono danneggiare le arterie e portare a queste manifestazioni. Tipico è il caso di gravi traumi che coinvolgono il torace e l’aorta, determinando la comparsa di aneurismi anche a distanza di tempo.
Gli aneurismi congeniti dipendono da una debolezza della parete arteriosa presente sino dalla nascita per anomalie importanti e molto rare del tessuto connettivale.
Per quanto riguarda la forma l’aneurisma può manifestarsi come una “sacca” per cedimento di una limitata porzione di arteria. Si presenta come una bozza talvolta sferiforme con un limitato colletto di comunicazione con l’arteria più sana. Oppure la degenerazione si estende longitudinalmente per estesi tratti e quindi l’aneurisma si presenta come un fuso aumentando progressivamente di diametro dai settori meno ammalati via verso i settori più alterati che presentano diametro maggiore per maggiore debolezza.
Nella maggioranza dei casi l’aneurisma colpisce l’aorta sia nella sua porzione toracica che in quella addominale. Quest’ultima localizzazione è la sede dell’80% di tutti i casi di aneurisma, con interessamento di una o di entrambe le arterie iliache.
Meno frequentemente si verificano aneurismi nelle arterie periferiche degli arti e in questi casi le sedi più tipiche sono le arterie poplitee e le arterie femorali comuni e superficiali.
Molto rare sono le localizzazioni delle arterie viscerali (arteria epatica, renale, splenica) o alle arterie a destino cerebrale (carotide comune, interna ed esterna e vertebrale)
Gli aneurismi delle arterie dell’arto superiore (arteria ascellare e succlavia) sono anch’essi rari e spesso secondari a compressioni od esiti traumatici.
La distinzione tra Vero e Falso Aneurisma distingue tra la dilatazione di un tratto di arteria ove sono presenti tutte e tre le tonache del vaso (aneurisma vero) e aspetti dilatativi in esiti di puntura o trauma dove la tumefazione non e’ altro che la reazione infiammatoria o cicatriziale senza che i costituenti della parete siano chiaramente riconoscibili (falso aneurisma o ematoma pulsante).

SINTOMI E COMPLICANZE
Tratteremo inizialmente l’aneurisma aorto-iliaco, il più frequente nella popolazione E’ abbastanza frequente il riscontro di questa malattia in soggetti assolutamente privi di ogni sintomo.
Solo una piccola parte degli aneurismi viene riconosciuta durante una visita medica. Infatti la palpazione dell’addome permette al medico attento di riconoscere aneurismi di dimensioni già cospicue ,almeno 4-5 centimetri di diametro.
In soggetti poco collaboranti oppure obesi la palpazione non e’ significativa.
Talvolta è il paziente stesso che avverte una abnorme pulsazione addominale all’inguine oppure al cavo popliteo e si presenta per questo al Chirurgo.
E’ molto frequente che l’ aneurisma venga incontrato occasionalmente durante l’ esecuzione di un esame ECOGRAFICO o di una TAC dell’addome eseguiti per valutazione di sintomi non correlati o per il controllo di malattie concomitanti (problemi urologici o calcolosi biliare ad esempio ). Talvolta la radiografia della colonna lombosacrale o dell’addome mette in evidenza calcificazioni aortiche che fanno sospettare la presenza dell ‘aneurisma.
Purtroppo molto spesso il riconoscimento dell’aneurisma coincide spesso con l’accadere della sua più temibile complicanza: la rottura.
La quota di aneurismi che si presentano con la rottura varia dal 10 al 30%. La rottura dell’aneurisma causa emorragia più frequentemente verso lo spazio retroperitoneale (posteriormente ai visceri addominali) o nel cavo peritoneale. In questo caso la perdita di sangue è massima, ed il paziente può giungere a morte in pochi minuti.
Se la rottura è limitata e l’emorragia tende a Iimitarsi il paziente può sopravvivere, lamentando tuttavia dolore violento alla regione dorso lombare o al fianco. Si verifica ipotensione, pallore, anemia, tachicardia e spesso sudorazione profusa. Il malato si presente intensamente sofferente ed angosciato.

Un altro sintomo legato alle complicanze dell’aneurisma è la comparsa di ischemia(“mancanza di sangue”) alla periferia.
All’interno della sacca aneurismatica tende ad accumularsi sangue trombizzato che si deposita progressivamente. Frammenti di trombo parietale possono staccarsi ed essere trasportati dal flusso ematico sino in periferia.
Si verificano cioè embolie.
Accade anche che aneurismi in arterie di calibro più piccolo (arterie femorali o poplitee) si occludano per trombosi. In entrambi i casi il paziente accusa dolore alle estremità. Il piede o un dito di questo si presentano pallidi e freddi, qualche volta si apprezza anche un colore bluastro (cianosi).
Come in tutti i casi in cui l’apporto di sangue non e’ sufficiente può verificarsi la necrosi dei tessuti con gangrena.

DIAGNOSI
Di fronte ad un sospetto di aneurisma con i seguenti esami strumentali si ottiene una diagnosi di certezza e la definizione delle caratteristiche della malattia.
ECOGRAFIA
E’ l’esame strumentale forse meglio conosciuto e diffuso in molti campi della Medicina. Gli uItrasuoni possono penetrare nei tessuti ed essere riflessi dalle strutture del corpo. Opportune sonde ed apparecchi permettono cioè di “guardare ” all’interno del corpo umano. Il Medico si addestra a riconoscere i vari organi e a capirne la consistenza, i limiti e le forme osservando le immagini ottenute su un monitor.
Non e’ necessaria alcuna manovra cruenta ed è un esame ripetibile senza disagio e con bassi costi. La tipica immagine ottenuta in caso di aneurisma è una dilatazione dell’ arteria che presenta pareti più o meno ispessite. E’ bene individuabile la presenza di trombi. Ovviamente possono essere effettuate misurazioni dei diametri massimi.
Con gli apparecchi dotati di analisi Doppler con codici di colore (ECO COLOR DOPPLER) si possono visualizzare i flussi di sangue all’interno delle vene e delle arterie e quindi sono possibili migliori definizioni delle trombosi e dei rapporti con le arterie e le vene che sono vicine aIl’aneurisma. L’esame Ecografico può essere effettuato in pochi minuti, direttamente sul lettino del Pronto Soccorso anche in pazienti con condizioni critiche e permette di diagnosticare la rottura dell’aneurisma e la presenza di emorragia interna.
Si tratta della metodica più affidabile che viene utilizzata sia in esami di screening della popolazione sia come monitoraggio nel tempo di piccoli aneurismi o di ectasie.

TOMODENSITOMETRIA
E’ un esame più complesso e costoso. Permette di definire con esattezza i rapporti dell’aneurisma con le strutture e gli organi vicini.
Ottiene precise misurazioni dell’aneurisma e della trombosi endoluminale .
E’ una tecnica insostituibile nello studio dell’aorta toracica dove gli ecografi non possono ottenere immagini di qualità per tutta la sua estensione.

RISONANZA MAGNETICA
E’ un esame che permette di visualizzare con precisione le strutture interne del corpo solo sfruttando ed amplificando i campi magnetici dei tessuti. Non sono normalmente necessari mezzi di contrasto. E’ un esame molto costoso, riservato a casi dubbi e complessi.

ANGIOGRAFIA
E’ un esame “invasivo” che prevede la puntura di una vena del braccio o di una arteria (normalmente l’arteria femorale all’inguine) e l’introduzione di un liquido radio-opaco (mezzo di contrasto) all’interno delle arterie da esaminare.
Vengono così a definirsi i contorni del lume delle arterie e la geometria del loro decorso.
Si evidenziano le occlusioni, le trombosi endoluminali e i settori di arteria non colpiti dalla malattia.
Le pareti non sono visualizzate, sono intuite .E’ come se si vedesse il liquido contenuto in una bottiglia senza vedere il contenitore. E’ un esame che viene riservato ai pazienti candidati all’intervento chirurgico. Nel caso di aneurismi toracici o addominali permette di identificare le arteria renali ed evidenziarne il loro coinvolgimento nel processo patologico o di lesioni stenosanti associate.

TERAPIA
La sola terapia possibile il caso di rottura dell’aneurisma è l’intervento chirurgico urgente, effettuato in Centri qualificati da equipes esperte. Secondo alcuni studi almenoiIl 50 % dei pazienti colpiti non giunge vivo in ospedale. La mortalità dei pazienti che arrivano vivi ma in condizioni critiche e che sono operati è del 50-70%. Il decorso post operatorio dei sopravvissuti è gravato da molte complicanze essenzialmente legate alla ipoperfusone di importanti organi determinatasi prima e durante l’intervento. Possono comparire ad esempio infarto miocardico e cerebrale, insufficienza renale, ischemia intestinale ed insuffilcienza respiratoria.
La rottura dell’ aneurisma dell’aorta addominale rappresenta l’1,2% delle cause di morte degli uomini che hanno superato i 65 anni. Negli Stati Uniti è la causa di morte al tredicesimo posto e dovrebbe essere la causa di almeno un terzo delle morti improvvise dell’uomo.
Come sappiamo ogni aneurisma è destinato a crescere di diametro sino alla rottura oppure può determinare complicazioni emboliche o ischemiche.
I risultati del trattamento chirurgico degli aneurismi addominali senza rottura sono molto validi con una mortalità inferiore al 5% (nelle casistiche più moderne è del 2-3%). Le complicazioni post operatorie sono infrequenti e normalmente bene controllare nelle sale di terapia intensiva post-chirurgica.
Da quanto detto appare evidente che il comportamento corretto è quello di trattare chirurgicamente tutti gli aneurismi diagnosticati, evitando al paziente il rischio della rottura.
Nella maggioranza dei Centri specializzati si tende a sottoporre ad intervento chirurgico tutti i pazienti che presentino un aneurisma dell’aorta addominale di diametro uguale o superiore a 4 cm. e gli aneurismi più piccoli che presentino ai ripetuti controlli strumentali una crescita superiore al 0,5 cm all’anno (considerata come valore “normale”).
I pazienti che incorrono in queste condizioni presentano un rischio di rottura statisticamente maggiore e quindi non appare logico e prudente procrastinare per essi la corretta terapia
Gli aneurismi, addominali e periferici, che siano divenuti sintomatici per ischemia dovrebbero essere trattati con urgenza, possibilmente dopo valutazione generale del paziente e dopo studio agiografico

TECNICHE CHIRURGICHE
Il segmento di Arteria aneurismatico viene sostituito da un innesto, una protesi in materiale plastico che viene collegata ai settori di arteria sana. Il chirurgo isola l’arteria ammalata per tutta la sua estensione e nel caso dell’aorta addominale deve spostare molti visceri per arrivare alla sua sede.
Prima di sostituire l’arteria viene interrotto il flusso ai due capi con speciali pinze: l’arteria viene quindi sezionata senza importanti emorragie e sostituita da un tubo di calibro e forma adeguata.
Nel caso di rottura già in atto il chirurgo si trova nella necessità di isolare l’aorta in pochissimi minuti, ostacolato da una grande quantità di sangue già presente nell’addome e da una attiva emorragia dal punto di lacerazione del vaso.
Quando finalmente sono posizionate le pinze che interrompono l’emorragla si può procedere alla sostituzione come precedentemente iIIustrato.
Anche nel caso di aneurismi isolati delle arterie femorali o poplitee si procede con identica modalità: isolamento, sezione e sostituzione delle zone aneurismatiche. Quando è’ possibile viene utilizzata la vena safena prelevata dallo stesso individuo.
Recentemente sono state messe a punto protesi miniaturizzate che vengono collocate dall’interno delle arterie senza la necessità di incidere la parete addominale ed eseguire l’intervento chirurgico tradizionale.
Attraverso particolari strumenti è possibile praticare una piccola incisione o una puntura dell’arteria femorale all’inguine e così raggiungere l’interno dell’aneurisma aortico.
Qui viene dispiegata la particolare protesi, senza sostituire l’arteria ammalata, impedendone così la rottura. Sono procedure consigliate per pazienti ad alto rischio operatorio e con aneurismi piuttosto piccoli. Sono in corso di realizzazione protesi di questo tipo sempre più perfezionate ed è lecito attendersi importanti sviluppi di questa modernissima tecnica.

CONCLUSIONI
La malattia aneurismatica delle arterie e’ un evento relativamente frequente dopo il 65 anni, i sintomi sono quasi sempre assenti o molto modesti.
La diagnosi può essere facilmente ottenuta con esami ecografici che rendono possibili anche frequenti controlli periodici di iniziali dilatazioni.
La terapia razionale degli aneurismi è il trattamento chirurgico che in mani esperte e dopo adeguata preparazione del paziente presenta un rischio molto basso, sicuramente inferiore all’elevata probabilità di morte in caso di rottura.

Vittorio Villa
Specialista in Chirurgia Vascolare
pubblicazione del 1996

IL CONTROLLO ELETTROCARDIOGRAFICO

Nell’ambito dello studio elettrocardiografico per la diagnostica delle malattie cardiologiche sono stati compiuti grandi progressi tali da consentirci di valutare la funzione del cuore con precisione. 

Esiste in questo campo però una serie di alterazioni che, per il fatto di essere momentanee, possono con facilità sfuggire ad un’indagine che esplora l’attività del cuore per un tempo limitato .
Le aritmie, i blocchi, le crisi anginose, possono non modificare stabilmente l’elettrocardiogramma.
Accade che il paziente denunci sintomi che possono essere messi in relazione con queste alterazioni, che si sono presentati più volte nel tempo, e che richiedevano una diagnosi precisa soprattutto ai fini della terapia che per essere efficace deve incidere sulle cause.
I sintomi possono essere chiari (dolore al petto, senso di costrizione) o meno precisi (sensazione di svenire, momentaneo oscuramento della vista o perdita di coscienza, sensazione di «frullo d’ali nel petto» o di arresto seguito da un colpo più forte, cardiopalmo).
Talvolta il paziente impara a riconoscere i momenti nell’ambito della giornata (magari di tutte) in cui il disturbo si manifesta più frequente o le attività (lavoro, prestazioni sessuali, defecazione, emozioni) che lo scatenano. Ma nel breve periodo in cui è all’osservazione del medico o esegue l’elettrocardiogramma nulla traspare.
In questa necessità ci viene incontro una nuova metodica, resa possibile dalla visualizzazione delle componenti di registrazione elettrocardiografiche e dall’elettronica.
Si tratta dell’elettrocardiogramma dinamico o «Holter>, cioè di una cassettina dalle dimensioni di due pacchetti di sigarette che il paziente si porta a tracolla e che consente una registrazione ininterrotta della durata di 24 ore.
II paziente ha la possibilità di lasciare una traccia di eventuali disturbi o eventi particolari tramite un pulsante che incide un «segnaIe» sul nastro magnetico. Indicherà poi su un diario l’ora in cui ha fermato il pulsante e perchè, in modo tale da mettere in relazione momenti o particolari ed attività cardiaca.
II nastro viene poi letto in un cervello elettronico che indica se si sono verificate alterazioni patologiche, di che tipo e in relazione a quale evento. Durante la registrazione il paziente, che non è per nulla impedito dagli elettrodi adesivi che ha sul petto e dalla cassetta simile ad una radiolina che porta a tracolla, svolge le normali attività della sua vita quotidiana .
Alla sera la cassetta verrà posta sotto il cuscino e la registrazione continuerà durante il sonno, mettendo in luce tutta quella patologia cardiologica che, per ragioni psicologiche, è molto frequente di notte.
Con questa metodica, quindi, abbiamo enormemente ampliato Ie possibilità diagnostiche e quindi terapeutiche relative ad una patologia, frequente anche nei giovani e nelle persone attive, momentanea e legata all’attività quotidiana, quindi sfuggente alle normali metodiche di indagine che esplorano il cuore per un tempo limitato.

Dott. Renato Gianrossi
cardiologo
Pubblicazione Giugno 1992

CLASSIFICAZIONE E CAUSE IPERTENSIONE ARTERISA

Cause renali
Nefropatia del parenchima:
rene policistico
idronefrosi
glomerulonefrite acuta nefropatia
bilat. cronica ereditaria
od acquisita
tumore produttore di renina
Malattia nefrovascolare
Coartazione aortica
Cause endocrine
Surrenale (corticale):
Sindrome di Cushing
iperplasia congenita
del surrene iperaldosteronismo primitivo
Surrenale (midollare):
feocromocitoma
Ipercalcemia
Acromegalia
Estrogeni

Tossiemia gravidica
Origine esogena
eccesso di liquirizia
intossicazione di piombo

Altre cause
Policitemia
Sindrome carcinoide
Ipertensione endocranica
Porfiria acuta

Cause di pertensione sistolica
Morbo di Paget
Beri-Beri
Fistola artero-venosa
Ipertiroidismo
Insufficienza aortica

Se nessuna delle cause sopra elencate risulta essere causa dell’ipertensione in un paziente, si parla di ipertensione arteriosa essenziale, che oggi rappresenta circa l’85-89% dei casi.
E’ importante stabilire se una delle patologie sopra elencate sia alla causa della ipertensione in un paziente perché trattando opportunamente con terapia medica o chirurgica alcune di queste malattie è possibile anche eliminare la causa dell’ipertensione stessa.
Ciò è importante perchè questo paziente potrebbe sganciarsi da una terapia anti ipertensiva che altrimenti dovrebbe condurre per tutta la vita. Quanto affermato e tanto più valido quanto più giovane è il paziente iperteso.

Dr. G. Corsini
Pubblicazione Dicembre 1982