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LE INFEZIONI VAGINALI: PROBLEMA DA NON SOTTOVALUTARE

Nell’ambito dell’apparato genitale interno femminile, la vagina rappresenta certamente il tratto anatomico in cui più facile è l’instaurarsi di un processo infiammatorio e/o infettivo, e «vaginiti» vengono definiti questi processi.
Nell’ambiente vaginale sono presenti, in una sorta di reciproco equilibrio ecologico, molti microorganismi che nel complesso costituiscono la flora vaginale normale: stafilococchi, streptococchi, lactobacilli, micobatteri ed altri ancora che di regola non sono patogeni e che soltanto in determinati casi possono diventarlo. Accanto a questi appena descritti, vi possono essere altri microorganismi decisamente patogeni quali protozoi (Trichomonas vaginalis), miceti (Candida), batteri anaerobi ed aerobi, gonococchi, virus ed altri di importanza leggermente minore.
Prima però di passare a descrivere qualcuno di questi quadri patologici, occorre premettere qualche considerazione fisiopatologica. La vagina possiede una notevole capacità difensiva che si basa sulla acidità dell’ambiente vaginale e sulla presenza in esso del cosiddetto bacillo vaginale di Döderlein. Infatti l’epitelio vaginale contiene un materiale di riserva.- il glicogeno – che ad opera del bacillo di Döderlein si trasforma in acido lattico: quest’ultimo conferisce alla vagina l’acidità caratteristica (il ph infatti è compreso fra 3.5 e 4.7). Se pensiamo poi che la produzione ed il contenuto in glicogeno dell’epitelio vaginale dipende da un normale tasso di estrogeni, si può comprendere dunque perché nella bambina prima della pubertà, nella donna in epoca post-menopausale ed in genere in tutte le condizioni in cui esista una carenza estrogenica, sono più frequenti le affezioni vaginali.
Perciò che riguarda poi il mezzo tramite il quale tali processi si diffondono, bisogna ricordare che esistono tre tipi di condizioni favorenti:
a ) il contagio sessuale;
b) qualsiasi condizione che abbassi i naturali poteri di difesa della vagina e che abbiamo già descritto;
c) situazioni ostetriche particolari quali parto e aborto.
Considerare accuratamente le caratteristiche cliniche di tutti i possibili quadri di vaginite richiederebbe una trattazione assai più ampia dello spazio offertoci dalla presente rivista e forse si trasformerebbe in un discorso un po’ troppo specialistico col rischio di annoiare qualcuno dei lettori. Ritengo pertanto più opportuno prendere in considerazione soltanto gli aspetti di più vivo interesse.
Senza dubbio tra le forme più note di vaginite sono quelle protozoiche e quelle micotiche. Le prime sono provocate da un protozoo – Trichomonas vaginalis – che può colonizzare anche l’uretra (naturalmente anche quella maschile), la vescica e le ghiandole del Bartolino. Questa vaginite è caratterizzata da un essudato abbondante biancastro o bianco-grigiastro, schiumoso, spesso maleodorante; le mucose appaiono arrossate ed edematose interessando talora anche il collo dell’utero che nell’espressione clinica più tipica presenta un caratteristico aspetto «a fragola», cioé punteggiato. Soggettivamente la paziente riferisce prurito vulvo-vaginale e talora anale, bruciore e spesso dolore risvegliato in genere dal rapporto sessuale. La diagnosi è semplice e sicura al microscopio ottico. Per ciò che riguarda la terapia bisogna ricordare che la vaginite da Trichomonas è una classica malattia di coppia e pertanto il trattamento farmacologico (locale e generale a base di prodotti derivati dell’imidazolo) deve essere esteso necessariamente anche al partner maschile.
Per ciò che concerne invece le vaginiti micotiche, queste sono provocate da varie specie di un fungo del genere Candida di cui la Candida albicans rappresenta l’agente patogeno specifico nel 98% dei casi. Va subito detto che negli ultimi decenni si è verificato un sensibile aumento di queste vaginiti tanto da superare in frequenza le forme da Trichomonas. Il quadro clinico è dato da un essudato bianco, con aspetto di latte cagliato o di ricotta; le mucose appaiono edematose ed arrossate, talvolta ricoperte da piccole chiazze biancastre. Soggettivamente esiste prurito, bruciore e spesso dolore esacerbato dal rapporto sessuale. Il trattamento, che specie nelle forme recidivanti dovrebbe essere esteso anche al partner, consiste nell’uso soprattutto topico di derivati dell’imidazolo.
Vorrei ancora ricordare che accanto a forme molto diffuse come quelle descritte e quelle batteriche aspecifiche, esistono forme meno frequenti ma la cui importanza è andata aumentando in questi ultimi tempi; e ciò sembra essere legato principalmente alla, maggiore diffusione e precocità dei rapporti sessuali, dal momento che alla liberalizzazione dei costumi non è corrisposta un’adeguata e preventiva educazione sanitaria. Si tratta di vaginiti herpetiche (provocate dall’herpes virus genitale HSV2); vaginiti da Chlamydie e da Mycoplasmi (che si stanno configurando anch’esse, specie le prime, come affezioni veneree di coppia); vaginiti da gonococco (l’agente causale della blenorragia sia nel maschio che nella femmina, un tempo diffusissimo, poi pressoché scomparso  ed oggi nuovamente in ripresa).
Vorrei infine accennare brevemente alle infezioni vaginali che si possono osservare in età pediatrica e in età senile o comunque post-menopausale. Per ciò che riguarda le bambine in età prepubere va detto che oltre alla ridotta produzione estrogenica cui abbiamo già accennato, lo scarso sviluppo delÌe piccole e grandi labbra che hanno una funzione protettiva e la mancanza di acidità nell’ambiente vaginale per l’assenza di glicogeno a livello epiteliale e del bacillo di Döderlein, costituiscono altrettanti fattori predisponenti alle infezioni vaginali.
Queste ultime sono rappresentate soprattutto da forme batteriche e meno frequentemente da forme micotiche, protozoiche, gonococciche e da ossiuri. Una condizione fisiopatologica analoga la si ritrova nelle donne in epoca post-menopausale, dove la consueta terapia specifica dev’essere integrata dalla somministrazione di estrogeni allo scopo di, ricreare un ambiente vaginale il più simile possibile a quello della donna in età fertile.
Vorrei terminare ricordando che l’uso indiscriminato di terapie locali quali irrigazioni vaginali, ovuli, candelette ecc. senza una precisa e giustificata indicazione medica, deve essere assolutamente prescritto, in quanto si rischia di alterare, talora profondamente, quel delicato equilibrio, biologico che regola la vita della normale flora vaginale. Ha senso invece sottoporsi a periodici controlli ginecologici, ricordando che ‘l’intervento del medico non si esprime e non si conclude soltanto nel momento farmacologico.

Dott. Sandro Viglino
Ginecologo
Pubblicazione Giugno 1982 ( n. 4)

VITAMINE, SALI MINERALI E ABORTO

Le variabili prese in considerazione includevano fattori individuali, sociali e nutrizionali, così come lo stile di vita, le malattie e l’assunzione di farmaci, specialmente durante i primi tre mesi di gravidanza. I preparati vitaminici e quelli a base di sali minerali venivano solitamente presi come misura profilattica generale: i primi, nella maggior parte dei casi, contenevano vitamine A, B e C, ferro e talvolta calcio, mentre nei secondi erano presenti calcio, sodio, potassio, magnesio e vitamine.

Risultati dello studio

Delle circa 15.000 gravidanze registrate nello studio, venne analizzato un campione di 7.870. Come era previsto, le perdite ematiche risultarono chiaramente associate al rischio di aborto precoce, mentre con sorpresa fu osservato che nausea e vomito non lo erano. Una sorpresa ancora più grande fu il riscontro che donne, specialmente con perdite ematiche e in qualche misura anche quelle con nausea e vomito, che avevano assunto preparati vitaminici e a base di sali minerali, risultavano avere solo la metà delle probabilità di andare incontro ad aborto precoce rispetto a quelle che non avevano assunto questi preparati. La correlazione persisteva anche dopo la correzione statistica che teneva conto dei fattori che avevano potuto influenzare questo risultato.

Incidenza di aborto spontaneo precoce in donne con perdite ematiche, nausea e vomito dopo assunzione di preparai vitaminici e a base di sali minerali.

 

 

Numero di donne

Aborti effettivi

Aborti attesi

numero

%

numero

%

Preparati vitaminici (+ sali minerali)

220

12

5,5

28,3

12,9

Preparati a base di sali mionerali (+ vitamine)

117

7

6

14,4

12,3

 

ISTITUTO DELLE VITAMINE
20090 Segrate – T. 02-2164.1
UFFICIO STAMPA
20122 Mi/ano -  T. 02-879687/671
Pubblicazione Maggio 1987

LA PSICOPROFILASSI OSTRETRICA

Per mezzo della psicoprofilassi ostretrica si intende dare alla donna gravida: 

1 ) una adeguata preparazione fisica e psichica di modo che la donna assecondi i vari tempi e fenomeni del parto nel modo più corretto;
2) un sano orientamento psicologico e morale nei riguardi della gravidanza, della maternità, e del futuro del bambino;
3) un’esatta conoscenza di quei fenomeni di cui essa è protagonista, cancellando dalla sua mente eventuali pregiudizi e superstizioni.
Da questa preparazione la donna può quindi ottenere i seguenti vantaggi:
- una condizione di fiducia in sè stessa, di serenità di fronte al parto;
- uno svolgimento più facile del parto stesso con vantaggio per il bambino;
- una attenuazione e, in qualche caso, l’abolizione del dolore.

Preparazione al parto: Metodi
I metodi di preparazione al parto sono fondamentalmente quattro, ai quali si possono associare, poi, metodi misti;
l) l’ipnosi;
2) il training autogeno di Schultz;
3) il parto naturale di Read;
4) il metodo sovietico o M.P.P.
Di questi quattro, la tecnica d’elezione per prepararsi al parto, la più seguita e sperimentata, resta il training autogeno e il suo diretto derivato, il training autogeno respiratorio (RA T).
Inoltre, il training autogeno ha una diffusione in moltissimi centri e reparti d’ostetricia su tutto il territorio nazionale, a differenza dei rimanenti metodi, che, pur essendo riconosciuti validi in quasi tutto il mondo, vengono scarsamente e quasi mai utilizzati o proposti. Ecco perchè dopo un rapido e speriamo esemplificativo excursus su di essi, ci soffermeremo in particolar modo sul training autogeno come tecnica principale.

L’ipnosi
Il metodo per ipnosi è il più vecchio ed entra ufficialmente nella ostetricia nei primi decenni dell’800. E’ considerato il precorrittore di tutti i metodi moderni di preparazione al parto. Il metodo consiste in una realizzazione di uno stato di trance ipnoidale da parte del medico sulla gestante, poi viene effettuato un condizionamento della gestante stessa con uso di suggestioni. Le suggestioni dovrebbero penetrare e integrarsi nella psiche della donna molto più facilmente che allo stato di veglia. Verrebbe, per così dire, «elaborata» la personalità del soggetto.

Il parto naturale di Read
Anche l’M.P.P. si basa su quattro momenti fondamentali, simili, ma non uguali
per impostazione teorica al metodo di Read. Essi sono: azione pedagogica con corsi di insegnamento di anatomia dell’apparato genitale femminile, sulla fisiologia della riproduzione e del parto e sulla attività nervosa superiore, seguiranno poi le lezioni volte ad un giusto apprendimento della respirazione, del rilassamento, della ginnastica.

Training autogeno
Veniamo ora a considerare il training autogeno in tutti i suoi aspetti. Diversamente dagli altri metodi il training autogeno, pur utilizzando in massima parte il rilassamento è una tecnica «autogena», cioè che si genera da sè attraverso un progressivo allenamento mentale (training). Allenamento che, attraverso sei esercizi standard, la pesantezza, il calore, il cuore, il respiro, il plesso solare, la fronte fresca, dovrebbe far sorgere spontaneamente nel soggetto un più determinato autocontrollo, una maggiore capacità d’introspezione e una maggiore coscienza di sè. L’innumerevole casistica clinica sul training autogeno, oltre 500 mila casi, ha rilevato anche effetti del tipo di recupero di energie psicofisiche, di smorzamento della reattività emotiva e di potenziamento delle capacità mnemoniche.
E’ da notare il fatto che il training autogeno viene sistematicamente usato in forma di psicoterapia per tutti i disturbi ansiosi e psicosomatici, poichè esso insegna a controllare il proprio corpo e anche quelle funzioni di esso che abbiamo sempre creduto, erroneamente, essere di dominio esclusivo del sistema nervoso autonomo; involontarie, quindi, come il tono muscolare, il respiro, il cuore e in generale l’ansia, la paura, l’emozione.

Ora, alcuni consigli utili tratti dall’esperienza sulla psicoprofilassi al parto dei maggiori ricercatori in questo campo (Schultz, Luthe, Prill, Sbriglio etc):
a) i corsi affollati, con gruppi di oltre 20 gestanti, danno risultati poco fruttuosi, specie se condotti da una sola persona;
b) non è possibile seguire contemporaneamente più di 15 gestanti, considerato che già alcune di queste sfuggiranno al controllo del rilasciamento dei muscoli massetteri e del cingolo scapolare;
c) in gruppo diventa meno efficace l’allenamento al parto simulato, diventa così impossibile fare una previsione, per tutte le gravide, circa la riuscita del metodo durante il travaglio di parto;
d) i corsi devono esclusivamente essere affidati a medici competenti o a psicologi clinici (vedere per es. l’articolo 93 del codice medico deontologico dell’Ordine dei medici di Torino, anno 1978).

Francesco Giacomazzi
Psicologo clinico
Pubblicazione Giugno 1984

VAGINITI

Esistono meccanismi biologici di protezione locale che agiscono come una barriera di fronte a germi patogeni che è importante cercare di mantenere nel miglior modo possibile e che, così come per l’intestino, sono dovuti anche alla presenza di alcuni bacilli necessari, detti saprofiti e non patogeni.
Il concetto di “ambiente vaginale” veniva preso in considerazione già da Ippocrate il quale per primo esprimava il concetto di interdipendenza di numerosi fenomeni biologici presenti nella vagina esprimendosi inoltre anche con una scrupolosa descrizione del tipo di alcune perdite vaginali dandone anche alcune caratteristiche organolettiche e proponendo alcune terapie da eseguire con l’uso di una “cannula a punta liscia da introdurre nell’ interno della stessa alla cui sommità occorreva fare alcuni piccoli forellini, mentre alla restante parte esterna, andava applicata una vescica secca di animale ripiena di liquido da iniettare; la cannula andava inserita in vagina spingendo la cannula fino in fondo a comprimere la vescica”.
C’erano già non solo i problemi delle perdite vaginali, ma anche chi si era preso l’incarico di darne una illuminata e rigorosa descrizione diagnostica e terapeutica, aggiungendo una serie di preparati a base di erbe, in grado di apportare miglioramenti.
Come si vede esisteva già il tentativo di allestire una irrigazione interna persino del tipo simile a quelle monouso presenti oggi in commercio: non solo, ma vi erano vari trattati riguardanti il tipo di “liquidi” da usare. Ebbene si andava dal “papavero bianco in brodo di semi di ortica” o dalle “foglie di melo grano dolce con galla in vino astringente” ai “pessari di mirra, iride, cipero e zafferano” o alle più imbarazzanti preparazioni a base di “miscela di teste di vermi, allume di Egitto ed annessi fetali”.
Dati anatomici precisi si possono trovare poi nelle opere di Sorano d’Efeso circa nel II secolo d.C. e, quattro secoli dopo, nei trattati per le ostetriche di Muscione (“Gynecia”) ove si suggerivano anche alcuni altri trattamenti topici: “potrai immettere in vagina con la macchina del clistere aceto annacquato o acqua di mirto, lentisco, gelso selvatico, buccia di pomogranato e foglie di salice, oppure potrai mettere dei pessari di lana imbevuta con succo di piantaggine, cicoria, uva lupina o succo di uva acerba”. Nei secoli veniva poi intuita la capacità di assorbimento della mucosa vaginale: Giovanni Mariniello (XVI sec) proponeva forse il primo test di sterilità di coppia basato su un esame certamente meno impegnativo di quelli di oggi:” introdurre uno spicco di aglio nella vagina: se poi la donna puzza di aglio dal naso, non è sterile..”.
Via via nei secoli le cose assumono un aspetto meno empirico, per giungere al settecento dove, con Morgagni, si aveva una prima distinzione del tipo di “fluor” vaginale con specifico trattamento terapeutico: per esempio veniva consigliato di “prendere le radici delle rose bianche, immergerle in un decotto di vino e berlo per alcuni giorni ” o, come in Svizzera, in cui le contadine consigliavano di mangiare” salsicce bianche e gigli bianchi bolliti in acqua”.
Esistono ancora famose annotazioni scientifiche ( .. ) secondo le quali la leucorrea era più frequente nelle donne pingui ed in quelle consumatrici di caffelatte (mentre se assunti separati, caffè e latte non producevano alcun effetto !)
Con l’ottocento si arriva alle scoperte batteriologiche ed istologiche con introduzione di alcuni concetti riguardanti certe “improprietà nel vestire” per cui “sotto le gonnelle passa una aria ghiaccia e dal terreno bagnato si sollevano umidi vapori con conseguenze che nelle più delicate parti del corpo vengono soggette a raffreddamenti certamente poco giovevoli per la igiene sessuale”. Tuttavia venivano proposti trattamenti ancora molto empirici quali “iniezioni in vagina di vapori di acido carbonico o di cloroformio, di balsami a base di china o di segaI a cornuta”.

FLORA BATTERICA VAGINALE
Nella vagina esiste un ecosistema composito in equilibrio tra i vari fattori che lo costituiscono e la cui presenza o alterazione è la principale causa di protezione, resistenza ai germi patogeni.
Esso viene creato dalla presenza di alcuni germi NON patogeni, cioè non in grado di produrre uno stato di malattia ma che vivono da saprofiti nella vagina e di cui il più importante è proprio in b. di Doderlein, e da uno stato ormonale fisiologicamente normale.

 

La vagina presenta una notevole capacità di difesa basata su:

- spessore e struttura dell’epitelio di rivestimento
- elevata acidità (pH 3 – 4,7)
- presenza del b: di Doderlein e dell’insieme dell’ecosistema qualitativamente e quantitivamente integro.
- presenza di stato ormonale fisiologicamente normale.

La presenza degli estrogeni infatti è fondamentale non solo per lo spessore dell’epitelio di rivestimento ma anche nel mantenere il grado di acidità ottimale: la loro presenza induce accumulo locale di glicogeno il quale viene poi metabolizzato dal lactobacillo di Doderlein con produzione con formazione di acido lattico
La flora batterica deve quindi essere considerata una entità dinamica i cui elementi principali vanno protetti e curati (terapie ormonali, terapie topiche con farmaci).

 

 

Le flogosi possono insorgere per:

-contagio sessuale diretto spesso con partners portatori asintomatici del germe
-per interventi praticati ( parti, aborti, esami diagnostici, terapie distruttive di lesioni cervicali uterine)
-per trasmissione attraverso elementi o soggetti ambientali
-per condizioni biologiche o ormonali particolari.

 

 

Le flogosi possono essere favorite da:

-presenza di altre patologie infettive locali
- terapie antibiotiche
-stati o terapie immuno-soppressive
-carenze ormonali fisiologiche o patologiche
-presenza di dispositivi intrauterini
-terapie locali non eseguite correttamente
-eccessivo uso di lavande interne o saponi esterni, tendenti a provocare riduzione dell’acidità vaginale con effetto tampone sull’ acido lattico prodotto. -scarsa igiene personale

 

VAGINITE da TRICHOMONAS
AGENTE INFESTANTE
Protozoo unicellulare
-riconoscibile nelle preparazioni su vetrino umido (aggiungendo cioè una semplice goccia di soluzione fisiologica al vetrino, si possono osservare i protozoi al microscopio)
-favorito dall’ ambiente vaginale poco acido, (quasi neutro, intorno a pH 4,9 – 7,5)
-diffusissimo ed isolabile spesso in persone assolutamente asintomatiche
EPIDIEMOLOGIA
- Frequente nelle persone con partners multipli, condizioni basse socio­economiche, scarsa igiene personale.
- A trasmissione prevalentemente sessuale diretta, anche se è ammesso il passaggio veicolato da alcuni agenti: asciugamani, acque di piscine anche se dorate, serbatoi di acque calde, bagni inquinati)
Il 90% dei partners delle donne infette pur essendo asintomatico, presenta il protozoo nella parte terminale dell’uretra ed il 40% nel liquido prostatico.
- Occorre una forte carica protozoaria affinchè avvenga il contagio.
- I protozoi presenti nell’uomo portatore sono in genere pochi e deboli.
- E’ possibile la reinfezione endogena da parte di Trichomonas che albergano nelle ghiandole parauretrali di Skene e nell’uretra (ciò avviene prevalentemente quando non si esegue anche una terapia per via generale)
- E’ spesso associata ad altre malattie sessuali.
FATTORI FAVORENTI
Tutte le condizioni di diminuita acidità vaginale: perdite mestruali,eccessive irrigazioni, secrezioni di lesioni cervicali, l’eccesso di muco cervicale, le infezioni da Gardnerella vaginlis (v. scheda) e, secondo alcuni, anche la stessa alcalinità dello sperma se trattenuto in loco per oltre 6- 8 ore.
CLINICA
Esiste in forma
ACUTA
CRONICA RECIDlVANTE
ASINTOMATICA
LEUCORREA profusa, giallo-verdastra, più raramente grigiastra spesso maleodorante, in genere di consistenza acquosa-schiumosa.
SINTOMI
- bruciore e dispareunia (rapporti sessuali dolorosi).
- meno frequentemente prurito, eritema e/o gonfiore della vulva, della vagina con comparsa di piccole punteggiature rossastre (petecchie) con aspetto tipico cosiddetto “a fragola”
- diffusione per contiguità alla vulva, cervice, uretra e vescica
- nelle forme croniche possono essere presenti solo la leucorrea, il tipico pH elevato, e l’odore fastidioso
- frequente è la presenza associata della Gardnerella vaginalis da cui spesso è difficile distinguerla: tuttavia la farmacologia in questi casi ci aiuta in quanto per entrambi vale lo stesso tipo di terapia farmacologica.
TERAPIA
Occorre che entrambi i partners eseguano scrupolosamente la terapia, sia locale che per via generale: pena la recidiva della sintomatologia.
Nella donna occore ripristinare la acità vaginale con l’uso di irrgazioni interne a carattere acido.

VAGINITE MICOTICA
AGENTE INFESTANTE
- Monilia Candida Alhicans (88%)
- Candida Glahrata (10%)
(sono funghi del gruppo dei lieviti)
- riconoscihile anche a fresco (dopo stesura su vetrino del preparato cui va aggiunta una goccia di idrossido di potassio al /0-20%) con osservazione diretta degli aspetti tipici delle sue due forme: sporulata o filamentosa (ife)
-si sviluppa in ambiente vaginale acido (pH 3,3 – 4,7) quindi con concomitante presenza del bacillo di Doderlein.
EPIDEMIOLOGIA
- diffusissima, spesso con portatori asintomatici
- è in parte ancora sconosciuto il motivo per cui improvvisamente da elementi saprofiti, diventino sintomatici con sviluppo di sintomi tipici (la sintomatologia si presenta infatti solo nel 30% dei casi in cui viene ritrovata durante l’esame dei secreti)
- frequentissima la recidiva, dovuta probabilmente a
- persistenza della Candida nell’ intestino (vero serbatoio)
- localizzazione intraepiteliale delle cellule vaginali
- localizzazione nell’ uretra, nelle ghiandole di Skene
- spore particolarmente resistenti
- frequente infezione a ping-pong tra i
partners
- trasmissione prevalentemente ses­suale ma è ammesso il passaggio tra­mite altri veicoli (come per il trichomonas ).
- nell’uomo è prevalentemente solo saprofita
SINTOMI
- perdite tipiche
- prurito con edema vulvare
- talvolta bruciore nella minzione
- dolore con i rapporti sessuali
- se prevale il bruciore, l’agente eziologico è la Candida Glabrata
- possibile effetto sinergico (cioè potenziamento dei sintomi) se
associata allo Stafilococcus Aureus.
FATTORI FAVORENTI
- contracccttivi estro
- progestinici
- gravidanza
- presenza di dispositivi intrauterini
- terapia con antibiotici e cortisonici
- diabete mellito
- uso eccessivo di lassativi o ammorbidenti fecali”
- dieta ricca di edulcoranti artificiali,
o ricca in latticini e carboidrati
- scorretta detersione del perinco (detersione erronea dal dietro in avanti, veicolando possibili agenti dall’ano verso la vagina)
CLINICA
- forma acuta
- forma cronica recidivante
- forma asintomatica
- Ieucorrea molto densa, tipo latte cagl iato che spesso aderisce alle pareti vaginali, arrossate e edematose. Priva di odore assume spesso l’aspetto quasi di placche biancastre che si possono reperire anche nelle mutandine.
TERAPIA
una corretta terapia dovrebbe com­prendere vari prodotti locali:
- ovuli intravaginali
- polvere aspersoria per le zone pilifere
- latte detergente
- schiuma detergente
- lavande medicate a base di sostanze antimicotiche
- trattamento necessario anche del partner con i prodotti sopra riportati
- violetto di genziana in soluzione all’ 1 % è in grado di recare sollievo ai sintomi che spesso sono di carattere urente
- necessità di disinfestare sia il serbatoio intestinale sia le varie microlocalizzazioni alternative nelle quali può persistere la Candida (v. sopra)
- occorre persistere nella terapia per un minimo di 10 giorni; ripetendola magari per alcuni periodi, anche se in assenza di sintomi
- sarebbe opportuno talvolta iniziare la terapia alcuni giorni prima delle mestruazioni, per continuarla quando sono ancora presenti tracce ematiche
- esistono vari schemi terapeutici sia per bocca che localmente mediate uso anche di prodotti deposito cioè a lenta dimissione del farmaco.
Si raccomanda in genere un precoce ricorso al proprio ginecologo per la scelta delle terapie opportune, anche se spesso la recidiva della malattia non dipende nè da una terapia tardiva nè inadeguata.

VAGINITE da GARDNERELLA VAGINALIS
Haemophylus
AGENTE INFESTANTE
- piccolo batterio scoperto da Gardner e Dukes nel 1955
- tende ad innalzare lievemente il ph vaginale
EPIDEMIOLOG lA
-presente nel 20% delle donne con atti­vità sessuale
- contagio sessuale ma anche con indu­menti, servizi igienici e asciugamani – recidiva frequentissima anche per as­soluta asintomatologia nell’uomo
SINTOMI
- nessuno specifico particolare: solo un odore forte delle perdite bianco-grigiastre
- raramente bruciore (per frequente associazione con Trichomonas) e/o prurito
DIAGNOSI
- perdite maleodoranti
- assenza sintomatologia
- tipico reperto nello striscio visionato “a fresco” di cellule con un aspetto caratteristico (detto due cells).
TERAPIA
- terapia antibiotica locale e generale (tetracidine, ampicilline, metronidazolo), sfruttando molecole ad azione terapeutica anche sul Trichomonas.

VAGINITE DA GONOCOCCO
AGENTE INFESTANTE
E’ la cosidetta “Blenorragia” o “gonorrea”
- raramente colpisce la vagina, ma più frequentemente la ghiandola del Bartolini, l’uretra e le sue ghiandole (ghiandole Skene), la cervice e specialmente le tube.
- è sostenuta da un batterio scoperto nel 1879 detto “Neisseria gonorrheae” molto sensibile in quanto è ucciso dal calore o dal freddo e la semplice acidità vaginale è in grado di distruggerlo; talvolta in condizioni di alterazioni della vagina, esso tende a “scappare” e a rifugiarsi nelle ghiandole di Bartolini o verso l’alto, nell’uretra, nella cervice fino ad arrivare nelle tube, provocando la grave “salpingite acuta” con febbre e sintomatologia generale
EPIDEMIOLOGIA
- talvolta riscontrabile nelle bambine e nelle donne in post-menopausa (condizioni di assenza degli estrogeni ­assenza di glicogeno -alterazioni della acidità vaginale;
- contagio nell’adulto: contagio diretto per via sessuale proveniente dall’uretra maschile:
la labilità del germe non consente altro tipo di contagio.
SINTOMI
- incubazione 2-7 giorni con comparsa di bruciori e dolori alla minzione con osservazione di eventuale perdita di aspetto purulento proveniente dall’uretra o dalle vicine ghiandole di Skene.
- !’infezione può risalire e giungere ad infettare le salpingi (=salpingite) nel 2-20% dei casi
- comunque raramente all’inizio si ha una sintomatologia eclatante come invece avviene nell’uomo (uretrite e/o epidimite acuta con leucorrea uretrale tipica).
TERAPIA
Antibiotici anche per bocca da usare precocemente (penicillina, amoxicillina, spectinomicina, talvolta anche associati a tetracicline e eritromicina per combattere la frequente concomitanza di infezione da Clamydia Trachematis), al fine di prevenire le terribili complicanze tubariche.

VULVOVAGINITI VIRALI
Da alcuni anni ormai i virus sono indagati a fondo poichè è emerso con certezza che sono considerati fattori importanti in grado di provocare alterazioni cellulari ad alto rischio di degenerazione maligna a livello del tratto genitale femminile.
Il loro riscontro, a livello vulvare, vaginale o perienale è importante, sia per evitare il contagio tra i partners, sia come sentinella di una possibile presenza del virus anche a livello della cervice uterina ove sarebbe in grado di intervenire come importante cofattore nella cancerogenesi locale.
I virus maggiormente responsabili sono:
H.P.V: Human Papilloma Virus o Virus dei papillomi umani
U.S.V: Herpes Simplex Virus tipo 2

Essi vivono a livello intracellulare, in cellule vive e nello spessore dell’ epitelio: quindi non entrano in competizione diretta con quei microrganismi responsabili della formazione e dell’ equilibrio dell’ecosistema vaginale.

H P V
comprende un vasto numero di piccoli virus a DNA in grado di indurre a livello dell’epitelio squamoso una proliferazione reattiva (verruche) e possono essere localizzati a livello vulvo- perineale (tipo HPV 6 e 11, a basso rischio oncogeno), cervicale (HPV 16-18-31, a alto rischio oncogeno) ed anche a livello cutaneo o orofaringeo (anch’essi a basso rischio).
CLINICA
Il virus, dopo una incubazione che varia da 1-2 a 9 mesi, infetta il nucleo delle cellule inducendone una rapida proliferazione per lo più di tipo papillare (Condiloma acuminato) a livello perineale e vulvo-vaginale; altre volte, specie a livello della cervice uterina, assume l’aspetto di un piccolo rilievo piano (condiloma piano) o con un piccolo nodulo che si approfonda (Condiloma invertito o endofitico).
Il Condiloma piano ed il Condiloma invertito sono lesioni visibili solo con l’uso del Colposcopio (v. Colposcopia D&T 8/90) mentre per le lesioni vulvari l’uso del colposcopio serve sostanzialmente per la conferma della diagnosi (vulvo-scopia).
Esiste anche per l’uomo la possibilità di diagnosticare queste piccole lesioni mediante l’applicazione del colposcopio (fallo o peno-scopia).
A livello vulvare e perineale queste lesioni possono rimanere invariate nel tempo; altre volte possono crescere e moltiplicarsi (condilomatosi multipla) e allargarsi (condiloma florido) o tendono a confluire o a formare microproIiferazioni (micropapilIomatosi) visihili solo al colposcopio.
EPIDEMIOLOGIA
Spesso si associano ad altre malattie (trichomonas, Gardnerella o HSV” e gonorrea).
- lesione tipica dell’ età fertile
- favorita dalle situazione di alterazione dello stato immunitario: gravidanza, farmaci ecc.
- contagio diretto con partner portatore di verruca non trattata.
RISCHIO ONCOGENO
E’ più alto per i virus HPV 16 e 18 a livello cervicale: il loro patrimonio genetico è stato riscontrato in quasi il 70% delle lesioni neoplastiche della cervice di grado elevato (CIN III) ed anche nel 40% di lesioni più gravi: il genoma del virus HPV 6 e 11 lo si può trovare nel 20% di lesioni meno gravi (CIN I e CIN II), è invece molto scarso per i virus HPV responsabili dei condilomi vulvari, perineali, cutanei o orofaringei.
SINTOMI
- spesso i condilomi si repertano casualmente durante una visita o sono scoperti dalla paziente stessa.
- spesso si associano ad altre infezioni per cui troviamo i sintomi derivanti da queste: leucorrea, bruciori, pruriti.
- di fronte ad un sintomo persistente nonostante una corretta terapia è utile eseguire una indagine vulvoscopica.
DIAGNOSI
- visualizzazione diretta del condiloma
- vulvoscopia (e colposcopia associata) e penoscopia
- ricerca di anticorpi specifici
TERAPIA
- vanno curati per evitare il contagio e non tanto per lo scarso rischio oncogeno, per altro presente solo per alcuni di essi
- importante valutare entrambi i partners
- esiste la possibilità di intervenire direttamente sulla lesione con applicazioni locali di soluzioni a base di podofillina o trattamenti a base di antivirali, compreso l’interferone con terapie locali (pomate) o generalizzare (iniezioni)
Infine esiste la possibilitì di recidere le lesioni verrucose con trattamenti di diatermo o crio-chirurgia o con il Laser a CO2.

H S V
Appartiene allo stesso gruppo dei virus responsabili deIl’Herpes Labiali (HSV I) e per il quale può esistere infezione crociata diretta, della Varicella Herpes Zooster, e comprendente anche il Cytomegalovirus, il virus di Epstein­Barr.
Entra nelle cellule vulvari epiteliali, si replica creando una globale disorganizzazione dell’ epitelio con flogosi acuta: si raccoglie il liquido sotto gli strati superficiali(= vescicola) ricchissimo di virus e molto infettante.
La flogosi provoca sia un interessamento dei linfonodi periferici sia una necrosi degli strati superficiali, con fuoriuscita del liquido.
Si formano così piccole ulcerazioni che tendono a confluire e a ricoprirsi di fibrina e che possono anche guarire spontaneamente. Il virus si ritira nei gangli sacrali, pronto a ripresentarsi con le stesse manifestazioni (=recidiva) anche se meno eclatanti. La presenza di vescicole erpetiche a livello vaginale è una delle indicazioni nelle donne gravide a partorire con taglio cesareo per evitare il contagio fetale (con gravi esiti) durante il passaggio del feto nel canale vaginale.
Ha una incubazione che varia (3-7 giorni) con comparsa di un edema con rossore dolente e rilevato: in 48 ore si forma la viscicola: una volta scoppiata, l’ulcera guarisce in 20-30 giorni mentre i sintomi soggettivi scompaiono in 10-12 giorni circa. Esistono una forma acuta, una sub-acuta ed una cronica-recidivante.
EPIDEMIOLOGIA
- lesione dell’ età fertile
- favorita dalle terapie antibiotiche prolungate, dallo stato di immuno­soppressione
- associata a infezioni di candida persistenti
- contagio per via sessuale diretta o trasposizione del virus proveniente da altre vescicole.
- possibile infezione crociata con virus dell’ herpes labialis (HSV1)
SINTOMI
Nella forma acuta compare dolore locale, linfoadenopatia inguinale, febbricola e malessere: persiste un dolore, limitato alla sede di lesione e bruciore; notevole è la dispareunia se è coinvolta l’uretra vi possono associare disturbi urinari. La sintomatologia delle recidive è meno impegnativa: come per HSV1 esse avvengono per varie situazioni (flogosi, shock, mestruazione, stress, esposizione al sole etc.)
RISCHIO ONCOGENO
Anch’esso sembra coinvolto nella cancerogenesi della cervice uterina: infatti in quasi il 90% dei carcinomi cervicali si reperiscono a titoli più o meno elevati, antigeni specifici per questo virus (mentre normalmente la positività nei tessuti normali non va oltre il 2%); inoltre la presenza di frammenti provenienti dal HSV di DNA o RNA all’interno del genoma della cellula tumorale, ha confermato questi sospetti.
Ugualmente, ma meno frequentemente sarebbe coinvolto nella cancerogenesi vulvare e vaginale.
DIAGNOSI
- sintomatologia e visualizzazione diretta delle vescicole:
- anamnesi di situazioni favorenti
- coltura del liquido delle vescicole con ricerca citologica di cellule caratteristiche
- ricerca degli anticorpi specifici.
TERAPIA
Si usano con vari risultati, farmaci per esempio antivirali o pomate da applicare più volte al giorno compreso l’uso di interferone intramuscolare e di immuno-modulatori, l’efficacia delle terapie migliora, quanto più precocemente viene iniziata, possibile è la eliminazione delle lesioni con il laser alla CO2.
PREVENZIONE DEL RISCHIO ONCOGENO
Una volta che viene posta diagnosi di lesione virale, va intrapreso un programma di monitoraggio molto semplice e che si collega in pratica al più ampio discorso sulla prevenzione dei tumori dell’apparato genitale femminile che da anni impegna la Sanità Pubblica e tutti i ginecologi. Esso si basa sui seguenti punti:
- va approfondita e estesa la ricerca anche a livello della cervice uterina, in quanto alcuni di questi virus, nel tempo possono produrre alterazioni nella crescita cellulare a rischio di degenerazione;
- va indagato anche il partner con un esame simile a quello cui si sottopone la donna;
- lo striscio colpocitologico a livello della cervice, è in grado, in assenza di altre indicazioni, di porre sospetto di lesione virale;
- la vulvo-scopia, la colpo-scopia e la peno-scopia, associate alla eventuale biopsia mirata, sono in grado di soddisfare completamente la necessità della prevenzione e consente di monitorare nel tempo la regressione della lesione dopo la terapia.

ENDOMETRIOSI 
Si tratta di una malattia con caratteristiche tanto particolari da distinguerla sia dalla patologia infiammatoria sia da quella neoplastica.
Essa è dovuta alla disseminazione di tessuto endometriale (cioè la parte di mucosa che ogni mese si costruisce o si sfalda ciclicamente e la cui normale sede è all’interno dell’utero) in sedi differenti da quella fisiologica.
Queste piccole isole di mucosa, pur in sede del tutto anomala, rimangono comunque sensibili agli effetti degli ormoni ovarici (estrogeni e progesterone) ed assumono microsco­picamente gli stessi aspetti della muco­sa uterina, compreso un micro­sanguinamento in epoca mestruale.
Si tratta quindi di una malattia dell’età fertile, rara nella pubertà e che regredisce con l’esaurimento della funzione dell’ ovaio (menopausa, castrazione chirurgica. etc.)
PATOGENESI
Vi sono alcune teorie che si basano su numerose ipotesi:
a) reflusso tubarico di sangue mestruale e successivo impianto di alcuni frustoli endometriali su nuovi tessuti;
b) presenza di piccole isole di cellule embrionali in vari organi, simili a quelle che concorrono a formare sotto l’influsso della stimolazione ciclica ormonale, l’apparato genitale interno femminile; queste cellule, conservando questa possibilità di evolvere e costruire tessuto endometriale, dopo il menarca inizierebbero la loro funzione in quei tessuti o organi ove sono rimaste isolate;
c) disseminazione linfatica. ematica;
d) disseminazione chirurgica
e) predisposizione genetica
f) alterazioni del sistema immunitario.
La si può trovare anche:
all’esterno dell’utero si trova con più frequenza:
- ovaio (80%)
- peritoneo del Douglas (lo spazio tra utero e retto)
- legamenti che sostengono l’utero
Ma si può reperire anche a livello delle tube, del retto, della vescica, del peritoneo che ricopre l’utero, nella vagina, nella cervice, nelle cicatrici laparotomiche etc. e persino in zone più distanti (pleura, polmone)
Si tratta comunque di una malattia che sembra in aumento; in circa 20-30% di donne sottoposte ad intervento di laparotomia per qualsiasi causa, si repertano piccoli noduli endometriosici e si accompagna spesso ad una storia anamnestica di dolori pelvici cronici, trattati con vario successo e con numerosi farmaci.
In pratica in questi piccoli isolotti di cellule endometriali, si crea un microciclo mestruale parallelo e con temporaneo a quello endometriale, con tanto di micro emoraggia; tale aspetto provoca una reazione del tessuto connettivo circostante che si organizza nel tentativo di “isolare” queste cellule con una intensa reazione fibroadesiva e creando aderenze tenaci con tutto ciò che sta intorno.
Queste piccole “cicatrici” nel tempo possono crescere trasformandosi in veri e propri “noduli” ed aumentare di numero disseminandosi.
SINTOMI
Nel 20-25% può essere asintomatica;
Dolore ciclico in sede pelvica in stretta correlazione con il ciclo mestruale (dismenorrea) o più raramente in fase ovulatoria.
Nel 40% vi può essere una dispareunia profonda (dolore con i rapporti ma a penetrazione completa)
Nel 30-40% si associa a sterilità, dovuta essenzialmente alle lesioni indirette provocate dalle aderenze sulla morfologia tubarica (angolature e dislocazioni) ma anche a situazioni concomitanti di insufficiente o mancata ovulazione per le quali si sta tuttora valutando se esista una reale correlazione con la nostra malattia.
DIAGNOSI
L’esame clinico e soprattutto l’anamnesi di dolori cronici ciclici resistenti a varie terapie, di una storia di sterilità apparentemente inspiegata e talvolta di dispareunia, consente di porre il sospetto di endometriosi. L’esame principale per la diagnosi definitiva è la Celioscopia vale a dire la visione diretta con una piccola sonda addominaIe dei noduli. (Si svolge in anestesia e dopo avere riempito, tramite la sonda stessa ,di aria l’addome al fine di rendere ogni spazio interno da virtuale a reale. Tale metodica consente sopratTutto di dare una “mappatura” delle lesioni endometriosiche valutandone il numero, la dimensione e la gravità delle aderenze potendole così confrontare a distanza di tempo a conferma dell’ esito positivo delle eventuali terapie eseguite.
Esami di supporto possono essere l’ecografia, gli esami radiografici dell’ultimo tratto dell’intestino, la pielografia disc. e cistoscopia.
Oggi vengono usate classificazioni di gravità dell’endometriosi stilate con un punteggio numerico dedotto dall’ esame celioscopico delle lesioni e che suddivide la malattia in vari stadi:
I stadio: minima
II stadio: lieve
III stadio: moderata
IV stadio: grave o severa
TERAPIA
Può essere sia chirurgica sia medica e dipende sia dallo stadio della malattia, sia dal desiderio o meno di avere una gravidanza a breve scadenza. L’intervento chirurgico permette di eliminare, anche se spesso con difficoltà, le aderenze, di cauterizzare le lesioni minime, di aspirare le cisti in sede ovarica di ancora modeste dimensioni e che sono prodotte dalla localizzazione in quella sede della malattia (la cisti si forma internamente all’ovaio stesso a causa degli stessi meccanismi ricordati in precedenza ed assume un caratteristico colore scuro dovuto alI’ accumulo di sangue).
La chirurgia effettuata sia con il semplice coelioscopio o ad addome aperto (con laparotomia) deve ripristinare la normale localizzazione dell’ovaio e delle tube ed operare tecniche il più possibile atraumatiche sui tessuti e correlate di attrezzature adeguate per la microchirurgia al fine di non aggiungere, oltre ai danni della malattia quelli iatrogeni dell’ intervento.
La terapia medica è indicata in pazienti con malattie al I-II stadio e che al momento non desiderano gravidanze. Essa in pratica tenta di riproporre farmacologicamente ciò che già avviene in natura: sia l’endometrio normale che quello eteropico durante una gravidanza subisce un processo di decidualizzazione per cui va incontro ad una necrobiosi transitoria (ecco per esempio il motivo per cui tra gli indirizzi terapeutici vi è quello di cercare di avere quanto prima una gravidanza, fattori di sterilità permettendo … ) per cui non tende a proliferare. Anche la menopausa provoca un blocco proliferativo dell’ endometrio, con conseguente atrofia della mucosa uterina.
Le varie terapie mediche soppressive esistenti tendono comunque a sopprimere transitoriameme sia l’ovulazione sia la mestruazione per un tempo variabile e dipendente dalla durata della terapia.
Le varie proposte terapeutiche necessitano di adeguati controlli ematochimici durante la loro assunzione e possono presentare alcuni effetti collaterali la cui entità andrà valutata di volta in volta.
Oggi vengono adottati con successo.
l) 17-alfa-etinil-testosterone per via orale (danazol) per almeno 6-9 mesi (provoca l’atrotia della mucosa endo­metriale)
2) somministrazione continua di gestageni (derivati del Progesterone) per bocca o sotto forma di iniezioni in “preparati deposito”
3) somministrazione periodica di gestageni iniettabili associati ad estrogeni iniettabili, sempre sottoforma di “preparati deposito”
4) pillola estro-progestinica ad alto dosaggio
I farmaci del punto 2-3-4 producono la “decidualizzazione” dell’ endometrio. Altri preparati sono a tutt’oggi allo studio (gestrinone, analoghi sintetici del Gn-RH) al fine di potere ampliare i vari schemi terapeutici
La recidiva della malattia è frequente anche in caso di terapia ottimale ed avviene in circa il 30-40% dei casi. Non esistono infine possibilità reali di una prevenzione, se non quelle di una diagnosi il più precoce possibile effettuata con accurata anamnesi e che tenga conto anche di eventuali precedenti famigliari.

Dott. Riccardo Tripodi
Ginecologo
Pubblicazione Giugno 1992

LA MENOPAUSA

Se questa considerazione la si estende, pur con le dovute differenziazioni all’intero pianeta si può avere un’idea di ciò che la menopausa rappresenta e rappresenterà in termini medici, sociali, politici ecc. (si calcola che nel 2000 circa 700 milioni di donne si troveranno in questa fase della vita). 

Dal punto di vista definitorio l’Organizzazione mondiale della Sanità ha indicato col termine di pre­menopausa quel periodo caratterizzato da disordini metabolici ed endocrinologici e dalle modificazioni fisiche che precedono la “menopausa” vera e propria che sarebbe identificabile con l’ultima mestruazione registrata (e quindi definibile soltanto a posteriori).
Col termine di perimenopausa si indica invece quel periodo che inizia con le prime modificazioni endocrine, biologiche e cliniche e termina circa 12 mesi dopo con la cessazione permanente delle mestruazioni.
Infine la postmenopausa è quel periodo che segue la menopausa.
Occorre infine distinguere la menopausa spontanea da quella indotta che può essere chirurgica (dovuta cioè all’asportazione delle ovaie con conservazione o meno dell’utero) o non chirurgica (es. da radiazioni, da chemioterapici ecc.).
L’età media attuale della menopausa oscilla intorno ai 50-52 anni e, al contrario di quanto si riteneva fino ad alcuna anni fa, fattori come l’età della prima mestruazione, il numero di figli o l’età dell’ ultimo parto, non sembrano influenzare minimamente l’età della menopausa mentre fattori come lo stato civile o il fumo anticiparla ed altri come l’obesità, ritardarla.
E’ infine un dato acquisito che l’età menopausale sia simile in membri dello stesso nucleo familiare.

FISIOLOGIA ED ENDOCRINOLOGIA DELLA MENOPAUSA
La caratteristica fondamentale del fenomeno menopausale è costituita dall’esaurimento funzionale dell’età ovarica.
Poiché le gonadotropine ipofisarie (FSH e LH), le quali hanno normalmentelo scopo di stimolare l’ovaio alla produzione ormonale che gli è propria (estrogeni, progesterone e, in minor misura, androgeni), sono correlate all’attività ovarica attraverso un meccanismo di retroregolazione positivo e negativo al fine di garantire una sorta di “omeostasi”, di equilibrio ormonale, con la menopausa accade che tale sistema venda messo in crisi. Infatti il progressivo esaurimento funzionale dell’attività ovarica determina una minor produzione ormonale il che induce un altrettanto progressivo aumento della produzione di gonadotropine (soprattutto di FSH). Tutto ciò finisce col provocare irregolarità dei cicli con modificazione di ritmo, quantità e durata.
Quando la produzione estrogenica scenderà al di sotto di determinati livelli, scatterà un’ aumentata conversione periferica di androgeni (specie androstenedione) in estrogeni a livello principalmente del tessuto adiposo e, in minor misura, di muscolo, rene, fegato e cervello.
Tutto ciò ha lo scopo di surrogare in parte la deficitaria produzione estrogenica ovarica; ecco perchè, in genere, donne che giungono alla menopausa un po’ in sovrappeso (e quindi con un tessuto adiposo più abbondante) accusano meno disturbi soggettivi ed oggettivi tipici di questa condizione e che prenderemo in esame tra poco.

CLINICA DELLA MENOPAUSA
Possiamo suddividere i sintomi clinici che contraddistinguono la menopausa in tre gruppi principali.
a) sintomi neurovegetativi: fra questi meritano di essere sottolineate le vampate ci calore che sono presenti in almeno il 70% dei casi. Esse hanno una durata variabile ( da qualche secondo a qualche minuto), sono stimolate in genere dal caldo e dallo stress, sono più frequenti nella notte e nel 75% dei casi si esauriscono in 1 anno o poco più.
Complessa è la loro etiopatogenesi: basterà ricordare che, di base, vi è una accentuata attività di sistemi neuroendocrini e neurotrasmettitoriali che modulano sia l’attività dei centri termoregolatori che quella dei centri deputati alla regolazione della funzione riproduttiva.
Altri sintomi di natura neurovegetativa sono costituiti dalla sudorazione (65% dei casi), parestesie (57%), palpitazioni (55%), cefalee (43%) vertigini (38%), precordialgie (22%)
b) sintomi di natura psicologica: tra questi ricorderemo principalmente l’ansia e l’irritabilità (64% dei casi), la depressione (44%) e l’insonnia (44%) seguiti da disturbi di minore importanza come la perdita di concentrazione, la labilità dell’umore, l’astenia ecc.
c) sintomi di natura distrofica o degenerativa: a questo proposito bisogna ricordare che un po’ tutto il distretto cutaneo risente delle modificazioni endocrine e biochimiche della menopausa.
Vi è un assottigliamento dell’epidermide, una riduzione dell’attività delle ghiandole sebacee e sudorifere, con conseguente secchezza della cute e maggiore vulnerabilità ai traumatismi.
Per quanto riguarda le mucose vanno ricordate una fastidiosa sensazione di “bocca asciutta” ed una progressiva modificazione del timbro della voce.
Ma le modificazioni più evidenti, forse, le troviamo proprio a livello dell’apparato genitale esterno ed interno.
A livello vulvare si nota un assottigliamento della cute e sottocute, diradamento dei peli, rimpicciolimento delle grandi labbra e, in epoca più avanzata, scomparsa delle piccole.
A livello della vagina si va incontro ad un suo accorciamento con progressiva obliterazione di fornici.
Riduzione delle dimensioni riguardano anche utero, tube e ovale.
Infine la perdita di tono del tessuto elastico della zona perineale predispone a modificazioni anatomiche di vescica, retto (cistorettocele), ed incontinenza urinaria, cistiti atrofiche, uretriti ecc.

CONSEGUENZE CLINICHE A LUNGO TERMINE
Sono rappresentate da:
a) osteoporosi
b) malattia aterosclerotica
c) neoplasie dell’endometrio e della mammella.

Osteoporosi: l’etiopatogenesi di questa condizione è piuttosto complessa per cui potremo così schematizzarla.
La ridotta produzione di estrogeni riduce. la sintesi dell’idrossilasi renale che trasforma la vitamina D nel suo metabolita attivo (1,25 idrossivitamina D) che A SUA volta, è importante costituente della calcium binding protein utile all’assorbimento del calcio a livello intestinale.
Tutto ciò, riducendo l’assorbimento del calcio nell’intestino, porta ad una sua minore fissazione a livello osseo; inoltre, per compensare il ridotto tasso di calcio circolante nel sangue, si verifica una aumentata ricettività tessutale del paratormone (PTH) che determina un accresciuto rimaneggiamento dell’osso che diventa così meno compatto e più fragile.
Tutto questo, unitamente ad una ridotta increzione di calcitonina (ormone che inibisce il riassorbimento osseo) è alla base dell’osteoporosi postmenopausale.
Ovviamente intervengono anche altri fattori quali la razza (le donne di colore, ad esempio, sono meno esposte), l’anamnesi familiare positiva, la mancanza dell’effetto protettivo dovuto all’esposizione ai raggi solari, gli squilibri alimentari, fumo, caffè (più di 5 tazze al giorno), alcool, e soprattutto la ridotta attività fisica.
Quello che comunque ci preme ricordare è che l’osteoporosi è alla base non soltanto di sindromi dolorose spesso associate a situazioni artrosiche ma soprattutto di pericolose fratture patologiche: si calcola che il 25% delle donne dai 60 anni in avanti vanno incontro a fratture spontanee patologiche (soprattutto del collo del femore e della colonna vertebrale).

Malattia aterosclerotica: è ormai conoscenza piuttosto diffusa il fatto che il colesterolo risulta essere costituito da 2 frazioni trasportate nel sangue da due differenti tipi di proteine per cui si distingue l’ HDL colesterolo (che sembra avere una funzione più protettiva sulla parete vascolare) e l’ LDL colesterolo (che sembra esercitare un’azione più dannosa, aterosclerotica appunto sui vasi).
Ebbene, è stato dimostrato che gli estrogeni eserciterebbero un ruolo protettivo nei confronti della malattia aterosclerotica proprio in virtù del fatto che innalzerebbero la quota di HDL a scapito dell’ LDL colesterolo. In menopausa, come è ovvio intuire, avverrebbe esattamente il contrario la carenza di estrogeni determinerebbe , di conseguenza, un aumento della frazione aterogena del colesterolo.
A ciò si aggiungerebbero altri due fattori: una ridotta produzione di Prostaglandine, sostanze che, tra le molteplici attività, esercitano anche una azione vaso-dlatatrice ed antiaggregante piastrinica, ed aumentata increzione di cortisolo e TSH con conseguenti alterazioni del metabolismo glucidico. Tutto ciò però non sembra spiegare in modo completo e certo, almeno in base a recenti studi epidemiologici, la patogenesi della malattia arteriosclerotica e delle sue conseguenze cardio- vascolari.
Senza dubbio grande attenzione meritano anche altri fattori di rischio quali diabete, ipertensione, obesità, fumo, dislipidemia.

Neoplasia dell’endometrio e della mammella.
Tali possibili conseguenze cliniche sono legate all’eccesso relativo degli estrogeni. Durante la menopausa, come abbiamo visto, aumenta la conversione periferica degli androgeni in estrogeni. L’estrogeno che circola in più alte concentrazione è l’estrone solfato che, entrato nelle cellule endometriali, viene convertito in estradiolo la cui successiva metabolizzazione è inibita dal deidro-epiandrosterone (DEA) per cui permane in attività più a lungo che di norma. Ciò spiega anche perchè donne obese hanno una percentuale di rischio maggiore di sviluppare neoplasie endometriali e mammarie.
Altro fattore importante è la dieta e, in particolare, la quota di verdure presenti nella dieta; infatti la dieta vegetariana riduce l’assorbimento degli estrogeni a livello intestinale, dove vengono eliminati in quantità due- tre volte superiori a quelli eliminati dalle donne onnivore.

TERAPIA
Attualmente lo specialista ginecologo ha la possibilità di orientarsi con maggior facilità e precisione di un tempo, nel panorama farmacologico. Infatti oggi è possibile un approccio terapeutico molto più “personalizzato” ai problemi indotti dalla situazione menopausale.
Per semplificare possiamo distinguere tre momenti terapeutici
Durante una prima fase caratterizzata da una condizione di iper- estrogenismo relativo alla ridotta produzione di Progesterone,la scelta farmacologica più adeguata può essere quella di ricorrere alla somministrazione di associazioni estro-progestiniche a basso dosaggio oppure di un progestinico che incida in scarsa misura sul metabolismo lipidico.
Durante le due successive fasi di ipo-estrogenismo e poi di definitiva carenza di produzione estrogenica, (per agire soprattutto sui disturbi di natura vegetativa, psicologica e distrofica) si può ricorrere a prodotti ormonali per via generale o locale oppure a prodotti non ormonali (veralipride bromocriptina) quando le condizioni generali lo consentano.
Cicli di trattamento con estrogeni coniugati sono consigliati in casi più particolari, a seconda dell’ entità della sintomatologia obbiettiva e soggettiva.
Altre frecce sono presenti nella faretra del ginecologo che voglia e sappia affrontare con attenzione, esperienza e buon senso i problemi legati alla menopausa soprattutto in considerazione delle sue conseguenze future, ma qui il discorso si fa tecnico e non più divulgativo.
Quello che ogni donna che entra in questa delicata fase della vita deve ricordare è che un controllo specialistico è sempre opportuno anche se le buone condizioni generali, apparentemente, non lo giustificherebbero.

Sandro VIGLINO
Ginecologo
Pubblicazione Ottobre 1990

PRURITO VULVARE

Può essere di vario tipo: urente, continuo, intermittente, a prevalenza notturno, creando un impellente, istintivo ed improcastinabile desiderio di grattamento spesso così violento che se da una parte lenisce anche se solo momentaneamente il prurito, dall’altra crea delle vere e proprie microlesioni cutanee che infettandosi a loro volta, aggravano la situazione, confondendo e complicando sia la diagnosi sia la terapia. 

Talvolta al sintomo del prurito si accompagna quello di “”bruciore”, con arrossamento ed edema della parte, fissurazione della cute, e quello di una leucorrea biancastra le cui caratteristiche, come vedremo possono aiutare a porre diagnosi differenziale tra varie forme.
Inoltre la vulva è soggetta a subire la patologia di organi concomitanti come succede per esempio con la maggior parte delle malattie vaginali.
Poiché come vedremo, molte sono le cause responsabili di questo sintomo, alcuni hanno suggerito che di fronte a situazioni complesse sia opportuno affiancare al ginecologo un buon dermatologo.
Ciò che spinge lo specialista ad interessarsi a fondo e con attenzione di questo problema, è il fatto che esso è realmente presente, fastidioso ed imbarazzante, è frequente e che nella donna in menopausa è il primo ed unico segnale della presenza di un possibile tumore vulvare.
Accenneremo ora alle cause più frequenti di vulviti in grado di dare prurito locale, accennando anche alle involuzioni cutanee post-menopausali ed a quelle situazioni locali che possono considerarsi a rischio di sviluppare un tumore.
Per eliminare in breve e completamente il prurito, occorre porre anche diagnosi esatta del tipo di vulvite responsabile, cosa che non è sempre facile fare solo clinicamente sia per la complessità di alcuni quadri sia per la sovrapposizione di altre flogosi sopra le lesioni da grattamento.

 

DIAGNOSI DELLE VULVITI

  • anamnesi molto accurata del sintomo e della paziente (abitudini di vita, terapia effettuate o in atto, eventuali altri disturbi, malattie in atto o pregresse, diatesi allergica etc)
  • ispezione clinica attenta della zona
  • coltura di eventuale secreti o loro visualizzazione con microscopio a fresco
  • biopsie locali e altri esami o test di laboratorio

Oggi si adotta, così come avviene per il lo studio delle malattie della cervice uterina, un ingranditore locale che permette di visionare meglio certe zone e di effettuare test con alcune sostanze chimiche (toluidina) e biopsie estremamente mirate; questa metodica prende il nome di VULVO-SCOPIA ed è sempre più usata in quanto permette di scoprire micro lesioni altrimenti per nulla visibili o sospettabili.
Delle varie vulviti poi proporremo un indirizzo generale terapeutico, fiduciosi a quel punto di essere riusciti nell’intento di avere reso coscienti le donne sulla necessità di non sottovalutare il prurito e di avvicinarsi al proprio specialista di fiducia anche in quei casi che molte volte si tenderebbe a sottovalutare (come il prurito nelle donne anziane).
Valuteremo ora le distrofie vulvari mentre rimandiamo alle schede che verranno pubblicate sui numeri successivi la trattazione delle vaginiti e delle vulviti con approfondimento delle specifiche malattie. 

DISTROFIE VULVARI
E’ un capitolo molto importante in quanto nella peri e post- menopausa esse sono le cause più frequenti di prurito vulvare.
Con il termine di DISTROFlA si intende una alterazione della crescita dovuta al mancato nutrimento delle cellule, nel nostro caso della epidermide, cui fa seguito una aumentata reattività cutanea sia in senso difensivo-ipertrofico sia in senso involutivo-atrofico e delle quali il prurito rappresenta il primo sintomo.
La secchezza della pelle perivulvare, facile desquamazione cutanea, diminuzione della elasticità dell’introito vaginale e perdita delle normali difese vaginali nei confronti degli agenti esterni; si nota così una pelle di colore traslucido, sottile e rimpicciolimento delle grandi labbra tendenza all’atrofia delle piccole labbra fino quasi a scomparire. Tutti questi aspetti fisiologici favoriscono quindi l’insorgere di una distrofia cutanea, in cui il prurito, spesso estremamente fastidioso e persistente, diventa aspetto cardine di quasi tutte queste manifestazioni
Tuttavia mentre la atrofia è un fenomeno del tutto naturale, l’ ipef1rofia (ingrandimento reattivo delle cellule) lo è solo in parte, e la DISPLASlA (alterazione dello sviluppo e della organizzazione interna della cellula stessa) non lo è per nulla. Il punto nodale delle distrofie è che alcune di esse sono considerate uno stato a rischio di sviluppo tumorale e quindi, ogni volta che in menopausa comparirà un prurito, esso andrà valutato attentamente ed ogni sospetto dovrà essere diradato con l’approfondimento della diagnosi medianti VULVOSCOPlA E BIOPSlA MIRATA.
Oggi, per quanto l’inquadramento proposto dalla Società Italiana per lo studio della patologia vulvare abbi messo ordine tra le varie terminologie e eponimi della patologia vulvare, l’aspeto clinico tende ad essere considerato non alla stessa stregua della biopsia locale mirata alla quale dovrebbe spettare e solo rigorosamente ad essa, la diagnosi definitiva e l’inquadramento nosografico preciso.
L’aspetto obiettivo delle varie distrofie infatti non è così bene distinguibile, potendo osservare una cute lucente e traslucida e biancastra variante al rosso scuro o rosso vivo spesso con incapacità digitale di distinguere un fenomeno ipertrofico da uno atrofico o una distrofia da una displasia.

 

La patologia vulvare comprende quattro grandi gruppi:

1 )Distrofie di tipo
a) iperplastico = con aumento di attività e volume delle cellule (comprende le vecchie leucoplachie, le neurodermatiti

-senza atipie o irregolarità cellulare
- con atipie

b) atrofico = con atrofia ed involuzione cutanea e comprende le vecchie diziobni di craurosi vulvare e diLichen sclerosus

c) miste = con aree sia atrofiche che ipertrofiche;

2) Atipie vulvari che comprendono
a) displasia lieve
b) displasia moderata
c) displasia grave

3) Carcinoma in situ della Vulva e definito in passato anche con il nome di m. di Bowen, eritoplasia di Queyrat

4) Malattia di Paget vulvare.

1)Distrofie di tipo
a) iperplastico = con aumento di attività e volume delle cellule (comprende le vecchie leucoplachie, le neurodermatiti
-senza atipie o irregolarità cellulare
- con atipie
b) atrofico = con atrofia ed involuzione cutanea e comprende le vecchie dizioni di craurosi vulvare e diLichen sclerosus
c) miste = con aree sia atrofiche che ipertrofiche;
2) Atipie vulvari che comprendono
a) displasia lieve
b) displasia moderata
c) displasia grave
3) Carcinoma in situ della Vulva e definito in passato anche con il nome di m. di Bowen, eritoplasia di Queyrat
4) Malattia di Paget vulvare.
Anche per le malattie vulvari , così come anche per il tumore della cervice uterina, è stato introdotto ed accettato il concetto che le Displasie vulvari e la neoplasia intraepiteliale siano espressione dello stesso tipo di malattia in grado di variare l’aspeetto e la crescita cellulare allontanandolo così tanto dal modello di partenza, da evolvere a tumore se lasciata senza adeguata terapia o controllo.
Tale concetto nosografico, prende il nome di:
V.I.N. = neoplasia intraepiteliale vulvare e comprendente tutte le displasie ed il cancro in situ.
Le lesioni distrofiche sono favorite come si è detto dalla carenza degli estrogeni ed anche, pare, dalle flogosi croniche da stati di carenza cronica di Vit A e da alterazioni di quei fattori che influenzano la crescita locale cellulare (detti caloni) sia in senso di deficit che di iperattività.
Solo nel5% della atrofie può insorgere una lesione ATIPICA ed evolvere fino al cancro; e solo il 25% di quelle iperplastiche può sviluppare una lesione atipica.
La malattia di Paget vulvare è rara ma possibile in questa zona; similmente a quanto succede sulla mammella, compare sulla cute una zona eczematosa con crosticine, desquamante ed estremamente pruriginosa. Essa è da valutare con attenzione in quanto può essere sentinella superficiale cutanea di un tumore sviluppatosi in una zona molto vicino, per esempio ghiandola del Bartolini, ghiandole parauretrali di Skene o ghiandole sudoripare. Poiché tuttavia spesso è riscontrabile anche in assenza di malattia neoplastica, è ammessa oggi anche una sua manifestazione a se stante, senza tumore limitrofo.
Alla luce di quanto esposto appare chiaro come il prurito sia il sintomo più importante, in quanto presente in queste alterazioni in oltre il 60% dei casi; non solo, ma esso può precedere la loro nascita anche di alcuni anni.
Infine anche a livello vulvare esistono spesso dei nevi cutanei e la cui variazione di colore e morfologica nel tempo andrà attentamente riscontrata, esattamente come accade per le altre localizzazioni a livello cutaneo; d’altra parte è inutile segnalare che tra i sintomi presenti nei nevi ad iniziale degenerazione maligna (melanomi) può essere con frequenza presente anche il prurito.

TERAPIA DELLE DISTROFIE VULVARI.
Si sottolinea ancora come in queste forme la visione diretta ed ingrandita della area interessata e la sua lettura sotto microscopio sia un passo necessario per impostare solo una terapia sintomatologica anti-prurito
Nelle forme ATROFICHE si usano prodotti a base di testosterone che eutrofizzano la cute anche se danno talvolta l’effetto collaterale, se usati per lungo tempo, di lieve aumento della peluria
Sempre utili ma un poco meno efficaci invece sono i prodotti contenenti progesterone, i quali peraltro non portano alcun importante effetto collaterale. Queste terapie devono essere protratte a lungo (si parla di 3-4 settimane) per potere essere veramente efficaci.
Ogni tipo di estrogeno locale o per via generale non comporta alcun miglioramento del prurito locale nelle vulviti, nè riesce a migliorare il trofismo vulvare, invece è molto efficace sul trofismo della mucosa vaginale.
Nelle forme IPERPLASTICHE la terapia è medica-steroidea per le forme senza atipie, mentre è solo escissionale chirurgica per le altre; si ricorda come le distrofie iperplastiche con atipie siano le più soggette a potere degenerare in una forma tumorale maligna.
Come vedremo poi nel capitolo delle neoplasie vulvari, la terapia del cancro in situ e della m. di Paget è chirurgica escissionale e si esegue una vulvectomia semplice o radicale fino ad arrivare ai linfonodi inguinali.
Come consiglio estremamente pratico si può aggiungere che limitatamente allo scopo di lenire il dolore, e parallelamente ad una terapia specifica, si possono usare dei farmaci ad azione anestetica locale (Luan pomata o Uretral pomata) o alcune pomate anti-emorroidarie che contengono anestetico locale.

 

 

CONSIGLI ALLE PAZIENTI IN CASO DI PATOLOGIA VULVARE

  • non sottovalutare mai un prurito vulvare persistente specie se in menopausa non accompagnato da alcun altro sintomo, rivolgendosi ad uno specialista molto precocemente;
  • usare biancheria di cotone, non colorata e poco aderente alle zone di frizione
  • evitare se possibile di indossare indumenti troppo stretti (collant o blue jeans attillati)
  • usare preferibilmente detergenti acidi, rispetto all’uso dei comuni saponi e evitare profumi, deodoranti intimi.
  • alcuni prodotti vegetali usati in erboristeria, se usati su pelli già danneggiate, possono avere effetto sensibilizzante o irritante;
  • nelle forme a probabile eziologia infettiva, usare assolutamente biancheria da bagno personale
  • non esitare ad eseguire un dosaggio della glicemia: un prurito secondario ad una micosi vulvare persistente, può essere il primo sintomo di un inizialissimo diabete.

 

Riccardo TRIPODI
Ginecologo
Pubblicazione Ottobre 1990

GRAVIDANZA E LAVORO

È dunque naturale che anche un evento importante quale una gravidanza debba tener conto di tale realtà. 

La donna che si appresta ad affrontarla si rivolgerà al ginecologo non soltanto per essere sottoposta ai normali controlli diagnostici e clinici, ma anche per ricevere consigli circa l’igiene personale, l’alimentazione, lo sport, i viaggi, l’attività sessuale e soprattutto circa il comportamento da tenere nei confronti della attività lavorativa.
Compito del medico sarà innanzitutto quello di raccogliere informazioni circa il tipo di lavoro, l’ambiente in cui si svolge, la distanza che lo separa dall’abitazione, gli eventuali problemi psicologici ad esso correlati ecc.
Sarebbe qui troppo lungo, e forse non del tutto giustificato, enumerare tutti i tipi di lavorazioni che possono costituire pericolo per la normale prosecuzione della gravidanza: ci sono leggi (art. 5 del D.P.R. 25/11/76 n. 1026; D.P.R. 20/1/76 n. 432; D.P.R. 19/3/1956 n. 303) che si occupano specificamente di ciò ed in particolare degli aspetti medico-legale e giuridico. A noi basterà ricordare alcuni concetti generali.
Per quel che riguarda l’astensione obbligatoria dal lavoro, questa è prevista due mesi prima dell’epoca presunta del parto e tre mesi dopo; ovviamente ci sono attività lavorative particolarmente faticose o pericolose che prevedono un anticipo di tale astensione (1 mese) oppure un anticipo di periodi di tempo anche più lunghi se esistono gravi complicazioni della gestazione o se il lavoro viene considerato pregiudizievole per la salute della donna e del nascituro o se la lavoratrice non può venire occupata in altri compiti.
Va ricordato inoltre che essa ha diritto ad un periodo di astensione facoltativa dal lavoro per un massimo di 6 mesi entro il 1° anno di vita del bambino.
Ovviamente esiste il divieto di licenziamento (dall’inizio della gravidanza fino al compimento del 1° anno di vita del bambino), tranne nei casi – anche questi previsti dalla legge – in cui si verifichino situazioni di particolare gravità o necessità.
Come si vede esistono numerose disposizioni in materia volte a salvaguardare la normale evoluzione della gravidanza, anche se qualcuno sostiene forse giustamente, che occorrerebbe una normativa che tutelasse anche la prima fase della gestazione dato il frequente verificarsi di interruzioni spontanee della stessa nei primi 3-4 mesi, senza contare che il prodotto del concepimento è, in questa fase, più esposto alle influenze negative dell’ambiente esterno.
Riteniamo comunque che nella maggioranza dei casi vada fatto appello al buon senso; molte attività lavorative non sono di per sé pericolose: spesso è sufficiente che la donna ricorra ad alcuni elementari accorgimenti (non compiere sforzi, evitare gli strapazzi fisici, interrompere ogni tanto l’attività per brevi pause, non mantenere troppo a lungo la stazione eretta, ecc.) per evitare a volte conseguenze spiacevoli. D’altra parte lo stesso discorso investe un poco tutte le abitudini di vita della gestante: ricordiamoci che il fumo, l’alcool, lo stress, l’uso di determinati farmaci possono causare danni assai più gravi.

Sandro M. Viglino
Specialista in Ginecologia
e Ostetricia
Pubblicazione Febbraio 1985

CONTRACCEZIONE: UNA REALTA’ PER LA COPPIA

«Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza … non è mezzo per il controllo delle nascite» 

Partendo da questo presupposto, considerando l’enorme incremento che la popolazione umana ha avuto negli ultimi decenni, e, soprattutto, essendo personalmente convinti che ogni bambino ha il diritto di nascere desiderato, appare logico sostenere che l’educazione sessuale, la prevenzione e soprattutto l’infor­mazione sui metodi contraccettivi vanno intensificate.
II discorso sulla contraccezione può essere condotto in modo molto ampio, data la complessa sfaccettatura del problema. Noi cercheremo di schematizzare quanto più possibile la trattazione, mettendo in evidenza quegli aspetti che rivestono un interesse più generale lasciando poi al colloquio col ginecologo il compito di chiarire quei punti che possono rivestire un interesse più particolare e personale. A questo proposito va subito detto che la prima e più importante questione riguarda proprio il rapporto medico-paziente. Troppo spesso infatti il ginecologo si trova ad affrontare il discorso sulla contraccezione esclusivamente con la donna, il che denota l’esistenza di un disinteresse o almeno di una sorta di imbarazzo da parte del partner maschile. Va invece ancora una volta sottolineato come la contraccezione sia un problema di coppia e che va affrontato con la coppia al fine di valutare la reale motivazione e necessita dell’uso di un metodo contraccettivo. E’ basilare che la coppia rifletta sui metodi anticoncezionali proposti o sconsigliati dal ginecologo al fine di scegliere quello più accetto.
Possiamo dividere i metodi contraccettivi in alcuni gruppi in base al meccanismo d’azione. Distingueremo pertanto:
- metodi di barriera maschili
- metodi di barriera femminili
- metodi basati sul ritmo mestruale
- contraccezione ormonale
- dispositivi intrauterini (IUD)
Prima di passare in rassegna questi gruppi di tecniche contraccettive occorre spendere qualche parola su quello che purtroppo resta ancor oggi il più diffuso dei metodi contraccettivi, se così si può definire: vogliamo cioè alludere al cosiddetto «coito interrotto». Questo termine sta ad indicare quella tecnica consistente nell’estrazione del pene dalla vagina prima che avvenga l’eiaculazione.
A parte la considerazione che la media delle gravidanze indesiderate si aggira intorno al 18-19% donne-anno, dimostrando così il suo alto margine di insicurezza, resta il fatto che questo metodo finisce con l’indurre nella coppia uno stato d’ansia, di tensione psichica che impedisce di vivere completamente e liberamente il rapporto sessuale.
Sempre come premessa è utile ricordare il concetto di efficacia di un metodo contraccettivo. La formula più semplice per valutarla è il cosiddetto «indice di Pearl» proposto da Raymond Pearl nel 1932. Esso esprime il numero di gravidanze che si hanno in 100 donne che usano un dato metodo per la durata di un anno (di qui il concetto di donne-anno espresso poc’anzi). Ad esempio per ciò che riguarda il coito interrotto l’indice di Pearl, secondo gli Autori, e compreso tra 10 e 30.

Metodi di barriera maschili
Questi metodi si esprimono fondamentalmente nell’uso del profilattico. Esso può venire usato in alcune condizioni:
- quando è il partner maschile ad assumersi la responsabilità della contraccezione;
- quando la donna ha partorito da poche settimane e non può quindi ancora ricorrere ad altri contraccettivi;
- quando la donna è in attesa di iniziare ad assumere la pillola o di applicare un dispositivo intrauterino;
- quando si hanno rapporti ses­suali sporadici e poco frequenti;
- nei casi in cui non è possibile, per ragioni mediche, ricorrere ad alcun altro metodo contraccettivo.
Il profilattico deve essere usato immediatamente prima del rapporto sessuale ed estratto dalla vagina subito dopo l’eiaculazione in modo da impedire che una certa quantità di sperma possa fuoriuscire. Esso è privo di effetti dannosi sull’organismo ed è il metodo più semplice che si può utilizzare in casi di emergenza, quando il rapporto sessuale non era stato previsto. Se si rispettano scrupolosamente tutte le precauzioni, si può affermare che il rischio di gravidanza e inferiore al 5 %.

Metodi di barriera femminili
A parte i vari tipi di coppe (cervicale – a volta – vimule) questi metodi si concretano
essenzialmente nel «diaframma». Esso è costituito da una sottile cupola di gomma inserita su un anello metallico elastico. Ne esistono diversi tipi e di diverse misure a seconda delle caratteristiche anatomiche del soggetto. Per ciò che riguarda il meccanismo d’azione esso consiste nel creare una barriera che impedisce agli spermatozoi di raggiungere l’uovo e di fecondarlo. Esso va applicato 1-2 ore prima del rapporto sessuale – dopo averlo cosparso ai lati di una crema spermicida che ne aumenta l’efficacia e quindi la sicurezza – e non va tolto prima di 6-8 ore dopo che il rapporto è avvenuto.
E’ quindi fondamentale che la donna accetti volentieri questo metodo perché è l’unico che richieda l’acquisizione da parte della donna di una certa manualità per poter inserire e rimuovere il diaframma stesso. Quindi non è indicato nei casi in cui la donna prova fastidio a toccare frequentemente i propri genitali o teme che possa spostarsi durante il rapporto. Infine non permette di avere più di un rapporto nell’arco di 6-8 ore dal momento che occorre applicare nuovamente la crema spermicida e quindi rimuoverlo e reinserirlo. Sono punti a suo favore invece il fatto di essere innocuo, economico, nel complesso facile da usare e utilizzabile dalla maggior parte delle donne.
E’ utile tuttavia farsi controllare dal ginecologo con una certa frequenza ed eseguire uno striscio vaginale ogni anno. Se viene usato con tutte le precauzioni il rischio di gravidanza e intorno all’8%.

Metodi basati sul ritmo mestruale
Il concetto su cui si fondano questi metodi e quello di evitare i rapporti nel periodo ovulatorio, quel periodo cioè che coincide con lo scoppio del follicolo maturo a livello dell’ovaio e che fa si che l’uovo sia fecondabile. Di questo gruppo ricorderemo essenzialmente:

L’astinenza periodica o metodo di Ogino – Knaus
E’ un metodo basato sul fatto che l’uovo conserva la possibilità di essere fecondato per circa 24 ore mentre gli spermatozoi hanno la capacità di sopravvi­venza e di fecondazione per circa 48-72 ore. Ne consegue che in ogni ciclo c’è un breve periodo durante il quale è possibile la fecondazione: la difficoltà sta nel fatto che i cicli mestruali di una donna possono non avere sempre la stessa durata e che anche in donne con cicli regolari fattori accidentali (stress, malattie, ecc.) possono modificarne la durata. A questo va aggiunto che il metodo ritmico ha lo svantaggio di limitare i rapporti a certi periodi del ciclo mestruale con conseguenti restrizioni dell’attività e della soddisfazione sessuale. L’indice di Pearl e circa 26.

Metodo della «temperatura basale».
Tale tecnica si basa sul rilievo della temperatura, mediante apposito termometro, posto nel retto o in vagina per 5 minuti, tenuto conto che nella donna in fase di ovulazione si può regi­strare un innalzamento della temperatura di 0.7 – 0.8 C’.
Se tali valori termometrici sono stati scrupolosamente registrati e se tale innalzamento termico si mantiene tale per almeno 72 ore, è giustificato pensare che il concepimento sia assai poco probabile nel periodo che va fino all’inizio della successiva mestruazione. Se il coito libero è dunque limitato alla fase postovulatoria, su 100 coppie che usano tale metodo, si hanno circa 7 gravidanze in desiderate in un anno.
Resta comunque il fatto che tali metodi di astinenza periodica sono da considerare nel complesso negativi sia per l’alto numero di gravidanze indesiderate che per i lunghi periodi di astinenza che essi impongono.
Rimangono ora da trattare gli ultimi due capitoli sulla contraccezione, vale a dire la contraccezione ormonale (pillola) e i dispositivi intrauterini (IUD).

Contraccezione ormonale (pillola)
Il discorso, in tema di pillola, è quanto mai vasto e complesso dal momento che gli studi compiuti al suo riguardo sono ancor oggi al centro dell’attenzione dei medici e non soltanto dei medici. Certo è che la pillola ha rappresentato e rappresenta il massimo risultato ottenuto dalla ricerca sui contraccettivi.
Per quanto riguarda il nostro Paese bisogna dire che il suo uso è ancora piuttosto limitato, specie se ci rapportiamo agli altri Paesi come l’Olanda, l’Australia, la Germania, gli USA ecc.: questo probabilmente trova spiegazione da un lato nei pesanti condizionamenti culturali, di costume e di tradizioni che ancora ci affliggono e dall’altro nell’ancora insufficiente informazione ed educazione sanitaria.
Intanto è opportuno spendere qualche parola sulle caratteristiche biologiche della pillola. Essa risulta dalla combinazione di due ormoni: estrogeni e progestinici. Come si sa, questi sono gli ormoni che normalmente vengono prodotti dall’ovaio: la loro regolazione dipende dall’attività dell’ipofisi (una piccola ghiandola posta alla base del cervello) che, nella sua azione di controllo sui sistema endocrino, produce, tra l’altro, 2 ormoni: l’ormone follicolo-stimolante o FSH e l’ormone luteinizzante o LH. A sua volta l’ipofisi risponde ad un controllo superiore esercitato dall’ipotalamo il quale dismette delle sostanze (definite releasing hormones o RH) che tramite il sistema vascolare portale giungono all’ipofisi controllandone cosi l’attività. Appare chiaro dunque che l’attività ipotalamo-ipofisi-ovaio è strettamente correlata: infatti se, ad esempio, la produzione ovarica di estrogeni e progesterone aumenta, si riduce proporzionalmente la dismissione ipotalamica di FSH-LH RH e conseguentemente quella di FSH ed LH ipofisari. II contrario avviene naturalmente qualora l’attività ovarica si riduca.
Date queste premesse è forse più facile adesso comprendere il meccanismo d’azione della pillola.
Essa infatti agisce a diversi livelli:
-a livello centrale, determinando una inibizione dell’ovulazione. Questo è ottenuto tramite un abbassamento della secrezione tonica delle gonadotropine (FSH ed LH), con conseguente abolizione del loro picco ovulatorio.
-a livello ovarico, determinando una riduzione della sensibilità alle gonadotropine unitamente ad una diminuita steroidogenesi da parte dell’ovaio stesso.
-a livello del muco cervicale, che viene reso particolarmente denso e impenetrabile agli spermatozoi da parte della componente progestinica della pillola.
-a livello endometriale, dove il progestinico induce uno stato di inattività, di riposo funzionale: azione quest’ultima che può essere più o meno evidente a seconda del cosiddetto «clima» della pillola (a seconda cioè che prevalga l’azione estrogenica o progestinica).
-a livello tubarico, inducendo un’alterata motilità interferendo così con il trasporto dell’uovo.
Capita abbastanza spesso che quando si informa la donna che richiede contraccezione sulle caratteristiche della pillola, si venga da questa interrotti affermando di rifiutare tale metodo contraccetivo perché dannoso. E’ opportuno pertanto sfruttare questa occasione per ribadire ancora una volta alcuni concetti sulla pre­sunta patogenicità della pillola. Ogni farmaco presenta ovviamente delle controindicazioni; ed è altrettanto ovvio che chi presentasse dette controindicazioni non può assumere o può assumere solo sotto stretto controllo medico tale farmaco. Questo discorso vale naturalmente anche per la pillola.
Esistono infatti delle controindicazioni assolute (casi nei quali non deve assolutamente essere usata) e delle controindicazioni relative (casi nei quali può essere usata solo con molta cautela) al suo uso. Fra le prime potremo ad esempio ricordare l’allattamento e la gravidanza, una patologia tromboembolica e/o tromboflebitica in atto o pregressa, malattie cerebrovascolari e coronariche, il cancro dell’endometrio, il cancro della mammella, il diabete ed altre.
Fra le seconde l’obesita in donne di età inferiore ai 35 anni, l’epilessia, i fibromi uterini, l’ipertensione, la depressione psichica, le cefalee, ecc.
Un discorso a parte meritano l’età ed il fumo.
Per quel che riguarda l’età, è sconsigliabile somministrare la pillola a donne di età superiore ai 35 anni ed alle giovanissime, salvo casi particolari, finchè non è stato completato lo sviluppo dell’apparato genitale interno (in effetti il problema della contraccezione nelle adolescenti è talmente complesso e delicato da richiedere in futuro una esposizione a parte). Riguardo al fumo va subito detto che l’indicazione fondamentale e quella della sua sospensione; esso infatti agisce come fattore aggiuntivo al fine di aumentare determinati rischi. Basti pensare che donne di età superiore ai 40 anni, usatrici di pillola e fumatrici di oltre 15 sigarette al giorno presentano un rischio di infarto miocardico 4 volte superiore a quello di donne della stessa età, usatrici di pillola ma non fumatrici.
Un grande allarmismo è stato fatto in tema di cancro della mammella e di cancro del collo dell’utero; questo è un esempio di come spesso le convinzioni personali di chi gestisce la salute pubblica non collimino e non tengano conto di quanto invece hanno appurato gli studi statistici. Proprio in riferimento al cancro del collo dell’utero, il fatto che ne fosse stato rilevato un maggior numero di casi fra le donne usatrici di pillola, aveva ingenerato la convinzione che l’uso della pillola predisponesse al cancro del collo uterino. In realtà non si era tenuto e non si tiene conto del fatto che le donne che impiegano un contraccettivo si sottopongono periodicamente a controllo ginecologico a differenza della popolazione femminile generale, e questo pertanto permette di identificare un maggior numero di forme neoplastiche, peraltro allo stadio iniziale e quindi passibili di una risoluzione pressoché totale. Recentemente addirittura un gruppo di ricercatori statunitensi ha affermato che la pillola svolgerebbe un ruolo protettivo nei confronti del cancro della cervice uterina, dell’ovaio e della mammella. Mentre per quest’ultimo già da tempo è stato dimostrato un ruolo preventivo della pillola (sempre che venga assunta da donne che abbiano, all’inizio del trattamento, mammelle sane), per i primi due l’affermazione ci sembra un pochino ottimistica; però l’abbiamo riportata per dimostrare che ciò che conta sono i numeri e non le «voci» spesso divulgate da fonti non attendibili. Ritornando alle caratteristiche della pillola bisogna aggiungere che ne esistono diversi tipi: quella che più comunemente viene impiegata a scopo contraccettivo è quella combinata (estrogeno+progestinico). Altri tipi sono quella sequenziale, bifasica, minipillola ed infine la trifasica. Oltre che il tipo di pillola, anche il dosaggio dei suoi componenti (estrogeno e progestinico) può variare, ed e proprio sfruttando queste differenze che si può, caso per caso, personalizzare la scelta della pillola più adatta.
Abbiamo già accennato al fatto che questo e il metodo contraccettivo caratterizzato dal più alto indice di sicurezza (0.5-0.7 gravidanze 100 donne/anno). Per quel che riguarda le modalità di somministrazione va detto che ogni «ciclo» consta di 21 confetti che si iniziano ad assumere dopo un intervello di 7 giorni durante il quale avviene la mestruazione. Prima di prescrivere una contraccezione ormonale, una volta escluse controindicazioni assolute o relative, occorre verificare che esistano le condizioni permittenti tramite un accurato esame ginecologico e laboratoristico della funzionalità epatica, renale, del metabolismo lipidico e glucidico, della coagulazione del sangue. Naturalmente occorre eseguire controlli periodici dapprima ogni 3-6 mesi ed in seguito ogni anno. Un ultimo problema da affrontare riguarda la sospensione periodica dell’assunzione: a differenza del passato quando si riteneva meno rischioso fare sospensioni frequenti, si ritiene oggi più logico attuare una sospensione di uno-due mesi dopo uno-due anni di assunzione, sempre che non sorgano problemi durante il trattamento.
In conclusione la scelta di una contraccezione ormonale può essere una scelta estremamente semplice e priva di rischi a patto che venga affrontata con senso di responsabilità sia da parte del ginecologo che, soprattutto, da parte della donna.

Dispositivi intrauterini (DIU)
Dal punto di vista storico pare che per ritrovare i primi esempi di contraccezione meccanica intrauterina occorra risalire agli arabi i quali introducevano una piccola pietra levigata nell’utero delle loro cammelle, prima di intraprendere un lungo viaggio, affinché non restassero gravide. Certamente già nel secolo scorso il problema di poter inserire corpi inerti nell’utero anche a scopo contraccettivo costituiva per certi ricercatori l’occasione per compiere tutta una serie di esperimenti. Si realizzarono infatti diversi dispositivi di forma e materiali differenti (tra i quali anche il dispositivo a forma di spirale, forma che ha poi finito per rappresentare per antonomasia questo tipo di contraccettivo) che rappresentano i progenitori degli attuali DIU. Va detto a questo proposito che un vero e proprio progresso nel campo della contraccezione meccanica intrauterina è stato raggiunto con la realizzazione dei cosiddetti DIU medicati (DIUM). Infatti dapprima si era pensato che variando la forma, le dimensioni, la consistenza dei vari tipi di DIU fosse possibile ottenere un miglioramento dell’efficacia e della tollerabilità. In realtà effetti collaterali se ne riscontravano sempre: metrorragie, dolori, espulsioni ecc. Zipper e collaboratori dimostrarono, negli anni 1969­1970, che l’inserimento di un filo di rame nell’ utero della coniglia determinava una notevole diminuzione del numero degli impianti di gravidanze. Inoltre dimostrarono che l’efficacia contraccettiva del rame era proporzionale alla superficie del filo e che da 0 a 200 mmq l’indice di Pearl scendeva da 18.3 a 1. Attualmente pertanto i tipi di DIU in commercio sono tutti quanti medicati al rame (eventualmente con un’anima di argento), sono costituiti in genere da polietilene reso radio-opaco ed hanno varie forme: a T, a 7, a V, a ferro di cavallo ecc.
Meccanismi di azione: mentre l’azione della pillola estro-progestinica si svolge a monte (col blocco dell’ovulazione) il meccanismo contraccettivo sfruttato dalla cosiddetta «spirale» si esercita verosimilmente a livello dell’annidamento, dell’impianto in utero cioè della nuova entità data dall’unione dello spermatozoo maschile con l’uovo femminile. I DIU in plastica provocherebbero infatti a livello endometriale una reazione infiammatoria da corpo estraneo (una sorta di infiammazione asettica) che renderebbe inadatto l’ambiente uterino ad accettare il prodotto di concepimento. Per quel che riguarda invece i DIU medicati al rame il meccanismo sarebbe diverso, anche se sulla sua esatta interpretazione si sta ancora discutendo: secondo alcune teorie agirebbe antagonizzando lo zinco tanto che quest’ultimo diminuirebbe a livello endometriale nella fase secretiva del ciclo nelle donne portatrici di DIUM; secondo altre agirebbe anche a livello tubarico alterando il trasporto dell’uovo dalle tube all’utero; altre infine sostengono che la presenza del DIUM provocherebbe un aumento della contrattilità della muscolatura uterina con conseguente espulsione del prodotto di concepimento.
Indicazioni e controindicazioni
Fondamentalmente le indicazioni principali sono rappresentate da quelle donne che non sono in grado di utilizzare la contraccezione ormonale, che non tollerano gli estroprogestinici o che presentano controindicazioni al loro uso.
Fra le controindicazioni ricorderemo la gravidanza, le infezioni pelviche, le malformazioni uterine, fibromi e neoplasie uterine ecc.
Per quel che riguarda gli svantaggi rispetto alla pillola ricordiamo primo fra tutti la minore sicurezza contraccettiva (2-3 gravidanze 100 donne-anno), metrorragie e contrazioni dolorose, la possibilità di reazioni infiammatorie, le espulsioni.
Inserimento e rimozione.
L’inserimento del dispositivo intrauterino è una pratica estremamente facile (in mani esperte) e assai meno dolorosa di quel che spesso viene riferito. L’effetto contraccettivo inizia subito dopo l’inserimento e si protrae per circa due anni, dopo i quali la spirale va rimossa e, se non ci sono ostacoli, sostituita nello stesso momento. La rimozione è del tutto indolore ed in genere semplicissima.
Naturalmente anche per i dispositivi intrauterini così come per la pillola, occorrono controlli ginecologici periodici allo scopo di verificare che tutto proceda regolarmente.

Sandro Viglino – ginecologo
pubblicazone 1882

IPERTENSIONE E GRAVIDANZA

Bisogna tener presente infatti che durante la gravidanza avvengono profondi cambiamenti del sistema cardiovascolare materno e che non è facile definire con precisione il punto limite in cui questi cambiamenti possono essere considerati ancora normali o già patologici. 

Per questo motivo esistono numerose classificazioni in cui le differenze vertono essenzialmente sui valori di pressione arteriosa (diastolica e sistolica) da considerare come elevati, e sulla possibilita’ o meno di associare la perdita di proteine nelle urine e la presenza di edemi nella sindrome pre-eclamptica .
In un recente rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità è stato proposto, sulla base di dati clinici epidemiologici, il valore di 90 mmHg di pressione minima come punto di separazione tra gravidanza normale ed ipertensione gravidica.
Occorre tenere inoltre presente che la gravidanza di per sè provoca inizialmente un abbassamento dei valori pressori, e quindi se 90 mmHg può essere considerato un valore limite corretto nella seconda metà della gravidanza, non può esserlo nelle prime 20 settimane, in cui la diastolica può essere fisiologi­camente anche di 15 mmHg.
Il secondo segno importante, rilevabile in presenza di disturbi di tipo ipertensivo in gravidanza è la perdita di proteine attraverso le urine.
Anche se non è inusuale riscontrare una modesta quantità di proteine nelle urine della gravida, proprio perché i già citati cambiamenti nell’assetto circolatorio, presenti anche a livello renale, rendono possibile questa evenienza, facilitata dallo stare molto in piedi e dal maggior peso.
Quindi se si riscontrano proteine nelle urine, prima di allarmarsi, è bene fare una successiva verifica, raccogliendo le urine prodotto nell’arco delle 24 ore: in questo caso valori non superiori ai 300 mg sono da considerare ancora normali, altrimenti siamo in presenza di un eccesso di perdita proteica.
Altri segni della patologia possono essere la comparsa di edemi e l’eccessivo aumento di peso.
Bisogna tuttavia tener presente che la presenza di edemi non è facile da valutare e che la comparsa dei singoli segnali isolatamente non deve allarmare; inoltre è sempre solo il medico che è in grado di valutare se si è veramente in presenza di una gravidanza a rischio.
Sono da considerarsi a rischio le gravidanze in presenza di :
-disturbi renali della gravida o di parenti stretti
-diabete
-prima gravidanza
-età avanzata della gravida
,-pre-eclampsia nella precedente gravidanza
Infatti la molteplicità e la sfaccettatura con cui si presentano i vari fattori in gioco, la non ancora completa conoscenza delle cause che conducono a questa patologia non rendono semplici diagnosi e profilassi.
Negli anni passati qualche tentativo di cura è stato fatto, ma con scarso successo.
Si pensava che potesse essere utile ridurre l’apporto di sale, si sono impiegati diuretici, sono stati utilizzati anticoagulanti quali eparina e suoi derivati, ma il risultato non è stato soddisfacente.
Si è pensato quindi di attuare una profilassi che si basi essenzialmente su una diagnosi precoce ed un attento monitoraggio della gravida.
Negli ultimi anni così si è fatto qualche passo avanti anche nella comprensione dei meccanismi fisiopatologici che sono alla base del disturbo.
E’ stato così evidenziato l’evento scatenante: uno squilibrio della normale produzione di due sostanze, il trombossano (aggregante piastrinico e vasocostrittore) e la prostaciclina (potente vasodilatatore e inibitore dell’ aggregazione piastrinica.
Durante la gravidanza normale aumenta la sintesi di entrambi e quindi l’equilibrio viene mantenuto.
Viceversa nella gravidanza complicata da ipertensione si verifica uno squilibrio, con aumento di trombossano e diminuzione di prostaglandina.
Queste sostanze derivano entrambe dall’acido arachidonico attraverso l’azione dell’enzima cicloossigenasi.
Si è scoperto che l’acido salicilico, la comune aspirina, è in grado di bloccare la cicloossigenasi e, se somministrato a basse dosi, può agire selettivamente sopprimendo solo la produzione di trombossano senza interferire con quella della prostaglandina.
Si è così verificata l’efficacia di un trattamento con aspirina a basso dosaggio (60 mg/giorno), iniziato a partire dalla 28 settimana, in primipare che presentavano ancora pressione normale, ma giudicate a rischio.
Si è così giunti a ridurre a metà i casi di ipertensione in gravidanza e di conseguente ritardo nella crescita intrauterina.
Uno studio analogo viene proposto anche dall’Istituto Mario Negri , in collaborazione con diversi Centri di Ostetricia in tutta Italia, attualmente in corso.
Da questo studio si è rilevato anche che la parziale inibizione dell’aggregazione piastrinica presente anche a livello fetale non sembra interferire sui meccanismi di emostasi, come confermato clinicamente dall’assenza di complicanze emorragiche nel neonato.
Studi paralleli hanno inoltre escluso la possibile associazione tra utilizzi di aspirina ed eventuali difetti congeniti del neonato.
Lo sforzo ancora da compiere ora è quello di verificare se i benefici di un simile trattamento sono usufruibili anche da donne gravide il cui rischio di presentare questa patologia è meno elevato.
L’importanza di questi studi è data dal fatto che questa patologia (pre­eclampsia) ed il ritardo di crescita intrauterina restano tuttora tra le più frequenti patologie della gravidanza e tra le più importanti cause di pre­maturità, morbosità e mortalità neonatale e di mortalità materna.

Dott. A. Bodrato
Farmacista
Pubblicazione Aprile 1990

TUMORI FEMMINILI – PREVENZIONE

TUMORI DELL’UTERO 

Se il rinvenimento del tumore ha luogo in fase sufficientemente precoce l’intervento medico può essere risolutivo.
Ecco perché l’azione preventiva è indispensabile e lo screening di massa auspicabile nelle donne dopo i 30-50 anni.
Laddove si è praticato uno screening di massa si è avuta una drastica riduzione dell’incidenza del cervico-carcinoma.
Il rischio di morte è diminuito da 41 a 5 donne ogni 10.000; un dato estremamente convincente sull’ efficacia di una seria iniziativa della prevenzione.
Lo sforzo delle autorità sanitarie deve quindi essere accolto dalla popolazione femminile ed ogni donna deve rendersi parte attiva nel mettere in pratica le indicazioni fornite.

Analisi Classiche
Pap -Test
Si tratta dell’esame citologico che deriva il nome dal suo ideatore, Papanicolau; viene utilizzato da una cinquantina di anni. Consiste nel prelievo di cellule, (realizzato con una spatola in legno e quindi assolutmnente indolore) dal collo dell’utero. Le cellule poste su di un vetrino sono esaminate al microscopio. Sovente per una maggior validità dell’esame vengono anche prelevate celIule del canale cervicale utilizzando una cyto­brush.

Biopsia
Si tratta del prelievo mirato di alcune cellule della zona in cui si sospetta resistenza di una neoplasia cervicale.
Il risultato dell’ esame non lascia adito a dubbi e quindi può essere una valida base di partenza per una terapia mirata.

Colposcopia
Si effettua utilizzando uno strumento ottico (colposcopio) con il quale il ginecologo osserva a vari ingrandimenti la cervice uterina. L’osservazione avviene in tre tempi diversi.
Prima il collo dell’utero viene osservato dopo detersione con soluzione fisiologica; poi dopo applicazione di ac. acetico diluito a 3-5%; da ultimo con jodio e ioduro secondo il test di Schiller. Grazie a questa triplice osservazione il colposcopista può individuare quadri “normali”, “anormali non significativi” (presenza di epitelio bianco sottile e/o displasia lieve)e “anormali significativi” (epitelio bianco ispessito e/o carcinoma in situ).
Questo tipo di indagine potrebbe quasi azzerare la percentuale dei flalsi negativi legati al Pap-test; però la complessità della metodica ne impedisce l’impiego come screening di massa.

Speculoscopia
Consiste nell’ illuminare direttamente l’interno della cavità uterina per esaminare eventuali variazioni.
La Speculoscopia in affiancamento al Pap-Test può ridurre drasticamente il numero di donne che svilupperà il tumore al collo dell’utero.
Sarebbe necessario effettuare indagini diagnostiche sul 70-80% della popolazione femminile tra i 20 ed i 65 anni, scrcening di massa che pur richiedendo un impegno notevole sia di denaro pubblico che di tempo, sarà tuttavia possibile realizzare; soprattutto se i medici di base ed i ginecologi si sentiranno impegnati in prima linea in questa lotta al male. Purtroppo la realtà quotidiana ci insegna che siamo ancora molto lontani dal compimento di questo “sogno”.
Innanzitutto le donne che regolarmente si sottopongono al pap-test sono ancora in numero troppo limitato e inoltre il solo Pap-test può dare risultati “falsi negativi”; infatti talora non riesce ad individuare la presenza di lesioni precancerose rendendo vano lo scopo stesso dello screening che è formulare una diagnosi preclinica del carcinoma cioè scoprire i precursori e le degenerazioni di vario grado.
Proprio per indicare i diversi possibili stadi della malattia si sono adottate due scale di misurazione delle degenerazioni:
CIN I CIN II CIN III (CIN= Neoplasia Cervicllie Intra-epiteliale) e SIL basso grado SIL alto grado (Lesione Squamosa Intraepitcliale) .

Nuova Tecnica
Più che di una vera nuova tecnica si tratta di un nuovo sistema per attuare la speculoscopia impiegando la luce chimica (cioè fredda) di Speculite.
Questa nuova tecnica consiste nell’osservare direttamente la cervice precedentemente umettata con acido acetico al 5%.
La luce fredda di Speculite differenzia visivamente le aree di tessuto sano da quelle patologiche (aceto-bianche) e su queste ultime si dirigeranno le successive indagini. I risultati di un confronto tra le attuali metodiche di screening per la prevenzione del cervico­carcinoma e la speculoscopia, condotto in Italia su circa 3200 donne hanno dimostrato una riduzione dei falsi negativi di circa il 20% con una sensibilità del 94%. Da queste riflessioni si evidenzia che l’abbinamento Pap-test Speculoscopia con Speculite può diventare, nel suo insieme, l’analisi
base dello screening di massa, lasciando colposcopia e biopsia quali analisi di secondo livello. Attualmente il tumore del collo dell’utero rappresenta ancora una patologia con un tasso di incidenza troppo elevato, in particolare se si considera il ruolo crescente che in essa ha il Papilloma-virus. Si calcola che ogni anno in EUROPA muoiano 13.000 donne per una mancata diagnosi precoce di questa malattia.

TUMORE AL SENO
E’ una delle cause più frequenti di morte nelle donne e purtroppo si stima che i valori attuali si raddoppieranno entro il 2000. Estremamente importante è la diagnosi precoce, unica speranza di esito favorevole delle cure; infatti mentre un tumore al seno scoperto
in fase avanzata ha quasi sempre una prognosi infausta per il riformarsi della neoplasia entro brevissimo tempo, il 95% delle donne a cui è stato diagnosticato in fase iniziale non presenta recidive. Ovviamente più è avanzato lo stadio del tumore, meno è probabile il successo della terapia; per rendere un’idea più chiara di quanto sia importante diagnosticare per tempo la neoplasia riportiamo la tabella della probabile sopravvivenza dopo 5 anni dall’ intervento chirurgico a seconda dello stadio del tumore al momento dell’intervento stesso:

 

STADIO

5 ANNI DI SOPRAVVIVENZA

0

95%

I

85%

II

66%

III

41%

IV

10%

 

La prevenzione va quindi attuata con costanza e deve essere iniziata sin dalla giovane età; infatti proprio i tumori che colpiscono le giovani donne sono i più difficili da guarire e quindi bisogna intervenire immediatamente, mentre le neoplasie riscontrate dopo i 50 anni hanno più probabilità di non avere conseguenze letali.
E per fortuna sono molto più numerose le donne colpite da tumore alla mammella in età ancora più avanzata.
Come sempre le abitudini di vita giocano un fattore importante; tra esse le più significative sono:
-assenza di gravidanza
-gravidanza in età avanzata
-sovrappeso
-precedenti in famiglia
Possono essere motivo di allarme e comunque vanno sempre segnalati al medico curante o al ginecologo:
nodulo al seno
nodulo all’ascella
secrezione dal capezzolo
retrotlessione del capezzolo
zone infossate del seno
zone con cute raggrinzita sul seno
E vediamo ora come attuare la prevenzione.

Autopalpazione
L ‘ autopalpazione è un autocontrollo che ogni donna dovrebbe eseguire periodicamente al raggiungimento dell’ età adulta.
E’ importante infatti, dopo aver imparato a conoscere le proprie forme, mantenerle sotto controllo per individuare anche la più piccola anomalia che potrebbe presentarsi improvvisa. Siccome però anche l’aspetto del seno può subire variazioni legate al ciclo, è bene effettuare i controlli sempre nello stesso momento, ad esempio sempre al termine delle mestruazioni.
COME COMPORTARSI:
- Davanti ad uno specchio, con le braccia lungo i fianchi osservare seni e capezzoli di fronte e di lato per verificare che non vi siano variazioni di forma o di aspetto della cute
- ripetere l’esame a braccia levate
- sollevare il braccio sinistro e con la mano destra sottoporre a leggera pressione tutta la superficie del seno sinistro
- ripetere la stessa operazione per la parte destra
- sdraiarsi con un cuscino sotto le spalle e tenere il braccio sinistro sotto la testa; con la mano destra palpare tutta la superficie del seno sinistro, muovendo dalla periferia verso il capezzolo
- ripetere l’operazione per la parte destra
- controllare la zona che si estende tra seno e ascella e la zona all’interno deIl’ ascella sia per la parte destra che sinistra
- premere delicatamente il capezzolo per verificare l’eventuale presenza di secrezioni.

Mammografia
Consiste in una radiografia del seno eseguita con radiazioni poco penetranti.
Aspirazione
Si esegue inserendo un piccolo ago dentro il nodulo per estrarre un campione di liquido da sottoporre ad analisi di laboratorio.
Agobiopsia
Si esegue inserendo un ago nel seno e prelevando una particella di tessuto da sottoporre ad analisi.
Trrapia
Per fortuna i progressi medici e chirurgici hanno consentito recentemente importanti e significa­ivi miglioramenti in termini di sopravvivenza.
L’uso della chemioterapia ad esempio, quale coadiuvante della chirurgia e della radioterapia, ha migliorato la sopravvivenza di quei pazienti che presentano la malattia in fase iniziale, offrendo risultati particolarmente significa­ivi nelle donne tra i 35 e i 50 anni. Secondo molti esperti solo lo sviluppo di strategie per trattamenti terapeutici ancora più efficaci di quelli comunemente usati costituirà la vera vittoria sul tumore al seno. Negli ultimi anni ha dato ottimo risultati la chemioterapia ad alto dosaggio: Si tratta di un trattamento chemioterapico in cui le dosi sono pari a tre volte la dose, utilizzata nei trattamenti normali. La tossicità, in particolare quella a livello del midollo osseo, ha creato alcuni problemi che sembrano superabili grazie a tecniche di protezione del midollo (raccolta e trapianto di cellule periferiche progenitrici del sangue PBPC, trapianto autologo del midollo ecc.)
Comunque i test hanno dimostrato che la somministrazione di chemioterapia ad alto dosaggio garantisce tassi di risposta più alti della terapia condotta con dosi standard anche in donne con metastasi.
A conclusione di questa nostra breve presentazione non resta che concludere comunque che la prevenzione resta comunque sempre la prima arma di difesa per ognuno di noi.

Det
Pubblicazione Dicembre 1995