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tiroide e gravidanza

Funzione tiroidea e gravidanza
Durante la gravidanza si crea una condizione di aumentato carico funzionale per la tiroide che deve far fronte a stimoli diversi che intervengono fisiologicamente dal momento del concepimento. Per prima cosa, la tiroide viene maggiormente stimolata in quanto la quota “libera” di ormoni tiroidei, cioè non legata alle proteine di trasporto e quindi attiva, diminuisce in gravidanza come conseguenza dell’aumento degli estrogeni secreti in grande quantità dalla placenta. Si assiste pertanto ad una attivazione del meccanismo di feedback con conseguente stimolazione della secrezione ipofisaria di TSH ed aumento della sintesi e secrezione di ormoni tiroidei da parte della ghiandola fino al ristabilirsi dell’equilibrio.
Inoltre, nel corso del primo trimestre di gravidanza la tiroidea materna è stimolata dalla gonadotropina corionica (CG) in quanto questo ormone ha una grande affinità strutturale con il TSH. L’effetto più importante della CG sul profilo tiroideo è rappresentato da un lieve incremento dei livelli sierici di tiroxina libera (FT4) nelle prime settimane di gravidanza e dalla conseguente riduzione della concentrazione del TSH, che è pertanto da ritenersi fisiologica.
Un terzo fattore è l’aumento del fabbisogno giornaliero di iodio per compensare l’aumentata escrezione urinaria conseguente all’aumento degli estrogeni, alle modificazioni della funzione renale tipiche dello stato gestazionale ed alla presenza della tiroide fetale.

Ipertiroidismo e gravidanza
L’ipertiroidismo colpisce circa lo 0.2% delle gravide. La causa più comune è il Morbo di Graves-Basedow (85-90%), mentre il gozzo uni- o multinodulare iperfunzionante è meno frequente. La diagnosi di ipertiroidismo in gravidanza non è sempre ovvia dal momento che molti dei sintomi tipici quali tachicardia, ipersudorazione, dispnea da sforzo e nervosismo sono caratteristici anche di una gravidanza normale. Le complicanze nella madre includono aborto, distacco di placenta e parto prematuro e, nelle donne con scarso controllo dell’ipertiroidismo è possibile anche l’insorgenza di scompenso cardiaco e crisi tireotossica con un alto rischio di preeclampsia. Per quanto riguarda il feto è stato osservato ritardo di crescita intrauterina, prematurità e ipertiroidismo neonatale da passaggio transplacentare di anticorpi tireostimolanti. Non c’è dubbio, quindi, che l’ipertiroidismo in gravidanza debba essere trattato al più presto al fine di ridurre la percentuale di complicanze.
Morbo di Graves-Basedow in gravidanza
La diagnosi differenziale di questa patologia tiroidea autoimmune non è difficile e può essere confermata dai test di laboratorio. Nelle pazienti in cui la malattia è attiva la terapia di scelta è la terapia medica dal momento che il radioiodio è controindicato in gravidanza e la chirurgia deve essere impiegata solo nei casi in cui è presente gozzo di notevoli dimensioni con segni e sintomi di compressione oppure se l’ipertiroidismo non è controllato dalla sola terapia medica. Il periodo migliore per l’intervento chirurgico è il secondo trimestre di gravidanza dal momento che nel primo trimestre vi è un più alto rischio di aborto.
La paziente deve essere informata che se la diagnosi è stata posta correttamente ed il trattamento iniziato subito, la prognosi sia per la madre che per il feto è eccellente. Sebbene sia stato suggerito che il Propiltiuracile (PTU) è preferibile in gravidanza rispetto al metimazolo (MMI) per i rari casi descritti di aplasia cutis riportati in letteratura in donne che assumevano quest’ultimo farmaco, l’esperienza clinica dimostra che ambedue i farmaci sono egualmente efficaci e sicuri nel trattamento dell’ipertiroidismo nella gestante. La dose di PTU (o MMI) dovrà essere la minima indispensabile per mantenere la paziente eutiroidea e per evitare la possibile insorgenza di gozzo ed ipotiroidismo fetale. La bassa emivita in circolo dei farmaci tireostatici evita che siano presenti in alte concentrazioni nel latte materno, perciò le donne in trattamento con PTU o MMI possono allattare senza grossi rischi.

Gozzo uni o multinodulare in gravidanza
In questi casi l’ipertiroidismo è generalmente più lieve di quello associato al Morbo di Graves-Basedow e il trattamento è quasi sempre medico rimandando la terapia definitiva a dopo l’espletamento del parto.
Ipotiroidismo e gravidanza
L’ipotiroidismo colpisce circa il 2.5-5% delle donne in gravidanza. La causa più comune di ipotiroidismo in gravidanza è la tiroidite autoimmune nelle sue varianti con gozzo (tiroidite di Hashimoto) o atrofia ghiandolare (tiroidite atrofica). Il ruolo preminente delle tireopatie autoimmuni come causa dell’ipotiroidismo in gravidanza è confermato dal rilievo di anticorpi anti-TPO nel 50-60% delle gravide con ipotiroidismo subclinico e nella quasi totalità di quelle con ipotiroidismo franco.
Come per l’ipertiroidismo, è difficile distinguere clinicamente tra i sintomi della gravidanza e quelli dell’ipotiroidismo, ma se non riconosciuto e trattato, l’ipotiroidismo può avere effetti negativi sul benessere materno e fetale. Le complicanze più frequentemente osservate sono l’ipertensione arteriosa nell’ambito di una preeclampsia, basso peso alla nascita, distacco placentare, morte fetale endouterina, malformazioni congenite. E’ stato inoltre osservato un minor quoziente intellettivo nei figli di madri ipotiroidee non trattate o non sufficientemente trattate in gravidanza. Infatti il passaggio transplacentare di tiroxina dalla madre al feto nelle prime settimane di gestazione, quando la tiroide fetale non ha ancora cominciato a funzionare, è molto importante per un completo sviluppo cerebrale del feto. E’ necessario, quindi, che l’ipofunzione tiroidea della gestante sia diagnosticata e corretta con la terapia sostitutiva nel minor tempo possibile. L’aumento dei livelli di TSH nel siero è l’indice più sensibile e specifico per la diagnosi di ipotiroidismo primitivo in gravidanza. Quindi la misurazione del TSH circolante dovrebbe essere effettuata nel corso della prima visita in ogni paziente gravida con anamnesi personale o familiare positiva per patologia tiroidea, diabete mellito, autoimmunità tiroidea o altre patologie autoimmuni. Naturalmente il trattamento dell’ipotiroidismo si basa sulla terapia sostitutiva con l’ormone tiroideo poichè l’assunzione di L-tiroxina durante la gravidanza è sicura e non ci sono in seguito controindicazioni all’allattamento. La dose sostitutiva di L-tiroxina è maggiore in gravidanza rispetto al periodo pre e post gravidico e, dopo l’inizio del trattamento sostitutivo, i livelli del TSH e degli ormoni tiroidei liberi devono essere controllati 1 volta al mese e la dose di L-tiroxina aggiustata di conseguenza per tutto il periodo della gravidanza. Dopo il parto la dose di L-tiroxina deve essere riportata a quella somministrata prima della gravidanza.

Dipartimento di Malattie Endocrine e Metaboliche
Ospedale San Luca, IRCCS Istituto Auxologico Italiano
Piazzale Brescia, 20-20149 Milano
Email: l.fugazzola@auxologico.it

Dott.ssa Laura Fugazzola
Professore di Endocrinologia, Università di Milano
Dott.ssa Guia Vannucchi
Specialista in Endocrinologia
Dott. Luca Persani
Professore di Endocrinologia, Università di Milano

la biopsia prostatica

La biopsia prostatica rappresenta l’esame diagnostico fondamentale nella diagnosi del tumore della prostata. Questa procedura – introdotta ormai alcuni decenni fa – si basa sull’esecuzione di prelievi di tessuto prostatico sotto guida ecografica (biopsia prostatica “eco-guidata”). La guida ecografica è resa possibile dall’utilizzo di sonde transrettali che indirizzano l’ago per la biopsia all’interno della prostata. L’ago può arrivare alla ghiandola prostatica passando attraverso la mucosa del retto o la cute del perineo.

Dal momento che l’accuratezza dell’ecografia nel riconoscere le aree tumorali prostatiche è limitata, la biopsia prostatica eco-guidata prevede attualmente l’esecuzione di una serie predefinita di prelievi secondo uno schema standard: si tratta pertanto di un campionamento “alla cieca” o “mappatura” casuale (“random biopsy”) e – tranne che per una minoranza di casi – non è possibile eseguire prelievi mirati verso aree tumorali sospette.
Questo tipo di procedura comporta pertanto una serie di problemi:

1. La necessità di eseguire un numero elevato di prelievi comporta un rischio più alto di complicanze e tempi allungati di esecuzione.
2. La bassa capacità dell’ecografia nel riconoscere le zone tumorali determina un rischio notevole di “mancare” il tumore prostatico: circa il 30% dei pazienti sottoposti a prima biopsia prostatica con risultato negativo sono in realtà dei falsi negativi (in cui il tumore verrà diagnosticato con inevitabile ritardo solo dopo una seconda biopsia eseguita con un numero ancora più elevato di prelievi).
3. La necessità di eseguire prelievi alla cieca comporta un rischio non trascurabile di diagnosticare micro-focolai di tumori prostatici a bassissima malignità (tumori “indolenti” o clinicamente insignificanti) che espongono i pazienti ad un successivo rischio di trattamento eccessivo (“over-treatment”).

Oggi fortunatamente disponiamo di una tecnica di imaging molto più potente dell’ecografia nel vedere i tumori prostatici: la risonanza magnetica multiparametrica prostatica (RM-mp). La nuova tecnica di biopsia prostatica mirata sulle immagini della risonanza magnetica rappresenta una rivoluzione della procedura: rispetto alla tecnica di biopsia eco-guidata è risultata più accurata nella diagnosi dei tumori prostatici aggressivi e richiede un numero minore di prelievi.

In cosa consiste la risonanza magnetica multiparametrica della prostata?
Si tratta di una tecnica che sfrutta il principio delle radiofrequenze e va pertanto considerata una procedura – al pari dell’ecografia – non invasiva (non utilizza infatti radiazioni ionizzanti). Viene definita “multi-parametrica” perché prevede l’analisi di molteplici parametri relativi alla prostata: oltre alla valutazione morfologica della ghiandola, si studiano anche gli aspetti funzionali e metabolici dei tessuti prostatici in modo da aumentare la capacità di identificare le lesioni tumorali. Per ulteriori dettagli si rimanda a questo precedente articolo interamente dedicato alla risonanza magnetica multi-parametrica.

La sensibilità della metodica (ovvero la capacità di riconoscere la presenza di un tumore) è risultata estremamente elevata e pari al 90%: 9 tumori prostatici su 10 sono realmente visibili dalla RM-mp. Si tratta quindi di un notevolissimo miglioramento rispetto all’ecografia transrettale dove più della metà dei tumori risultano completamente invisibili.
Inoltre è stato dimostrato che – nell’ambito dei tumori non visibili dalla RM-mp – la maggior parte si tratta di neoplasie a bassa malignità: da un certo punto di vista è un bene non diagnosticare queste lesioni, dato che sono spesso non pericolose per la salute del paziente e fonte di possibile over-treatment (se identificate).
L’ideale sarebbe quindi sottoporre il paziente a biopsia prostatica direttamente durante l’esame di RM-mp e realizzare quindi una biopsia “RM-mirata”. Questa procedura è teoricamente possibile ma – a causa di una serie di aspetti tecnici – risulta estremamente indaginosa, lunga e costosa. In pratica si esegue solo in centri ultra-specializzati e a scopo solo di ricerca.
Per utilizzare le informazioni della RM-mp e trasformare le zone sospette in reali bersagli per la biopsia si può ricorrere alla nuova tecnica di fusione (“fusion”) delle immagini della risonanza con quelle ecografiche. In questo modo la biopsia avviene come in passato con la tecnica eco-guidata ma con immagini “potenziate” in cui sono state integrate le aree bersaglio identificate dalla risonanza.
La nuova tecnica di fusione di immagini eco-RM: il presente e il futuro della biopsia prostatica.
La possibilità di fusione delle immagini è resa possibile dalla messa a punto di apparecchi ecografici di ultima generazione in cui è possibile “caricare” e integrare quanto riscontrato dalla RM-mp. In pratica – per l’esecuzione della biopsia con tecnica fusion – è sufficiente che il paziente abbia eseguito in precedenza la risonanza magnetica ed abbia con sé il supporto informatico contenente le immagini (ovvero il CD o DVD).
Le fasi della biopsia prostatica con fusione di immagini:

1. Si importano le immagini della RM-mp all’interno dell’hardware dell’ecografo. Le immagini della risonanza possono essere quindi viste sul monitor dell’ecografo e si vanno ad identificare le zone sospette segnalate dal medico radiologo.
2. Si introduce la sonda ecografica transrettale. Il monitor dell’ecografo è diviso in due parti: in una finestra sono visibili le immagini ecografiche della prostata ottenute in diretta dalla sonda ecografica; nella seconda finestra sono presenti le immagini della RM-mp precedentemente importate. Attraverso la presenza di un magnete e di particolari sensori di cui è dotata la sonda transrettale, è possibile “navigare” attraverso le immagini della risonanza: in pratica ad ogni movimento della sonda ecografica corrisponde lo stesso “movimento” sul monitor delle immagini ottenute in risonanza.
3. Il punto chiave della tecnica è quello della fusione. Utilizzando alcuni riferimenti anatomici ben visibili in entrambe le immagini (eco e RM) si fa in modo che ci sia una perfetta corrispondenza spaziale tra ciò che si vede nelle due finestre del monitor. A questo punto – azionando un apposito comando – avviene la procedura software di fusione delle immagini ecografiche con quelle ottenute dalla risonanza magnetica. Da questo momento in poi ritroveremo le aree bersaglio (individuate con RM-mp) integrate nelle immagini ecografiche ottenute dalla sonda transrettale.
4. Si procede a questo punto all’esecuzione dell’anestesia locale e successivamente a quella dei prelievi bioptici. Se la fusione spaziale è avvenuta in modo preciso, i prelievi bioptici risulteranno perfettamente centrati all’interno delle zone sospette identificate dalla RM-mp. Questo – come già detto – trasforma la biopsia prostatica da una metodica di campionamento alla cieca in una tecnica bioptica precisa e mirata.

Efficacia diagnostica della nuova tecnica di biopsia fusion:
I risultati ottenuti in termini di accuratezza diagnostica sono così elevati che alcuni nuovi protocolli di biopsia prostatica prevedono di eseguire i prelievi solo nelle aree sospette individuate dalla RM-mp. Questo comporta una netta riduzione del numero di biopsie inutili con ovvi benefici per i pazienti.
Confrontando i risultati della biopsia eco-guidata con quelli della tecnica fusion si osserva un netto calo di casi falsi-negativi (ovvero di biopsie risultate negative in pazienti affetti da cancro prostatico): si passa infatti dal 30% a un valore inferiore al 10%.

Complicanze della biopsia prostatica con tecnica di fusione:
Le complicanze di questa metodica sono le stesse della biopsia prostatica tradizionale, ma la loro incidenza è risultata più bassa. Questo deriva ovviamente dal fatto che il numero di prelievi bioptici risulta inferiore.
Il tipo di complicanze è diverso a seconda del tragitto che viene fatto compiere all’ago bioptico (transrettale o transperineale).
Le complicanze più frequenti sono rappresentate dalla presenza di perdite di sangue nelle urine (“ematuria”), nel liquido seminale (“emospermia”) o dal retto (“proctorragia”). Si tratta quasi sempre di problemi di lieve entità e con risoluzione spontanea nel giro di alcuni giorni.
Nella biopsia transrettale esiste un rischio di infezioni urinarie dovute al passaggio di germi presenti nel retto verso la ghiandola prostatica. In rari casi può verificarsi una prostatite acuta con fastidiosi sintomi urinari fino alla ritenzione urinaria e necessità di posizionare temporaneamente un catetere vescicale. La biopsia prostatica fusion consente di ridurre notevolmente questi rischi.

Diffusione della metodica:
Gli apparecchi ecografici di ultima generazione che consentono la fusione delle immagini hanno un costo elevato (abbondantemente superiore ai 100’000 euro) e la loro diffusione nelle strutture sanitarie (sia pubbliche che private) è ancora limitata.
La nostra unità operativa urologica (la ASL 4 della Liguria situata nel levante della provincia di Genova) dispone da quest’anno di un nuovo ecografo dotato di fusion-technology (GE Loqiq S8) che ci consente di realizzare biopsie prostatiche di fusione in modo regolare e continuato.
Maggiori informazioni sull’apparecchio ecografico in questione possono essere recuperate sul sito web della casa produttrice.

Messaggio conclusivo:
La nuova tecnica di biopsia prostatica con fusione di immagini eco-RM sta rivoluzionando il percorso diagnostico nei pazienti con sospetto tumore della prostata. Sfruttando l’elevata sensibilità della risonanza magnetica multiparametrica nell’individuare le zone sospette per la presenza del tumore, questa nuova procedura bioptica consente di eseguire prelievi estremamente precisi e mirati. Questo comporta un netto miglioramento dell’accuratezza diagnostica e consente di ridurre il numero dei prelievi bioptici con conseguente riduzione del rischio di complicanze.

LE CURE NATURALI PER L’INSONNIA

L’insonnia è un disturbo molto comune che interessa, episodicamente o in modo cronico, un adulto su tre e consiste nella riduzione e nella modifica della durata e della qualità del sonno.
Il disturbo si manifesta in modalità differenti: con difficoltà nell’addormentamento, con risvegli precoci oppure con frequenti interruzioni del sonno.
La scarsa qualità del sonno si riflette nei periodi di veglia con sintomi come aumento dell’affaticabilità, stanchezza, irritabilità e difficoltà ad affrontare le attività quotidiane.
L’insonnia è occasionale, quando si presenta con episodi isolati, spesso associati ad eventi particolarmente stressanti, transitoria, quando non dura più di tre settimane e si risolve spontaneamente o con l’uso di farmaci; cronica se si protrae per un mese o più.
I disturbi del sonno derivano da una serie di fattori, anche se la causa più frequente è quasi sempre un evento stressante; tuttavia molti disturbi organici possono provocare insonnia. Tra questi, quelli più frequenti sono le apnee notturne, i problemi respiratori, i crampi alle gambe e i disturbi gastro-intestinali. Inoltre molte patologie presentano come sintomo principale l’insonnia, come ad esempio le malattie della tiroide, quelle neurologiche e quelle psichiatriche come la demenza, la schizofrenia e la sindrome maniacale.
Lo stile di vita condotto dal soggetto insonne è molto importante: l’uso di sostanze stimolanti e l’abuso di alcol sono responsabili di episodi frequenti d’insonnia così come l’assunzione di alcuni tipi di farmaci. In particolare, le sindromi d’astinenza da farmaci (ipnotici, antidepressivi, tranquillanti) o da droghe (eroina) provocano una grave insonnia che può durare settimane.
Nella simbologia psicosomatica il sonno è considerato “una piccola morte”, necessaria al corpo e alla mente per rigenerarsi. L’incapacità di addormentarsi o, al contrario, svegliarsi precocemente, esprime un’evidente difficoltà ad abbandonarsi, a lasciar andare gli eventi della giornata e a “mollare” il controllo sulla realtà dello stato cosciente. Non a caso una delle principali cause d’insonnia sono i disturbi ansiosi, nei quali la condizione d’abnorme vigilanza caratteristica dell’ansia non permette al soggetto di abbandonarsi al sonno. Anche la depressione può causare il disturbo provocando dei risvegli precoci derivati dall’angoscia mattutina che contraddistingue lo stato depressivo. Le persone che soffrono d’insonnia sono iperattive, ipercontrollate, non abbandonano facilmente alle emozioni, tendono al pensiero ossessivo e spesso presentano difficoltà nella sfera sessuale, dove, anche qui, si verifica una difficoltà a “lasciarsi andare”,
Le terapie naturali sono molto efficaci nel trattamento dell’insonnia poiché non agiscono solo  sulla difficoltà a dormire, ma anche sugli aspetti psichici che causano il disturbo;  inoltre possiedono una buona tollerabilità rispetto ai farmaci di sintesi.

OMEOPATIA

Aconitum napellus 5CH
Insonnia causata da spavento, shock, paura. Lo stato di allerta persistente non permette di abbandonarsi al sonno. Il soggetto è agitato, ha incubi, si sveglia all’improvviso per la paura. Il sintomo peggiora intorno a mezzanotte. Uso: 3 granuli sublinguali 3 o 4 volte al dì.

Arsenicum album 9 CH
L’insonnia si presenta dopo la mezzanotte. Il soggetto è molto preciso, meticoloso, frettoloso e ansioso; si sveglia all’improvviso e non riesce più a riaddormentarsi. Ha una forte irrequietezza mentale, pensieri ossessivi, paura della morte. Il sonno è disturbato da incubi frequenti, soprassalti, scosse, ruminazione mentale. Uso: 3 granuli sublinguali 3 o 4 volte al dì.

Ignatia amara 30CH
Insonnia causata da eventi stressanti, shock emotivi, lutti, traumi affettivi, preoccupazioni. Il soggetto presenta sintomi contraddittori: nel caso dell’insonnia ha una forte sonnolenza ma non riesce ad addormentarsi perché è dominato dalla tensione e dall’angoscia. E’ indicato per le persone emotive, deluse e ansiose con umore instabile, sensazione di palla in gola e blocco allo stomaco, colite, tachicardia emozionale. Uso: 3 granuli sublinguali 3 o 4 volte al dì.

Nux vomica 7-9 CH
Insonnia da iperattività, eccessi alimentari, abuso di alcol e sostanze stimolanti (tè e caffè), abitudine ai sonniferi. E’ il rimedio del soggetto stressato, che ha un costante impegno mentale e non riesce a staccare la mente dal pensiero del lavoro. Quando si addormenta si risveglia poco dopo bruscamente e dorme profondamente solo al mattino, poco prima del risveglio. Spesso l’insonnia si presenta dopo una collera. Uso: 3 granuli sublinguali 3 o 4 volte al dì.

Coffea 9CH
Insonnia per eccitazione mentale dovuta a nervosismo o ad eccesso di gioia. E’ il rimedio tipico di chi va a dormire pensando alla giornata passata o alle cose che farà il giorno seguente. Il soggetto è ipersensibile, nervoso, iperattivo; si sveglia al minimo rumore e con gli odori forti. Il sonno dura fino alle 3 di notte, poi si interrompe e si trasforma in uno stato di dormiveglia. Uso: 3 granuli sublinguali 3 o 4 volte al dì.

Gelsemium 9CH
E’ uno dei più importanti ansiolitici omeopatici. Agisce sull’ansia e sugli attacchi di panico. L’insonnia deriva dalla preoccupazione per gli eventi futuri (esami, prove importanti) e dalle fobie che paralizzano il soggetto tenendolo sveglio, come ad esempio la paura che “il cuore possa smettere di battere” durante il sonno. Altre fobie tipiche sono quelle della folla e degli spazi aperti.
Spesso il soggetto teme di non riuscire a prendere sonno e proprio questo pensiero impedisce il rilassamento creando un circolo vizioso. Uso: 3 granuli sublinguali 3 o 4 volte al dì.

Kalium phosphoricum 5CH
Si utilizza in presenza di surmenage intellettuale (ad esempio negli studenti) con forte affaticamento e stanchezza che non consente di addormentarsi. Il soggetto è esaurito, debilitato, magro, ipersensibile, depresso. La qualità del sonno è scarsa e disturbata da incubi e fenomeni di sonnambulismo. Uso: 3 granuli sublinguali 3 o 4 volte al dì.

Cocculus 9-15CH
Indicato per i soggetti che tendono all’ansia ed alla debolezza del sistema nervoso con stato di esaurimento soprattutto dopo un periodo di ipereccitabilità dei nervi. L’insonnia di questo rimedio è da privazione di sonno, tipica di chi fa lavori notturni ed è stremato da veglie prolungate nel tempo che hanno alterato il ritmo sonno-veglia; la conseguenza è l’incapacità di addormentarsi e la sonnolenza diurna. Uso: 3 granuli sublinguali 3 o 4 volte al dì.

Chamomilla 9-15CH
Rimedio usato principalmente per l’insonnia del bambino che dorme solo se cullato. Il sonno è interrotto a causa dei disturbi della dentizione che si presentano con collera, irritabilità e ipersensibilità al dolore. Il bimbo ha una personalità collerica e suda molto, soprattutto sul viso e sulla testa. Uso: 3 granuli sublinguali 3 o 4 volte al dì.

Stramonium 9-15CH
Insieme a Chamomilla è un altro rimedio utile nell’insonnia del bambino causata da incubi ricorrenti e visione di mostri durante la notte. Il bambino è molto loquace, terrorizzato dall’oscurità, violento. Si calma e si abbandona al sonno con una luce bassa e in compagnia. Uso: 3 granuli sublinguali 3 o 4 volte al dì.

FITOTERAPIA

VALERIANA (Valeriana Officinalis L.) TM

Questa pianta erbacea perenne è molto utilizzata perché agisce sugli stati d’irrequietezza e tensione che non permettono al soggetto di addormentarsi. L’insonnia è spesso causata da un sovraccarico intellettuale, da stati d’ansia e esaurimento nervoso. L’acido valerenico contenuto nella pianta ha un’azione spasmolitica e miorilassante sull’agitazione motoria, sugli spasmi gastrici e quelli da colica. Uso: 30-40 gocce di TM in poca acqua da 2-3 volte al giorno a stomaco vuoto. Controindicazioni: non somministrare nei bambini al di sotto di 3 anni. Interazioni: non somministrare insieme ad altri sedativi di sintesi come le benzodiazepine. Non assumere alcol contemporaneamente. Effetti collaterali: in alcuni casi la Valeriana può procurare un effetto paradosso, con agitazione psicomotoria e cefalea. Raccomandazioni: attenua i riflessi e riduce la soglia di attenzione. Evitare di mettersi alla guida. Assumere in gravidanza, allattamento e in associazione con altri farmaci solo dietro consiglio medico.

ESCOLTZIA (Eschscholtzia californica Chamisson) TM
Migliora la qualità del sonno, riduce le fasi dell’addormentamento, soprattutto quello associato a ruminazione mentale. Il rimedio è molto utilizzato anche nei bambini come coadiuvante in caso di nervosismo, agitazione e insonnia associata ad enuresi. L’Escoltzia ha anche un’azione analgesica ed è quindi utile per l’insonnia legata a sindromi dolorose come emicrania e coliche intestinali.
Uso: 30-40 gocce di TM in poca acqua prima di dormire, a stomaco vuoto. Controindicazioni: non assumere in gravidanza e allattamento, in associazione con farmaci ad azione diretta sul sistema nervoso, antistaminici e nei soggetti allergici. Somministrare con prudenza ai bambini sotto i 12 anni. Assumere solo dietro consiglio medico.

PASSIFLORA (Passiflora Incarnata L.) TM
Rimedio utilizzato per stati d’ansia, d’ipereccitabilità, palpitazioni, nervosismo e stress. La Passiflora ha un’azione sedativa e lievemente ansiolitica, non crea sonnolenza al risveglio e non procura dipendenza o assuefazione. La pianta ha inoltre un’attività antispasmodica, per questo è indicata nelle somatizzazioni a livello dell’apparato gastrointestinale. Uso: 20-30 gocce di TM in poca acqua 2-3 volte al giorno. Controindicazioni: non assumere in gravidanza e allattamento, in associazione con ansiolitici ed antidepressivi, psicofarmaci in generale, sonniferi e alcol. Effetti collaterali: nausea, vomito, vertigini; in caso di sovraddosaggio si può verificare un effetto paradosso. Non somministrare nei soggetti ipersensibili o allergici. Assumere solo dietro consiglio medico.

GRIFFONIA (Griffonia simplicifolia Baill.) TM
I semi di questa pianta sono ricchi di 5-Hidrossitriptofano (5-HTP), aminoacido precursore del neurotrasmettitore serotonina, conosciuto come  “ormone della felicità”, che modula l’umore e i ritmi sonno-veglia. La Griffonia è utilizzata efficacemente nella depressione moderata, anche nella forma stagionale, negli stati d’ansia e nell’insonnia legata alle oscillazioni del tono dell’umore.
Uso: 20-30 gocce diluite in poca acqua 1-3 volte al giorno. Effetti collaterali: l’uso può provocare alcuni disturbi come nausea, bocca secca, cefalea con sensazione di testa vuota, comportamento suicida. Inoltre può scatenare una sindrome, detta eosinofilia-mialgia, che prevede un aumento degli eosinofili, dolori muscolari e febbre. Controindicazioni: non somministrare in gravidanza e allattamento, in associazione con antidepressivi e farmaci antiparkinson Assumere solo dietro consiglio medico.

MELISSA (Melissa officinalis L.) TM
La Melissa ha una specifica azione tranquillante e antispasmodica. Viene largamente impiegata nei disturbi del sonno di origine nervosa e in particolare nelle somatizzazioni a livello dell’apparato gastrointestinale (dispepsia, gastralgie, colon irritabile). Utile anche in presenza di palpitazioni e cefalea. Controindicazioni: non somministrare in presenza di ipotiroidismo, terapia con ormoni tiroidei e nei soggetti affetti da glaucoma. Assumere in gravidanza, allattamento e in associazione con altri farmaci solo dietro consiglio medico.

GEMMOTERAPIA

TIGLIO (Tilia tomentosa Scopoli) MG 1DH
La pianta ha uno spiccato effetto sedativo, antispasmodico e calmante con azione simile agli effetti delle benzodiazepine. Viene utilizzata nei disturbi del sonno con eccitazione nervosa, nelle somatizzazioni gastrointestinali e nell’insonnia del bambino irritabile e iperattivo. Il macerato glicerico di tiglio è utile anche nel trattamento di disturbi cardiaci e circolatori e nell’ipertensione arteriosa di origine nervosa. Uso: 30-40 gocce 2-3 volte al giorno lontano dai pasti. Effetti collaterali: in alcuni casi la Tilia tomentosa può procurare un effetto paradosso. Assumere in gravidanza, allattamento e in associazione con altri farmaci solo dietro consiglio medico.

BIANCOSPINO (Crataegus oxyacantha L.) MG 1DH
I fiori e le foglie del Biancospino hanno un’azione sedativa e blandamente ansiolitica, che riduce gli stati di tensione e migliora il sonno. Questo rimedio è utilizzato principalmente per il suo effetto cardioprotettivo: grazie ai flavonoidi contenuti è indicato nell’ipertensione arteriosa di origine nervosa, nella tachicardia e nelle cardiopatie, anche quelle senili. Uso: 30-40 gocce 3 volte al giorno. Controindicazioni: non somministrare in associazione con derivati digitalici, farmaci beta-bloccanti e in presenza di ipotensione. Effetti collaterali: a dosaggi elevati si possono manifestare disturbi gastrici e diarrea. Raccomandazioni: il rimedio attenua i riflessi e l’attenzione. Evitare di mettersi alla guida. Assumere in gravidanza, allattamento e in associazione con altri farmaci solo dietro consiglio medico.

OLIGOTERAPIA

LITIO (Li)
Oligoelemento utilizzato per trattare la depressione, l’insonnia, l’emotività, gli stati d’ansia, l’abulia, i disturbi psichici e le manifestazioni psicosomatiche. Uso: 1 fiala al giorno.

MANGANESE- COBALTO (Mn – Co)
Composto utile in ogni tipo di insonnia con agitazione, disturbi dell’umore e ansia.
Uso: 1 fiala al giorno. Controindicazioni: non somministrare nella tubercolosi, nelle affezioni polmonari in fase acuta e nei bambini.

FIORI DI BACH

WHITE CHESTNUT
Fiore utile per tranquillizzare la mente attraversata da pensieri fastidiosi e ricorrenti che non danno pace ed impediscono di addormentarsi. In questo caso non si riesce a dormire perché non appena il soggetto si mette a letto (o nel cuore della notte, quando casualmente ci si sveglia), il cervello diventa teatro di dialoghi interiori.

PINE
Rimedio utile nell’insonnia  in persone che si tormentano per qualcosa, atteggiamenti o cose dette, che provocano  sensi di colpa. Il soggetto non riesce a rilassarsi, si rimprovera  senza darsi pace.

VERVAIN
Per chi non riesce a dormire perché è troppo euforico ed entusiasta per un progetto, un lavoro o un’attività e non si rilassa mai.

OAK
Per coloro che non riescono ad avere un sonno profondo e regolare, che si svegliano spesso anche se stanchi ed esausti. Chi ha bisogno di questo fiore ha difficoltà a staccare la spina.

HONEYSUCKLE
Ricordi del passato (positivi o negativi) che continuano a riproporsi con estrema lucidità mentale e che impediscono di addormentarsi.

STAR OF BETHLEHEM
Difficoltà  ad addormentarsi o risveglio precoce causato da tensione derivante da un trauma che non è stato elaborato e superato.

RED CHESTNUT
Il soggetto non riesce ad abbandonarsi al sonno perché è troppo preoccupato per qualcun altro.

CHERRY PLUM
Utile nei casi di tensione nervosa repressa che impedisce di prendere sonno. Uso: 4 gocce sublinguali 4 volte al dì (del fiore singolo o della miscela composta da più fiori associati, acqua e brandy).

Marta Chiappetta e Rocco Carbone

Le rinosinusiti

IL NASO E I SENI PARANASALI – Cenni di anatomia
Le sinusiti, meglio denominate rinosinusti, sono le infiammazioni del naso e dei seni paranasali. Ritengo utile precisare alcuni semplici concetti anatomici del distretto interessato. Il naso è ben noto a tutti, è costituito da due cavità (fosse nasali) separate da una parete ossea e cartilaginea: il setto nasale (figura 1). All’interno delle fosse nasali sono presenti i turbinati, tre per ciascun lato. Sotto ad ognuno c’è un piccolo spazio che prende il nome di meato (inferiore, medio e superiore).
Molto più complessi sono i seni paranasali, si tratta di sei cavità scavate nelle ossa della faccia e disposte attorno alle fosse nasali. In uno sdoppiamento dell’osso frontale ci sono i seni frontali, i quali, con specifici dotti, drenano le loro secrezioni nella porzione antero-superiore delle fosse nasali. Più in profondità rispetto ai seni frontali c’è il seno etmoidale e ancora più in profondità c’è il seno sfenoidale. Molto importante è l’etmoide perché attraverso una sottile lamina (lamina cribra) passano le fibre nervose olfattive. E’ facile comprendere come importanti malattie che colpiscono la porzione superiore del naso o l’etmoide comportano anche alterazioni o riduzioni dell’olfatto.
Ai lati delle fosse nasali, scavati nelle ossa mascellari, ci sono i seni mascellari destro e sinistro. Questi sono due cavità che presentano un orifizio naturale nel meato medio.
Le funzioni del naso sono l’umidificazione, la depurazione, la purificazione e il riscaldamento dell’aria inspirata. Passando per le fosse nasali l’aria è idonea per una buona respirazione polmonare. Inoltre non dobbiamo dimenticare che il naso è l’organo dell’olfatto, un senso spesso sottovalutato.
Più difficile da spiegare è la funzione dei seni paranasali: essendo cavità piene d’aria alleggeriscono la parte anteriore del cranio.

LE RINOSINUSITI
Le infiammazioni dei seni paranasali sono le rinosinusiti. Queste, come tutti i fenomeni infiammatori, si distinguono in acute e croniche. Le rinosinusiti acute sono rare, sono caratterizzate dal dolore e spesso accompagnate da malessere e febbre. Quasi sempre sono causate da germi sensibili agli antibiotici e sono limitate ad uno o due seni paranasali, pertanto il dolore è ben localizzato. Esistono anche forme di pansinusite (coinvolgimento di tutti i seni paranasali) che provocano cefalee molto dolorose. Le infiammazioni acute dei seni paranasali possono svilupparsi unitamente ad una rinite acuta. Oggi con l’utilizzo di molti antibiotici si riesce ad avere una guarigione completa. Non in tutti i casi c’è la guarigione, ma si osserva il passaggio da rinosinusite acuta a quella cronica.
Piuttosto diverse sono le rinosinusiti croniche. Non è facile individuare la causa. Per spiegare la cronicizzazione di queste infiammazioni si pensa al continuo inalare di aria mista a polvere, allo smog e alle brusche variazioni climatiche. Una causa di non trascurabile di rinosinusite cronica sono alcune attività che espongono il lavoratore ad inalare polveri, oppure colpiscono persone costrette a lavorare in ambienti freddi e umidi.

LA DIAGNOSI DI RINOSINUSITE
L’otorinolaringoiatra è lo specialista idoneo a valutare il naso, le fosse nasali e i seni paranasali. Egli è in grado di esplorare le fosse nasali con una visione diretta (rinoscopia anteriore) ed anche con l’utilizzo di fibre ottiche. Gli strumenti a fibre ottiche sono molto diffusi, possono essere rigidi o flessibili. La scelta dello strumento da usare va fatta dopo una rinoscopia tradizionale, perché se la fossa nasale è molto stretta questi strumenti passano con difficoltà, oppure non passano affatto, pertanto si corre il rischio di provocare dolore. Lo specialista non deve fare manovre dolorose e deve astenersi da eseguire indagini endoscopiche in pazienti non collaboranti. Il rischio è quello di non riuscire a fare l’esame e il paziente avrà un pessimo ricordo, che inciderà su eventuali esplorazioni future.
I vantaggi delle fibre ottiche sono l’esplorazione con una visione ingrandita e la possibilità di vedere zone non esplorabili direttamente, questo perché molte ottiche consentono una visione angolata.
E’ importante valutare le condizioni della mucosa, le ipertrofie e le secrezioni patologiche. Nei casi di produzione di materiale secretivo sono visibili gli orifizi da cui fuoriesce e pertanto in alcuni casi si riesce a fare una localizzazione esatta del seno paranasale affetto da sinusite.
Un esame molto importante per lo studio delle fosse nasali e dei seni paranasali è la TAC. Già una TAC senza contrasto consente di vedere molto bene quelle parti che con la visita e con la fibrorinoscopia non sono visibili. La TAC sfrutta come contrasto l’aria, infatti una buona ventilazione dei seni paranasali è indicativa per un buon funzionamento degli stessi. Negli esami tomodensitometrici l’aria è nera e le ossa sono bianche, pertanto questa diversità cromatica si rivela essenziale. Le possibilità diagnostiche di una TAC a sezioni sottili sono molto elevate.

LA DIFFICOLTA’ RESPIRATORIA NASALE
Una buona respirazione nasale consente un’ottima ventilazione dei seni paranasali e una valida respirazione polmonare. Molte persone, soprattutto quelle che non fanno particolari sforzi fisici, pensano di respirare bene anche se hanno il setto deviato oppure i loro turbinati sono di notevoli dimensioni. La respirazione nasale non va valutata nei momenti di riposo, ma si deve considerarla durante gli sforzi fisici e si deve sempre pensare a lunghi periodi di vita. Negli anziani è molto positivo poter respirare adeguatamente dal naso. Una buona pervietà respiratoria nasale consente che l’aria venga filtrata, depurata, riscaldata e umidificata in modo da diventare ottimale per la respirazione. Un naso perfettamente funzionante è la migliora garanzia per una buona respirazione polmonare.
Gli ostacoli alla respirazione nasale più frequenti sono le ipertrofie dei turbinati inferiori (figura 2), spesso associate alle deviazioni del setto. In questi casi la soluzione è quasi sempre chirurgica. Gli interventi correttivi sono interventi di elezione, cioè interventi che si fanno per migliorare una situazione, ma non per fronteggiare una necessità immediata. Negli interventi elettivi non si deve far correre al paziente alcun rischio operatorio, pertanto è bene eseguirli quando il soggetto è giovane o è in età matura. Sono sconsigliati in età avanzata. Ho sempre sostenuto che le persone non devono aspettare di essere anziani per chiedere ai medici una valutazione della loro respirazione nasale. Una visita otorinolaringoiatrica è sempre consigliata prima dei cinquant’anni. Nei casi di difficoltà respiratoria, se lo specialista suggerisce una soluzione chirurgica, è bene operare prima dei 60/65 anni.
Per migliorare la respirazione nasale e di conseguenza anche la ventilazione nei seni paranasali sono possibili terapie sia mediche che chirurgiche.
In commercio ci sono molti prodotti sotto forma di spray che contengono cortisonici e agiscono sulla componente infiammatoria, pertanto sono attivi solo sui turbinati. La loro azione è lenta e non sempre sono efficaci. Altri farmaci sono gli spray con vasocostrittori, questi agiscono riducendo il flusso sanguigno dei turbinati, hanno rapidità d’azione e sono apprezzati dai pazienti. Il vasocostrittore riduce il volume del turbinato e migliora la respirazione. Il rischio di questi prodotti è che la riduzione del turbinato è di breve durata, pertanto dopo alcune ore il paziente ritorna nella situazione iniziale. Col passare del tempo i benefici diminuiscono e in certi casi il soggetto utilizza lo spray di continuo. Il rischio è lo sviluppo di una ipertrofia medicamentosa dei turbinati che col passare dei mesi diventa resistente ai farmaci.
Le soluzioni chirurgiche sono parecchie e vanno valutate caso per caso. Una tecnica di recente introduzione che ha modificato notevolmente la chirurgia dei turbinati è la devascolarizzazione con radiofrequenze. E’ questo un intervento eseguibile in anestesia locale, della durata di circa 20 minuti e non prevede il tamponamento nasale. La tecnica consiste nell’introduzione di un elettrodo (uno strumento simile ad un lungo ago) che collegato ad apposito apparecchio crea una riduzione di volume del turbinato (figura 3). Il chirurgo usa questo strumento più volte fino a quando non ha ottenuto il risultato voluto. Tra i vantaggi della devascolarizzazione ricordo lo scarso sanguinamento e la possibilità di poterla usare a tutte le età: dagli adolescenti fino ai settantenni. Il risultato finale sono i turbinati più piccoli e un miglioramento della respirazione nasale (figura 4).
Se il setto è particolarmente deviato occorre pensare ad un intervento più complesso denominato settoplastica. Ovviamente se oltre alla deviazione del setto ci sono i turbinati ipertrofici si esegue settoplastica e devascolarizzazione turbinati in un’unica seduta chirurgica. In questi casi è necessaria l’anestesia totale e si prevede un ricovero di due o tre giorni.
Per coloro che, oltre alla deviazione del setto, hanno un naso che non apprezzano esteticamente è possibile eseguire con un unico atto operatorio un intervento denominato rinosettoplastica, con questo si correggono i dismorfismi della piramide, si raddrizza il setto nasale e si possono anche ridurre i turbinati.

LA RINOSINUSITE CRONICA POLIPOIDE o POLIPOSI NASALE
La poliposi nasale è una particolare forma di rinosinusite caratterizzata dalla presenza di polipi nelle fosse nasali. In questi casi la difficoltà respiratoria nasale è uno dei sintomi più precoci. Alcuni specialisti ritengono che la poliposi e la rinite allergica siano malattie correlate. Sicuramente sono presenti casi di poliposi nasale associati a manifestazioni allergiche, ma non sempre. La poliposi è una malattia benigna, le degenerazioni dei polipi verso la malignità sono estremamente rare. La rinosinusite cronica polipoide è una malattia che richiede un notevole impegno sul piano terapeutico. Come altre forme di rinosinusite la terapia può essere medica. Oggi sono in commercio numerosi spray nasali a base di corticosteroidi che portano a buoni risultati, anche se raramente sono definitivi.
La terapia più radicale è quella chirurgica. Il vero problema della rinosinustie cronica polipoide è che la base di impianto dei polipi non sono le fosse nasali, ma i seni paranasali. Quindi una estirpazione totale della malattia è difficile, pertanto in questi interventi esiste un alto rischio di recidiva. L’intervento che viene quasi sempre consigliato è un intervento in videoendoscopia che permette l’asportazione dei polipi e le aperture multiple dei seni paranasali. Questo intervento è noto con l’acronimo inglese FESS (Functional Endoscopic Sinus Surgery).
L’intervento di FESS è delicato, necessita di uno strumentario particolare e pertanto è eseguibile solo in cliniche adeguatamente attrezzate.

LE RNOSINUSITI ALLERGICHE
La rinite e la sua evoluzione verso i seni paranasali (rinosinusite allergica) è una malattia molto frequente. Si pensa che oltre il 10% delle persone abbiano malattie respiratorie di carattere allergico. Per allergia s’intende una reazione anomala di alcuni organi quando vengono in contatto con determinate sostanze (allergeni). Gli allergeni che più comunemente causano una rinosinusite sono gli acari della polvere, i pollini, i peli di alcuni animali domestici e alcuni cibi.
Il sintomo più tipico delle patologie respiratorie nasali allergiche è lo starnuto. Altri segni sono una rinorrea acquosa, una concomitante congiuntivite (arrossamento degli occhi), una diminuzione dell’olfatto (iposmia o anosmia), il prurito nasale e la cefalea. Il mal di testa conseguente ad una rinosinusite è spesso frontale o come se provenisse dal centro del cranio o dagli occhi. Nelle sinusiti mascellari il dolore è soprattutto facciale.
Le reazioni allergiche sono dovute sotto l’aspetto biochimico ad un incremento di particolari anticorpi della classe IgE. Questi anticorpi possono essere evidenziati attraverso test di provocazione, ma anche per mezzo di specifiche ricerche sul sangue.
La terapia è solo medica. I farmaci più usati sono i cortisonici e gli antistaminici. Purtroppo le allergie costituiscono un importante problema perché la vera terapia eziologica è eliminare l’esposizione agli allergeni, ma vivere sopra ai 2000 metri di quota o in una stanza dove non ci siano né polveri e né pollini sono soluzioni poco realizzabili in pratica.

NEOPLASIE DEL NASO E DEI SENI PARANASALI

I tumori del naso e dei seni paranasali sono malattie molto rare. Le statistiche riferiscono di un caso ogni centomila persone. Ritengo però che sia utile parlarne perché si è visto che i fumatori sono a rischio, ma sono ancor più a rischio alcune categorie di lavoratori. I sintomi soggettivi sono spesso molto sfumati e aspecifici come il percepire cattivi odori laddove non ci sono e minimi sanguinamenti dal naso.
Trattandosi di categorie ormai ben individualizzate è possibile fare attività preventiva e diagnosticare questi tumori ancor prima della comparsa dei sintomi. Si è osservato negli anni settanta che i lavoratori del legno e del cuoio sono più esposti. Analisi più precise hanno individuato che i lavoratori che utilizzano strumenti che producono segatura fine proveniente da legni duri sono quelli veramente esposti a questo rischio. I boscaioli e i lavoratori del cuoio lo sono in misura inferiore.
Studi clinici hanno osservato che le polveri fini inducono alterazioni nelle mucose nasali (fenomeno definito metaplasia) ed è sulle mucose così danneggiate che si può instaurare un tumore maligno. Come ho detto all’inizio si tratta di un rischio molto raro, ma verso il quale è possibile fare prevenzione.
La prevenzione di primo livello consiste in una visita otorinolaringoiatrica con rinofibroscopia. In questi pazienti si esegue una esplorazione completa del naso. Si osservano anche gli orifizi naturali dei seni paranasali e si guarda se ci sono secrezioni sospette. Un secondo livello prevede esami radiologici per lo studio dei seni paranasali e eventuali prelievi a scopo bioptico.
Le neoplasie maligne del naso, qualora dovessero presentarsi sono malattie importanti, dove la chemioterapia può fare poco e l’eradicazione chirurgica è spesso difficile. I tumori maligni sono molto diversi l’uno dall’altro per le caratteristiche istologiche e per la sede d’insorgenza. Di conseguenza la strategia chirurgica dovrà essere studiata caso per caso.
Negli ultimi anni si stanno diffondendo visite otorinolaringoiatriche preventive per i lavoratori a rischio. Queste visite le ritengo veramente importanti perché consentono di poter fare una diagnosi precoce dei tumori maligni del naso e dei seni paranasali; in questo modo sarà possibile sottoporre i pazienti ad intervento chirurgico quando la neoformazione è ancora di piccole dimensioni.
Le rinosinusiti, intendendo tutte le malattie del naso e dei seni paranasali, sono un argomento specialistico molto interessante perché è in continua evoluzione e perché i sanitari hanno a disposizione diverse soluzioni terapeutiche. In questi casi è importante l’esperienza e la capacità del medico nel saper consigliare il trattamento più adatto al paziente che ha di fronte.

Dott. Carlo Govoni
Specialista in otorinolaringoiatria
Chirurgia rinosinusale presso Clumbus Clinic Center – via Buonarroti, 48 – Milano
e Hesperia Hospital – via Arquà, 80 – Modena.
Tel. 3358040811

http://www.carlogovoni.it

Il priapismo

Il priapismo è un raro disturbo caratterizzato dalla persistenza per più di 4 ore di un’erezione peniena massimale, in assenza di alcuno stimolo sessuale. La sua denominazione deriva dal dio della mitologia greca e romana “Priapo”, noto simbolo di potenza sessuale maschile e fertilità.

Risulta estremamente importante classificare il priapismo in 3 differenti categorie:
(1) Basso flusso o ischemico
(2) Intermittente o “stuttering
(3) Alto flusso o non ischemico

1. Il priapismo a basso flusso raccoglie più del 95% di tutti gli episodi di priapismo. Viene definito come una sindrome compartimentale localizzata a livello dello 2 strutture tubulari erettili del pene, detti corpi cavernosi. Il priapismo a basso flusso è nella maggior parte dei casi di tipo “idiopatico”, ovvero senza alcuna chiara causa sottostante. Tuttavia, può essere associato a malattie ematologiche, all’assunzione di droghe od alcool, a patologie tumorali o neurologiche ed infine all’utilizzo non corretto di farmaci utilizzati nella gestione del deficit erettile (orali o più frequentemente iniettivi). Va tuttavia chiarito che i farmaci utilizzati oggi giorno, sia di tipo orale, topico o iniettivo, godono di un altissimo profilo di sicurezza, soprattutto quando correttamente gestiti da uno specialista uro-andrologo.
Il priapismo a basso flusso viene supportato da un’alterazione patologica dei normali meccanismi microvascolari che inducono la fisiologica detumescenza del pene dopo un evento erettile. Ciò comporta un’erezione persistente, con la mancanza di ricircolo sanguigno, che induce un progressivo danno ischemico ai tessuti cavernosi, per mancanza di un’adeguata ossigenazione. Tale danno risulta reversibile nelle prime ore dall’insorgenza dell’evento patologico, ma risulta del tutto irreversibile a distanza di 48-72 ore. La fisiopatologia del priapismo sottolinea pertanto l’importanza di una diagnosi precoce, al fine di scongiurare danni irreversibili che potrebbero compromettere la potenza sessuale del paziente.
Quali sono pertanto i segni caratteristici di un episodio di priapismo a basso flusso?
Un’erezione persistente, per oltre 5-6 ore, in assenza di alcuno stimolo sessuale, spesso dolorosa.
Come comportarsi nel sospetto di un episodio di priapismo?
Recarsi al pronto soccorso più vicino, per eseguire una visita urologica specialistica e, nel caso di una conferma diagnostica, ricevere le cure più opportune in modo tempestivo.
Come viene risolto un episodio di priapismo?
La gestione, competente allo specialista uro-andrologo, prevede l’aspirazione del sangue bloccato all’interno dei corpi cavernosi, il lavaggio con acqua e bicarbonato o l’iniezione di farmaci vasocostrittori (in particolare la fenilefrina). Nei casi refrattari ad un trattamento conservativo, solitamente con durata > 48-72 ore, la gestione del priapismo diventa chirurgico.
La detumescenza può essere pertanto raggiunta con l’esecuzione di uno “shunt”, ovvero la creazione di un tragitto artificale intra-penieno che faciliti il deflusso del sangue stagnante nei corpi cavernosi verso strutture anatomiche circostanti (nella maggior parte dei casi verso il glande). Lo “shunt” può tuttavia non essere efficace in tutti i casi, soprattutto se il priapismo è durato > di 48-72 ore. Inoltre, esiste un concreto rischio, in seguito a manovra di “shunt”, di sviluppare un grave disfunzione erettile. In questi casi, la soluzione definitiva, risulta l’impianto di una protesi peniena, ovvero l’inserimento all’interno del pene di un device meccanico che garantisca al paziente una rigidità dell’asta sufficiente alla penetrazione. L’impianto protesico deve essere eseguito in tempi brevi, in modo da preservare dei tessuti cavernosi elastici e facilmente manipolabili. Effettivamente, l’impianto protesico differito (oltre 1 mese) in un paziente con pregresso episodio di priapismo, può diventare estremamente complicato, rendendo necessario, in casi estremi, la completa ricostruzione dei corpi cavernosi, completamente obliterati da un processo di estesa fibrosi.

2) Il priapismo intermittente o “stuttering” è caratterizzato da uno schema ricorrente, ovvero da erezioni prolungate, di solito meno di 3 ore, più frequentemente notturne, che diventano progressivamente più dolorose, a seconda della durata dell’episodio. Possono esitare in episodi acuti di priapismo a basso flusso, anche in maniera ricorrente. Possono pertanto causare un progressivo deterioramento della funzione erettile e, ovviamente, forte disagio psico-sessuologico. Il priapismo intermittente si manifesta più frequentemente nei pazienti affetti da un disturbo ematologico detto “anemia falciforme”.
La gestione cronica di questo disturbo avviene attraverso l’impiego di diverse classi di farmaci (ad azione ormonale o ad azione vascolare), con il principale obiettivo di ridurre il numero di episodi, soprattutto di tipo acuto a basso flusso. Nei casi refrattari a qualsiasi terapia, può essere indicato il posizionamento di una protesi peniena.

3) Il priapismo ad alto flusso, al contrario dei precedenti, è secondario ad un traumatismo coinvolgente le arterie dei corpi cavernosi, che inducono la creazione di una “fistola”, ovvero di una comunicazione patologica fra l’arteria e il corpo cavernoso. Questo evento induce pertanto un’erezione prolungata sostenuta da sangue arterioso, pertanto ben ossigenato. Queste caratteristiche rendono tale forma di priapismo, non pericoloso per la salute dei tessuti erettili, esitando pertanto in una gestione di tipo differibile. Il trattamento, nei casi in cui l’episodio non esiti in una remissione spontanea, consiste in un embolizzazione selettiva della fistola eseguita dai radiologi interventisti con approccio mini-invasivo.

In conclusione, il priapismo, sebbene sia una patologia rara, può, se non opportunamente diagnosticato e trattato, compromettere in maniera anche definitiva la funzione erettile dei pazienti. La gestione sia acuta che cronica, va affidata a uro-andrologi, possibilmente in centri di riferimento, in modo da garantire un servizio di qualità basato sulle più recenti evidenze scientifiche.

Paolo Gontero
Direttore Clinica Urologica, Ospedale Molinette, Università degli Studi di Torino

Marco Falcone
Scuola di specializzazione in Urologia, Università degli Studi di Torino

LA PERIARTRITE DI SPALLA

La limitazione dolorosa dei movimenti della spalla veniva in passato indicata generalmente come periatrite. Nella seconda metà del secolo scorso, studi legati alla medicina dello sport, ed in particolare al trattamento delle lesioni procurate dagli sport di lancio e soprattutto al migliore inquadramento diagnostico ottenuto direttamente con la tecnica artroscopica hanno permesso di suddividere la “periartrite” in vari capitoli di patologia della spalla: -la sindrome da conflitto subacromiale, -la lesione della cuffia dei rotatori, -l’instabilità e la lussazione, -la capsulite adesiva, -l’artrosi della spalla, oltre naturalmente alle fratture osteocartilaginee.

La spalla è un complesso articolare molto dinamico: deve permettere all’arto superiore ed alla mano di muoversi nello spazio con la massima libertà e rapidità. E’ formata infatti da più strutture ossee: testa dell’omero, scapola, clavicola, superficie toracica e da un sistema neuromuscolare estremamente organizzato per consentire tutti i tipi di movimento.
E’ quindi la perdita della complessa coordinazione motoria del dinamismo della spalla che innesca meccanismi di lesione a carico delle diverse strutture ed indirizza verso una patologia specifica. I recettori capsulolegametosi e muscolotendinei modulano e controllano il movimento; per questo l’allenamento sportivo ma anche l’esercizio motorio quotidiano rappresentano una risorsa di stabilità e sicurezza ma anche una forma di sovraccarico se le strutture della spalla iniziano a presentare indebolimenti o lesioni e particolarmente dopo affaticamento.

La sindrome da conflitto sottoacromiale è causata dal risalimento della testa omerale contro il tetto osseo dell’acromion-claveare. La riduzione di questo spazio crea usura da conflitto delle strutture capsulari articolari che sono rinforzate dalla cuffia dei muscoli rotatori adibiti al movimento della testa omerale e costituiti da 4 unità muscolotendinee: sovraspinoso, sottospinoso, sottoscapolare e piccolo rotondo. La cuffia tende ad usurarsi ed in particolar modo il tendine del muscolo sovraspinoso associato ad una reazione con ispessimento della borsa di guarnizione ed all’usura del tendine del capo lungo del muscolo bicipite. Oltre al sovraccarico ripetuto anche episodi acuti traumatici dovuti a caduta con braccio allargato a protezione del corpo od a braccio esteso possono lesionare la cuffia dei rotatori ed i legamenti che proteggono la stabilità della spalla.
Il movimento della spalla si riduce sia direttamente per la lesione della cuffia che per il dolore causato dalla borsite. Il dolore può presentarsi acutamente, talora durante la notte nella regione anteriore o laterale della testa dell’omero e talora associato ad aumento della temperatura locale. Il movimento di alzare il braccio e ruotare la spalla si riduce notevolmente fino anche a bloccarsi.
Un accurato esame clinico associato ad esami strumentali (Rx, ecografia, risonanza magnetica) permettono di chiarire il tipo ed il grado di lesione e valutare il trattamento che in reazione alla gravità sarà di tipo riabilitativo o chirurgico artroscopico.
La tecnica artroscopica, cioè con l’ausilio di fibre ottiche mediante piccoli accessi chirurgici, ha il vantaggio, rispetto alla chirurgia aperta convenzionale, di offrire una visione più ampia e dinamica e di essere meno invasiva senza danneggiare strutture muscolari e capsulari importanti.
La rieducazione e la terapia fisica locale sono fondamentali per il recupero delle lesioni iniziali e meno gravi e richiedono costanza e precisione di esecuzione sotto il controllo e guida del fisioterapista.

L’instabilità e la lussazione di spalla possono essere di tipo traumatico o di tipo idiopatico, cioè senza una causa accidentale importante ma legata alla costituzione eccessivamente elastica del soggetto nelle strutture articolari.
Nel caso delle lussazioni traumatiche è molto importante il trattamento che viene eseguito dopo il primo episodio di lussazione, in quanto un insufficiente inquadramento e cura della lesione può portare al verificarsi di nuovi episodi di sublussazione o lussazione che diventa così abituale con aggravamento della instabilità e dei sintomi dolorosi.
Gli accertamenti con immagini di Risonanza magnetica servono a far diagnosi precisa sulla lesione del cercine glenoideo, dei legamenti e della capsula che insieme stabilizzano la testa dell’omero e così programmare la riparazione in artroscopia con suture e reiserzioni dirette o mediante l’uso piccole viti o ancorette di fissaggio.
Le persone con lassità costituzionale della spalla devono, in caso di traumi o comparsa di disturbi dolorosi da sovraccarico, dedicarsi soprattutto alla fisioterapia e rieducazione della articolazione senza alterare chirurgicamente la struttura particolarmente elastica della propria spalla.

La capsulite adesiva o spalla congelata determina la perdita della mobilità attiva e passiva della spalla associata al progressivo aumento del dolore nel tentativo di movimento e poi anche a riposo. E’ dovuto al progressivo crearsi, su base infiammatoria, di aderenze nella capsula articolare con la testa omerale riducendone lo spazio di scorrimento soprattutto nel recesso posteroinferiore.
Molto spesso non vengono riferiti traumi precedenti all’insorgenza dei sintomi di dolore e rigidità. Talvolta sono predisposti coloro che sono in trattamento per malattie endocrine o dismetaboliche. Anche traumi modesti associati ad un quadro di osteoporosi possono creare una marcata reazione edematosa della testa omerale e reattiva della capsula e della sinovia della articolazione.
La valutazione clinica è naturalmente molto importante per fare precocemente diagnosi e indirizzare al trattamento medico del dolore localizzato con infiltrazioni ecoguidate e farmaci per via generale ed alla tempistica della riabilitazione che non va mai eseguita in fase acuta. In questi casi non è indicato il trattamento chirurgico artroscopico se non per il trattamento degli esiti della malattia e della rigidità.

L’artrosi della spalla si presenta con una progressiva perdita della mobilità articolare associata ad episodi dolorosi. In genere fa seguito ad episodi traumatici importanti di frattura e di lussazione articolare che alterano il profilo della testa dell’omero e ne determinano la sua risalita contro il tetto osseo acromion-claveare. In tal caso è importante valutare la eventuale lesione associata della cuffia dei rotatori e la buona funzione dei tessuti muscolari residui, mediante la Risonanza magnetica, dopo aver eseguito le tradizionali radiografie.
Molta attenzione deve essere dedicata alla rieducazione sopratutto nelle persone più attive per verificare il grado massimo di risultato ottenibile. Va associata a terapia medica generale per la cura di una concomitante osteopenia od osteoporosi e di flogosi adesive.
In casi selezionati può essere indicata la terapia locale infiltrativa intrarticolare con acido ialuronico ed in casi particolari con il concentrato piastrinico (PRP) .
Nei casi di rigidità dolorosa più marcati si deve valutare la necessità del trattamento chirurgico che consiste nella sostituzione protesica della articolazione della testa omerale e della glena scapolare con protesi diretta od inversa .

L’acido ialuronico è il principale costituente della cartilagine e del liquido sinoviale che la nutre e la lubrifica. Se somministrato per infiltrazione articolare migliora lo scorrimento articolare e la protezione del tessuto cartilagineo.
I prodotti con peso molecolare medio-alto sono quelli che sembrano dare migliori risultati, reintegrando la riduzione di formazione naturale di glicosaminoglicano, come avviene in caso di artrosi.
Il concentrato piastrinico PRP (Platelet Rich Plasma) viene prodotto dal sangue e contiene le proteine dei fattori di crescita di vari tessuti fra cui il tendine, il muscolo e la cartilagine ed anche le citochine che attivano i processi riparativi.
Dal prelievo di circa 40 cc di sangue venoso si ottiene, con sola centrifugazione e concentrazione e nessuna manipolazione del sangue, un concentrato da cui si può isolare la parte dedicata alla crescita del tessuto cartilagineo, che può essere immediatamente infiltrato nelle zone di cartilagine danneggiata, o conservarlo in provetta a -30°.
La zona di lesione tendinea o muscolare o cartilaginea deve essere circoscritta e non su due versanti articolari contemporaneamente per poter offrire le maggiori possibilità di riparazione del tessuto articolare o periarticolare della spalla.

In conclusione, le varie patologie della spalla sono tutte legate dai sintomi del dolore e della limitazione del movimento. Risulta sempre più importante il concetto di sovraccarico articolare: stabilire il limite tra carico di attività e di allenamento e sollecitazione dannosa non è facile finchè non compaiono il dolore e la ridotta mobilità.
Dall’analisi accurata di questi sintomi e nel rispetto della biomeccanica articolare e dei meccanismi biologici di riparazione dei tessuti si deve creare una sinergia tra paziente, medico e fisioterapista per arrivare prima di tutto alla diagnosi precoce e quindi al migliore e piu efficace trattamento possibile.

Passo dopo passo, verso la bellezza

Lo specchio ci ricorda ogni mattina gli anni che passano… La paura di invecchiare fa capolino già verso i trent’anni con la comparsa delle prime rughe. Fumo, consumo eccessivo di alcool, ma anche un’alimentazione sregolata, il ricorso a diete drastiche, condizioni prolungate di stress, nonché l’esposizione non protetta ai raggi del sole, sono tutti fattori che compromettono l’equilibrio della pelle, favorendone un precoce invecchiamento.

“Le prime rughe che si manifestano – afferma la Dottoressa Caminiti – sono quelle ai lati degli occhi, meglio conosciute come “zampe di gallina” e quelle che a poco a poco si formano per le contrazioni dei muscoli del viso, famose come “rughe d’espressione”, che scendono ai lati del naso ed attraversano la fronte e anche le rughe che si formano sulla fronte ed intorno alle labbra (tipiche di chi fuma). Questi solchi sottili sono il primo segno evidente dell’invecchiamento cutaneo e tendono ad accentuarsi col tempo”.

Questi inestetismi spariscono o si attenuano grazie a trattamenti efficaci e mirati come il filler e il botulino.

“I filler – sottolinea la Dottoressa Caminiti – a base di sostanze biocompatibili – ben tollerate e riassorbite completamente dall’organismo – tra i quali spiccano l’acido ialuronico – consentono di “riempire” le rughe provocate dallo svuotamento e perdita di tono degli strati profondi del derma (rughe tra naso e labbra) e periorali (contorno della bocca). Il botulino invece viene utilizzato per limitare la contrazione dei muscoli facciali ed appianare quindi le tipiche “zampe di gallina”, le rughe glabellari (che compaiono alla radice del naso) e quelle frontali”.

I risultati delle due metodiche? Ottimi, ma non definitivi. Filler e botulino sono trattamenti reversibili che hanno un’efficacia di circa sei mesi, successivamente il paziente può sottoporsi ad una nuova seduta. Dopo il trattamento, il viso acquisisce un aspetto rilassato e giovanile.
Dottoressa Caminiti, a proposito di botulino, può parlarci del “micro botulino”. E’ vero che a differenza del botulino – che agisce a livello dei muscoli – quello in concentrazioni minime ha effetti “liftanti” sulla pelle del viso? Come si svolge la seduta?
Il “micro-botulino” (che ha la stessa composizione della tossina botulinica, ma con una concentrazione minore di farmaco) consente una funzione ed un risultato diverso. La “tossina della giovinezza” – utilizzata a dosaggi omeopatici a livello cutaneo e non muscolare – agisce in modo mirato nelle zone interessate, migliorando la qualità ed il tono della pelle con un effetto naturale. Dopo aver disinfettato la zona da trattare, si procede all’infiltrazione sottocute (intradermica) di piccole quantità di sostanza attraverso aghi finissimi con la tecnica chiamata a “microponfi”, cioè tante piccole punturine effettuate a “trama” e a distanza di un centimetro l’una dall’altra.

Dove agiscono le iniezioni di “micro-botulino”? Sono sicure?
Come accennato, a differenza del botulino, il “micro-botulino” non agisce sui muscoli facciali limitandone la contrazione, ma sulla cute. Grazie ai bassi dosaggi queste iniezioni consentono di spianare i cedimenti della linea mandibolare, delle guance e delle rughe verticali ed orizzontali del collo che si riempiono subito: la pelle appare più turgida, più levigata, omogenea, le porosità ridotte. Rispetto al botulino, rimangono invariate la sicurezza, l’efficacia ed i risultati, ma aumenta l’impiego possibile.

La seduta è dolorosa? Qual è la particolarità di questo trattamento? Rimangono dei “segni”?
La seduta non è dolorosa: si può avvertire un lieve fastidio attenuato dalla crema anestetica se la paziente è sensibile.

Quando si vedono i risultati?
Dopo un paio di giorni la pelle del viso inizia a migliorare per raggiungere il risultato ottimale dopo circa due settimane, protraendo gli effetti per circa quattro mesi prima di riassorbirsi, lasso di tempo a partire dal quale è possibile ripetere la metodica.

Per concludere, c’è un periodo consigliato nel quale sottoporsi ai trattamenti con filler, botulino e “micro-botulino”?

Non esiste una data “entro e non oltre la quale” intervenire con queste metodiche. I filler riassorbibili a base di acido ialuronico, le iniezioni di tossina botulinica ed il “micro-botulino” si possono fare sempre e non sono controindicate nemmeno in estate, a patto che vengano prese le dovute precauzioni limitando l’esposizione al sole nei giorni successivi al trattamento per diminuire la vasodilatazione. Attenzione allo sport: dopo un trattamento al botulino bisogna astenersi da attività fisica per le successive quattro-sei ore ed evitare totalmente sport intensi per almeno due giorni. Questo vale in tutte le stagioni dell’anno.

L’AITEB (Associazione Italiana Terapia Estetica Botulino) www.aiteb.it è costituita da medici chirurghi esperti in trattamenti di ringiovanimento del viso il cui obiettivo è quello di sviluppare le conoscenze sul botulino e le sue applicazioni in Medicina Estetica. Per quanto riguarda la sostanza iniettata, è importante che sia registrata all’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco).

Info: Dottoressa Paola Caminiti – Medico Estetico a Milano e Saronno (VA) – e- mail: info@caminitimedicalspa.it

Stefania Bortolotti

Sangue occulto nelle feci: prevenire il carcinoma del colon

Il programma di prevenzione del carcinoma del colon retto prevede l’esame a campione di sangue occulto fecale. Esso consiste nel ricercare, su di un campione di feci, tracce di sangue, non visibili ad occhio nudo.

Un dato aggiuntivo, che può indicare la presenza di un tumore o di uno stato infiammatorio delle mucose intestinali, come avviene ad esempio nella colite ulcerativa e nel morbo di Crohn è la ricerca della calprotectina fecale, che non rientra nel programma di screening abituale.

Uno studio multicentrico italiano, pubblicato sulla rivista medica European Journal of Gastroenterology and Hepatology, ha recentemente evidenziato come la sola ricerca del sangue occulto fecale non sia sufficiente per effettuare una corretta diagnosi, in quanto questo esame dà numerosi casi di falsi positivi, ovvero soggetti che, nel successivo esame di colonscopia, non presentano lesioni precancerose o neoplasie. Prima di procedere alla colonscopia, gli studiosi del multicentrico italiano, hanno valutato l’utilità di altri marcatori fecali, tra cui la piruvato-chinasi di tipo 2 (calprotectina).

La sua determinazione nelle feci può essere utilizzata come marcatore tumorale, perché è una proteina prodotta anche nelle cellule tumorali coliche, oltre che nelle cellule infiammatorie nel lume intestinale.

La ricerca del sangue occulto nelle feci serve, come lo stesso termine indica, a diagnosticare un sanguinamento occulto, cioè un sanguinamento che c’è, ma non si vede. L’esame macroscopico delle feci, cioè ad occhio nudo, non mostra tracce di sangue, ma l’esame microscopico, con il test al guaiaco o con quello immunologico, ne evidenzia la presenza.

Il sanguinamento oscuro è quel sanguinamento, che può essere palese od occulto, del quale non si conosce l’origine.

Il sanguinamento occulto, a sua volta, può essere determinato da una causa nota o da una ignota.

Il sangue nelle feci, visibile ad occhio nudo, è quello evidente macroscopicamente, e può presentarsi di colore rosso chiaro oppure rosso scuro fino al nero piceo. Il colore dipende dalla sede del sanguinamento all’interno del tubo digerente, poiché, quando viene digerito, il colore rosso del sangue vira al rosso scuro e poi al nero.

La valutazione clinica, sempre imprescindibile, indica al Medico l’eventuale necessità di successive indagini di laboratorio o strumentali, che partiranno da quelli di base, fino ad arrivare a quelli più specialistici.

La ricerca del sangue occulto fecale è prevalentemente un test di screening per il tumore del colon-retto, consigliabile a partire dai 45/50 anni di età, ma può essere utilizzato come metodica di indagine per altre patologie, come ad esempio le anemie da perdita ematica di causa ed origine oscura.

Questo test non ha valore per una diagnosi certa, sia in campo oncologico che clinico. Esso dà luogo a molti falsi negativi e falsi positivi. Nel primo caso, il più “grave”, si rischia di non fare diagnosi di un tumore o polipo esistente. Nel secondo caso, il Paziente sarà sottoposto a successivi controlli, che, fortunatamente, si riveleranno nella norma. È il caso frequente di sanguinamento occulto da lesioni emorroidali o gengivali.

Lo stesso può avvenire nella clinica, tanto che, per essere certi che il Paziente non abbia perdite ematiche da lesioni importanti, si ricorre agli esami endoscopici o radiologici opportuni.

Se il sanguinamento è occulto, ciò significa che la perdita è minima, spesso saltuaria e talvolta di origine difficile da scoprire. I sintomi sono sfumati o assenti ed ogni tratto del tubo digerente può essere quello interessato dal gemizio ematico. Le patologie che lo causano possono essere benigne, come erosioni dell’esofago o dello stomaco, ulcere, angiodisplasie, ulcera solitaria del retto, coliti infiammatorie o infettive, morbo di Crohn, o maligne, come i tumori.

Nello screening del carcinoma del colon retto la ricerca del sangue occulto fecale viene utilizzata in soggetti di età superiore ai 50 anni, anche se l’età deve essere inferiore in caso di familiarità. Nel caso di positività del test, sarà consigliabile eseguire la colonscopia. L’utilità di quest’ultima non è solo diagnostica, ma anche terapeutica, considerando che la polipectomia endoscopica è un intervento terapeutico definitivo a tutti gli effetti.

E’ noto infatti che il tumore del colon nasce da quelle piccole escrescenze mucose, note sotto il nome di polipi. Il processo evolutivo da polipo a cancro è lento e l’intervento di resezione del polipo previene di fatto la malattia oncologica.

Anche la diagnosi precoce del cancro del colon è molto importante, perché permette la guarigione completa dopo l’operazione, mentre la sopravvivenza scende al 9% quando la malattia è nella fase di metastatizzazione.

I tumori del colon in fase iniziale ed i polipi di piccole dimensioni non dànno sintomi ed è questo il motivo per il quale si accrescono indisturbati e vengono diagnosticati quando è tardi. L’unico modo per scoprirli in tempo è andare a cercarli, eseguendo la così detta prevenzione secondaria. Ciò avviene con la colonscopia. Siccome essi possono sanguinare, anche se poco ed a fasi alterne, esiste la possibilità che la ricerca del sangue occulto fecale sia positiva.

Una positività del sangue occulto fecale può anche essere dovuta ad altre cause o ad errori (sanguinamento gengivale, emorroidi, terapia marziale): questo si chiama falso positivo.

Nel caso opposto, il test è negativo, ma il tumore o i polipi sono presenti. Essi non hanno sanguinato nell’immediatezza dell’esame e ciò determina il falso negativo.

Molte altre patologie e condizioni possono rendere positiva l’indagine di sangue occulto nelle feci: dall’ulcera duodenale alle malattie infiammatorie dell’intestino, dalle varici esofagee alla diverticolite, dalle emorroidi alle fistole anali, o semplicemente la contaminazione del campione con sangue mestruale o una dieta non adeguata nei giorni precedenti.

In caso di sanguinamento intermittente ed occulto, come avviene nelle anemie sideropeniche, il quadro clinico è quello di astenia, dispnea e anemia ipocromica microcitica. Questo orienta verso una perdita ematica che deve essere indagata con gastroscopia e colonscopia. La ricerca del sangue occulto rimane importante poiché, in caso di negatività della gastroscopia e della colonscopia, s’imporrà lo studio del piccolo intestino, nel caso specifico con indicazione all’utilizzo della videocapsula.

Secondo un importante studio epidemiologico la ricerca di sangue occulto nelle feci ha mostrato una riduzione della mortalità pari al 33%, quando il test viene effettuato ogni anno, e del 21% quando il test viene effettuato ogni due anni.

Per la prevenzione, è opportuno rivolgersi al proprio Medico, in presenza di modificazioni delle abitudini intestinali, di sensazione di ingombro rettale persistente dopo l’evacuazione, di dolori colici di recente insorgenza.

Preparazione all’esame di ricerca del sangue occulto nelle feci.

La preparazione all’esame è differente a seconda della tecnica diagnostica utilizzata: Hemoccult o prova immunochimica.

Per garantire un corretto risultato, comunque, è importante che il paziente rispetti le indicazioni del centro di analisi, che in genere sono le seguenti:
usare l’apposito recipiente sterile munito di cucchiaino interno;
mettere le feci in un recipiente tipo vaso da notte, evitando di mescolarle con le urine, con l’acqua del wc o con i suoi detergenti;
raccogliere il campione con l’apposita spatolina in tre punti diversi delle feci, sino a riempire metà circa del recipiente, in modo da ottenere un campione il più omogeneo possibile;
scrivere il nome sull’etichetta del sistema per la raccolta delle feci;
portare il contenitore in laboratorio entro alcune ore, oppure, in caso di raccolta di più campioni, conservarlo in frigorifero;
non eseguire il test di ricerca del sangue occulto nelle feci durante le mestruazioni, in presenza di emorroidi sanguinanti o quando si perde sangue con le urine;
nel caso del test immunologico, la dieta sarà meno importante.

Sono in commercio anche kit di autolettura per il sangue occulto fecale con il metodo immunochimico. Il test è rapido e facile da eseguire. Si prende un campione di feci e lo si mette nella provetta, a contatto con il reagente. Il risultato si ha in pochi minuti. I limiti di questo test sono i falsi positivi e i falsi negativi, dovuti alla presenza di emorroidi, ragadi, gengiviti o altre cause di gemizio ematico o al fatto che il sangue può trovarsi in modo non omogeneo nelle feci esaminate. O semplicemente perché il cancro o il polipo presenti non hanno sanguinato il giorno del prelievo di feci. Ecco perchè è consigliabile ripetere il test 2 o 3 volte, a giorni alterni, e comunque più volte durante l’anno.

Prurito senile

Il prurito è definibile come una fastidiosissima sensazione soggettiva che induce al trattamento o alla confricazione. In quanto sensazione soggettiva, non vi è apparecchiatura biomedicale in grado di valutarne intensità, durata, tipo, in maniera oggettiva. Vissuto secondo la sensibilità individuale, può alterare in maniera anche drammatica la qualità della vita del soggetto colpito (ma, di riflesso, anche quella di tutto l’ambito familiare).
L’insorgenza del prurito è un evento molto frequente in entrambi i sessi ed in ogni fase della vita, dall’epoca neonatale all’età più avanzata (prurito senile), ma la sua frequenza e distribuzione per fasce di sesso e/o età non è statisticamente valutabile poiché troppo spesso sottovalutato dal paziente e quindi trascurato, automedicato, trattato dal farmacista, dal medico di base, da qualsiasi altro specialista, sfuggendo così all’osservazione dermatologica e ad ogni tipo di indagine statistica.
Diverse sono le varietà cliniche del prurito: prurito sine materia, prurito senile, prurito acquagenico, prurito psicogeno, prurito patofobico, prurito venereofobico, malattia di Ekbom. In tutti questi casi la sensazione soggettiva può essere di tipo puntorio o urente; l’andamento può essere acuto, accessionale, continuo, cronico, cronico ricorrente; la localizzazione può aversi su tutta la superficie corporea o limitarsi ad un singolo distretto cutaneo (volto, capillizio, genitali, ecc.); le fasi di acuzie o di riacutizzazione possono essere indotte da assunzione di cibi o bevande calde e/o piccanti, alte temperature, stress emozionali, assunzione di farmaci (eritromicina, aspirina, fenotiazine, steroidi anabolizzanti, ecc.), alimenti quali cioccolata, pere, mele, albume d’uovo, latte, ecc. (per reazione allergica o pseudoallergica), abbigliamento incongruo (lana, fibre sintetiche, ecc.).
In tutte le sue varianti cliniche, e quindi anche nella forma senile, il prurito può essere il primo sintomo di patologie cutanee e/o sistemiche (alcune delle quali particolarmente frequenti in età senile) non ancora manifestatesi in maniera eclatante quali: diabete mellito, amiloidosi, anemia sideropenica, dermatite atopica, scabbia, pediculosi, linfoma di Hodgkin, ipo o ipertiroidismo, policitemia vera, sensibilizzazioni allergiche, neoplasie di vario tipo, parassitosi intestinale, ecc., o anche patologie di tipo psicologico o psichiatrico o, molto più semplicemente, dovuto al tipo di cute (cute seborroica, ad esempio) o allo stato di gravidanza. Il riconoscimento di queste situazioni è determinante nella scelta della strategia terapeutica.
Da quanto detto appare quindi del tutto ingiustificato, in particolare nel soggetto anziano, l’approccio terapeutico spesso effettuato in maniera semplicistica prescrivendo antistaminici e/o cortisonici per via generale e/o locale tout court, in assenza di una accurata indagine anamnestica e di indagini bioumorali e strumentali atte ad individuare l’eventuale patologia sottostante.
Per quanto riguarda il “Prurito Senile” va chiarito che tale diagnosi può essere applicata solo al soggetto in età avanzata che si gratti in assenza di patologie cutanee e/o sistemiche (un soggetto anziano diabetico non ha dunque un prurito senile ma un prurito diabetico, se soffre di carcinoma gastrico avrà un prurito paraneoplastico non un prurito senile!) e non presenti squilibri elettrolitici, carenze nutrizionali, anoressia senile. Quest’ultima troppo spesso misdiagnosticata e/o sottovalutata.
Il vero “ prurito senile” è provocato dallo stato della cute che in questa epoca della vita si presenta grinzosa, diselastica, ruvida, finemente desquamante, secca, sottile, pallida, disidratata (povera d’acqua) e alipica (povera di sebo per riduzione quali-quantitativa dell’attività delle ghiandole sebacee; negli uomini ciò avviene in maniera graduale dopo i 70 anni, nelle donne in maniera brusca dopo i 50). A volte, per controllare il prurito senile anche feroce, basta la semplice applicazione di un olio (olio di vaselina, olio di mandorle dolci o anche quello da cucina), fornendo quindi alla cute un po’ di quei lipidi che fisiologicamente le mancano. Ma per migliorare (e nei limiti del possibile ripristinare) lo stato di eutrofismo cutaneo, e quindi controllare il prurito, è necessario procedere in maniera più razionale e meno estemporanea. La prima tappa, e spesso l’unica e fondamentale, per ottenere il risultato voluto è intervenire sulle modalità di detersione cutanea, a cui fare seguire l’applicazione di prodotti reidratanti, nutrienti, elasticizzanti e l’assunzione di integratori alimentari che mantengano ed amplifichino i risultati ottenuti già con la semplice detersione.
La detersione, in particolare nel soggetto anziano, non deve essere intesa come semplice e banale rimozione dello sporco dalla superficie corporea, ma come vero e proprio intervento terapeutico. Nell’affrontare il problema della detersione cutanea bisogna partire dalla considerazione che già l’acqua di per sé, e quella calda in particolare, asporta in circa l’80% dei lipidi di superficie della cute mentre i detergenti asportano soprattutto i lipidi intercorneocitari con danneggiamento delle membrane cellulari ed aumento della perspiratio insensibilis (l’evaporazione acquea transcutanea). Il risultato di una detersione mal fatta, soprattutto nel soggetto anziano, non può dunque essere altro che l’accentuazione della secchezza cutanea e, conseguentemente, l’aumento del prurito. Da quanto detto si evince che sarà preferibile praticare una rapida doccia con acqua non troppo calda piuttosto che un prolungato bagno in vasca, utilizzando per la detersione prodotti non troppo aggressivi e preferendo le forme liquide (personalmente le preferisco alle forme in saponetta), gli olii o le creme detergenti, poiché meno irritanti. In esse, inoltre, è più facile incorporare idratanti, umettanti, ecc. per limitare la secchezza ed il senso di stiramento della cute, conseguente alla detersione. Tutto ciò è più facile da ottenersi con i syndet (essenzialmente miscela bilanciata di tensioattivi e additivi; in acqua mantengono il pH iniziale) rispetto al sapone naturale (sale sodico o potassico di acidi grassi insaturi; una volta disciolti in acqua si osserva il viraggio del pH verso l’alcalinità, e ciò anche nel caso del così detto sapone neutro). Il problema del mantenimento pH su valori moderatamente acidi è importante giacché l’alcalinizzazione provocata dai normali saponi può indurre nuovi danni alla cute, tra cui favorire l’attecchimento di flora microbica patogena. Per inciso, vale qui ricordare che nei moderni prodotti per l’igiene potere detergente e potere schiumogeno non sono strettamente correlati, dipendendo la schiumosità dal tipo di tensioattivi utilizzati: il prodotto che produce più schiuma non è detto che abbia maggiore potere detergente.
Dopo la detersione, e nei giorni eventualmente intervallari tra una doccia/bagno e l’altro, bisogna ridare alla cute i lipidi persi con essa e che, soprattutto la cute senile, non ha già di per sé, applicando creme/latti/mousse idratanti contenenti prodotti quali collagene, acido ialuronico, urea, glutammato di sodio, ecc. o cold cream, olii, mentolo, ecc., stando però attenti a non provocare allergie da contatto. Da notare che il mentolo, che notoriamente provoca una sensazione di freschezza sulla pelle, può provocare crisi anche violente di orticaria nei soggetti che soffrano di orticaria a frigore (orticaria da freddo). Buona norma è evitare i prodotti alcoolici quali profumi o dopobarba, che accentuano la disidratazione cutanea, e l’applicazione locale di prodotti contenenti antistaminici o anestetici per il rischio di allergie o, in estate, di fotoallergie. Trattamenti alternativi possono essere rappresentati da prodotti a base di capsaicina, antagonisti degli oppioidi, alfaidrossiacidi.
Un qualche ausilio allo stato nutrizionale della cute dell’anziano, e quindi al controllo del prurito, può derivare dall’assunzione di integratori alimentari ricchi di vitamine ed anti radicali liberi (ma senza eccedere e consigliandosi con il proprio dermatologo).
Circa i cortisonici per applicazione locale va detto che, pur essendo possibile un loro prudente utilizzo, essi sono molto spesso inutili giacché i trattamenti già citati possono ottenere i risultati desiderati senza il rischio di effetti collaterali da steroidi quali assottigliamento della cute, smagliature cutanee, ecc.
La somministrazione di antistaminici, cortisonici, ecc. e/o la terapia locale potranno solo cooperare a tenere sotto controllo il sintomo prurito ma non risolvere alla base il problema.
Un aspetto, in fine, da non ignorare o sottovalutare nell’affrontare il problema del prurito senile è la sua possibile origine psicosomatica, spia cioè di un malessere interiore dell’anziano che deve essere adeguatamente affrontato nelle sedi opportune e dal personale competente. Infatti, la perdita del ruolo sociale (in particolare dopo il pensionamento o la perdita del posto di lavoro), l’isolamento sociale la solitudine per la perdita del coniuge e/o la lontananza e l’abbandono (reale o presunto che sia) da parte dei figli troppo assorbiti dalla propria quotidianità (sindrome del nido vuoto), la riduzione sino alla perdita della propria autonomia fisica, l’ossessiva ripetizione dai e sui mass media “… i giovano devono lavorare per pagare la pensione ai vecchi…” (ma loro la pensione se la sono pagata con anni e anni di contributi !), portano l’anziano a sentirsi un essere inutile, un peso per la società, un reietto. Di qui la facile insorgenza di uno stato depressivo che può sfociare, associato ai citati cambiamenti della cute senile, all’acuirsi della sensazione pruriginosa ed al grattamento anche feroce: autococcolamento, autopunizione della propria inutilità o di pregressi “scheletri nell’armadio”, o anche una ricerca spasmodica di attenzione, di ritorno al centro della scena. In tal caso solo l’intervento della famiglia e/o dello psicologo potrà portare a soluzione; la terapia somministrata (qualunque essa sia) potrà almeno lenire il senso di isolamento e di abbandono, in quanto espressione, comunque, di attenzione prestata alla sua persona.
In alcuni casi, in fine, il grattamento può assumere il ruolo di masturbazione vicaria (il vecchio che si masturba o cerca appagamento sessuale è solo un vecchio sporcaccione, secondo una vecchia e stantia accezione comune che fortunatamente inizia ad essere superata), ricordando che la cute è una zona erogena per eccellenza. L’appagamento di tali pulsioni, naturali e del tutto fisiologiche, è l’unica terapia possibile in tali casi.

La meningite in età pediatrica

La meningite si definisce come l’infiammazione delle leptomeningi, ovvero il sistema di membrane che, all’interno del cranio e del canale midollare, riveste e protegge l’encefalo ed il midollo spinale.
Nonostante l’introduzione di numerosi vaccini contro i principali patogeni responsabili di tale malattia e di efficaci terapie antibiotiche, la meningite batterica continua ad essere causa di elevata morbilità e mortalità in tutto il mondo. La sua incidenza precisa non è nota, ma ancora oggi la mortalità delle meningiti batteriche si aggira attorno a 1.200.000 morti per anno, con predilezione per i pazienti in età pediatrica, la cui mortalità si aggira attorno al 20-40%, con un rischio di sviluppare complicanze a lungo termine del 20%.

I principali patogeni causa di meningite batterica variano in base alle diverse fasce d’età, così come segue:

<1 mese: Streptococcus agalctiae, Escherichia coli, Listeria monocytogenes
<2 anni: Streptococcus pneumoniae, Neisseria meningitidis;
3-10 anni: Streptococcus pneumoniae, Neisseria meningitidis;
10-18 anni: Neisseria meningitidis, Streptococcus pneumoniae;
18-50 anni: Neisseria meningitidis, Streptococcus pneumoniae;
>50: Neisseria meningitidis, Streptococcus pneumoniae.

L’introduzione delle vaccinazioni contro l’Haemophilus influenzae di tipo b e contro lo Streptococcus pneumoniae ha determinato una riduzione di meningiti batteriche in tutte le fasce d’età.

SEGNI e SINTOMI CLINICI

La meningite acuta può avere due modalità di presentazione differenti: il primo che si sviluppa progressivamente in uno o più giorni e che può essere preceduto da rialzo termico; il secondo, invece, che presenta un decorso fulminante, con manifestazioni di sepsi e di meningite che si sviluppano dopo poche ore.
Le manifestazioni cliniche della meningite sono variabili ed aspecifiche, senza un segno tipico. La presentazione dipende da diversi fattori, tra cui il patogeno responsabile, la risposta dell’ospite all’infezione e l’età del paziente. La classica triade febbre, rigidità nucale e alterazione dello stato di coscienza è presente solo nel 44% degli adulti affetti da meningite, ed ancor meno nei pazienti pediatrici. Nei neonati e nei lattanti la diagnosi è ancor più complessa a causa di una clinica estremamente sfumata e variabile. La presenza di instabilità termica (febbre e ipotermia), irritabilità con pianto inconsolabile, torpore e pianto lamentoso, difficoltà nell’alimentazione, vomito, pallore in un bambino con meno di 2 anni di età deve far sospettare meningite. Solo il 30% dei lattanti presenta una fontanella bombata. Nei bambini più grandi il sintomo più frequente è la febbre, associata spesso a rigidità nucale, nausea e vomito, irritabilità, fotofobia, convulsioni, confusione e letargia.
I segni di irritazione meningea, che nella maggior parte dei casi sono evidenti al momento del ricovero di pazienti con meningite, non sono costantemente presenti. La rigidità nucale può infatti essere riscontrata tardivamente, soprattutto nei bambini. Tale manifestazione si presenta con l’incapacità di flettere il mento sul petto, con la limitazione nel movimento di flessione passiva del collo e con la positività dei segni di Kernig e Brudzinski.
Segno di Kernig: si evoca con il paziente supino con anca e ginocchio flessi a 90°, estendendo il ginocchio. Il segno è positivo se l’estensione del ginocchio è inferiore a 135°e/o se c’è la flessione del ginocchio controlaterale;
Segno di Brudzinski: si evoca con il paziente in posizione supina, flettendo passivamene il collo sul torace. Il segno è positivo se durante il movimento del collo il paziente flette gli arti inferiori;
Tra i segni neurologici è importante valutare:
Alterato livello di coscienza  è direttamente correlato con la prognosi del paziente: se obnubilato, in stato semicomatoso o comatoso al momento dell’ingresso in reparto il paziente avrà un outcome peggiore rispetto a chi riferisce solo sonnolenza o letargia

Aumento della pressione intracranica (PIC): può manifestarsi con
diastasi delle suture craniche, fontanella bombata ed aumento della circonferenza cranica nei lattanti;
cefalea nei bambini più grandi;
paralisi dei nervi oculomotori;
papilledema che impiega diversi giorni prima di manifestarsi e che se presente dovrebbe indurre a valutare la presenza di empiema subdurale (versamento del rivestimento del cervello), ascesso cerebrale ed occlusione del seno venoso;
Convulsioni: possono presentarsi
all’esordio o entro le prime 48 h di ricovero: riscontrate nel 20-30% dei pazienti e tipicamente generalizzate;
oltre le 48 h di ricovero: spesso focali e possono indicare danno cerebrale;
Particolare attenzione va posta a eventuali manifestazioni cutanee. Porpora e petecchie possono infatti presentarsi con qualunque patogeno, ma sono più comunemente associate ad infezione da Neisseria meningitidis. In questo caso le lesioni sono più evidenti nelle regioni inguinale, ascellare ed alle estremità e possono essere precedute da un esantema maculo papulare.

TERAPIA
L’impostazione di una terapia antibiotica, nel sospetto di una meningite batterica, deve avvenire con estrema rapidità. In caso di agente patogeno non noto, la terapia antimicrobica deve essere intrapresa empiricamente seguendo l’epidemiologia della fascia d’età del paziente. Successivamente, in base ad eventuali positività agli esami colturali e alle condizioni cliniche del paziente, bisogna valutare eventuali modifiche terapeutiche.
Per quanto riguarda invece la terapia corticosteroidea sistemica, associata alla terapia antibiotica, non è raccomandata al di sotto dei 3 mesi di vita. Diversi studi hanno però evidenziato una riduzione della mortalità nei casi di meningite da Streptococcus pneumoniae, ma anche una minor incidenza nello sviluppo di sequele a breve termine e sordità nei paesi più sviluppati.
La terapia antibiotica profilattica è indicata in soggetti che sono entrati in stretto contatto con pazienti affetti da Neisseria meningitidis e/o Haemophilus Influentiae e dovrebbe essere somministrato il più presto possibile successivamente all’esposizione. Condizioni in cui è indicato effettuare chemiprofilassi sono le seguenti:
membri della famiglia, compagni di stanza, contatti intimi, contatti presso un centro di assistenza all’infanzia, giovani adulti esposti in dormitori, reclute militari esposti in centri di formazione;
viaggiatori che hanno avuto contatto diretto con le secrezioni respiratorie di un paziente indice o che erano seduti accanto a un paziente indice su un volo prolungato (durata del contatto ≥8 ore);
individui che sono stati esposti a secrezioni orali (ad esempio, bacio intimo, bocca a bocca, intubazione endotracheale o la gestione tubo endotracheale);
In caso di sospetta eziologia virale, nel sospetto di eziologia erpetica, vi è l’indicazione alla terapia con aciclovir endovena.

PREVENZIONE
Per quanto riguarda l’età pediatrica, in base al nuovo piano nazionale prevenzione vaccinale 2017-2019, i vaccini consigliati contro la meningite batterica in età pediatrica sono:
Vaccino contro Haemophilus influenzae tipo b : è solitamente effettuata, gratuitamente, insieme a quella antitetanica, antidifterica, antipertosse, antipolio e anti epatite B, al 3°, 5° e 11° mese di vita del bambino (vaccino esavalente). Non sono necessari ulteriori richiami.
Vaccino contro Streptococcus pneumoniae (pneumococco): Simultaneamente alla vaccinazione con esavalente, ma in sede anatomica diversa, è raccomandata la somministrazione della prima dose del vaccino pneumococcico coniugato a 13 sierotipi (PCV13). Il vaccino polisaccaridico 23 valente, autorizzato a partire dall’età di 2 anni, attualmente integra la vaccinazione con PCV13 nei soggetti a rischio.
Vaccino coniugato contro meningococco C: a partire dal terzo mese di vita può essere somministrato il vaccino antimeningococco C. Il numero di dosi da somministrare è diverso a seconda dell’età del bambino in cui si inizia il ciclo vaccinale.
Vaccino coniugato tetravalente (A, C, W135, Y): contenente polisaccaridi capsulari di N. meningitidis coniugati a proteine altamente immunogene. Conferisce protezione nei confronti della meningite causata da 4 diversi sierogruppi di meningococco; viene consigliato nei bambini a partire dal primo anno di vita compiuto. In adolescenza è raccomandata una dose di richiamo;
Vaccino coniugato contro meningococco B: prevede schedule vaccinali differenti per numero di dosi, a seconda dell’età di inizio della vaccinazione. Per i bambini dai due ai cinque mesi è indicata una schedula a tre dosi più una dose di richiamo. Per i bambini dai 6 mesi ai 23 mesi l’immunizzazione primaria prevede due dosi con una dose di richiamo, mentre nei bambini dai 2 anni e negli adulti la schedula è anche di due dosi, ma non è stata stabilita la necessità di una dose di richiamo.

Alberto Villani, Presidente Società Italiana di Pediatria, Responsabile UOC Pediatria Generale e Malattie Infettive, Dipartimento Pediatrico Universitario, Ospedale Bambino Gesù, Roma
Elena Bozzola, UOC Pediatria Generale e Malattie Infettive, Dipartimento Pediatrico Universitario, Ospedale Bambino Gesù, Roma