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ICTUS

II Tia costituisce però un importante rischio di ictus, disfunzione cerebrale assai più grave che può lasciare deficit neurologici permanenti e, in certi casi, condurre a morte. 

Importanti studi sostengono che circa il 30% dei pazienti con un Tia sara colpito da ictus nel giro di 5 anni. Nell’ambito di questo gruppo, il 20% subirà un ictus entro un mese dal primo attacco e circa il 50% entro un anno.
Negli ultimi 10 anni I’ approfondimento delle indagini diagnostiche sulla circolazione cerebrale ha evidenziato che l’­ictus nell’ 80% dei casi non è causato da una malattia primitiva del cervello (rottura o trombosi di vasi encefalici), anzi quest’ultimo è solo l’organo bersaglio di lesioni localizzate nelle arterie carotidi, che attraverso il collo portano il sangue daIl’ aorta al cervello. Queste lesioni, il più delle volte, sono placche arteriosclerotiche che possono provocare il restringimento di questi vasi, impedendo il passaggio del sangue verso il cervello, o disgregarsi immettendo nella corrente circolatoria piccoli e pericolosi frammenti che vanno a occludere i vasi cerebrali.
E’ ormai opinione comune che sia necessario individuare precocemente queste placche, quando si manifesta il primo Tia, e stabilire se è sufficiente una terapia medica o se bisogna sottoporre il paziente a un intervento chirurgico. L’atto chirurgico si chiama Tea (tromboendoarteriectomia) e consiste nella rimozione della placca che occlude I’ arteria carotide. In alcuni centri ospedalieri, tra cui l’Ospedale civile di Asti, l’intervento viene eseguito non più in anestesia generale, ma in anestesia loco-regionale, seguendo l’indirizzo della scuola newyorkese di Imparato. Notevoli i vantaggi, sia per il paziente che a distanza di poche ore dall’intervento operatorio può alzarsi dal letto, sia per il chirurgo che può, essendo il soggetto sveglio, controllare la funzionalità cerebrale in tempo reale.
La validità di questa terapia chirurgica è ribadita dai dati fomiti dalla collaborazione tra l’Istituto di Scienze Neurologiche e la Divisione di chirurgia vascolare dell’Università di Roma, che hanno ottenuto una riduzione globale del 30% degli ictus cerebrali tra i pazienti colpiti da Tia e trattati con questa tecnica chirurgica.
Negli Stati Uniti la Tea carotidea è al secondo posto tra gli interventi di chirurgia vascolare, dopo Ie rivascolarizzazioni coronariche, reggiungendo i 120 mila casi ogni anno. L’ Acoi (Associazione chirurghi ospedalieri italiani) ha riunito lo scorso giugno a Milano Ie divisioni di chirurgia che trattano questa patologia, per esaminare insieme gli aspetti ancora controversi. In particolare si è discusso del problema forse più importante, se sia opportuno intervenire sulle carotidi malate solo nei pazienti per i quali e già suonato il campanello d’allarme dei cosidetti Tia o se invece l’intervento vada esteso, con intento profilattico, a tutti i casi in cui Ie indagini strumenlaii hanno scoperto la presenza di placche arteriosclerotiche. Infatti lo sviluppo delle nuove tecnologie diagnostiche (doppler, ecodoppler, colordoppler) ha permesso di evidenziare con sempre maggior frequenza lesioni sia sintomatiche sia silenti che hanno allargato il campo d’ azione delIa chirurgia carotidea. Comunque, se su alcuni aspetti non vi e ancora un pieno accorso, su un punto fondamenlale sia i chirughi che i neurologi concordano: l’importanza dei campanelli d’allarme (Tia) e il fatto che spesso un semplice intervento (Tea), eseguito in anestesia loco-regionale, può evitare un ictus cerebrale dalle conseguenze drammatiche.

PIER PAOLO ZANETTI
Centro Medico Ceccardi
TeI.010-580301
Genova
Pubblicazione Gennaio 1993

BENDE E BENDAGGI IN FLEBOLOGIA

Il bendaggio però è rimasto una pratica empirica, ignorata e sottovalutata dalla Scienza Medica sino al XX secolo. Con la scoperta del caucciù vulcanizzato e via via di sempre nuove fibre sintetiche si sono potute realizzare bende con tessuti di differenti elasticità, saggiarne le rispettive caratteristiche alla luce delle nuove acquisizioni sulla fisiologia e sulla patologia della circolazione sanguigna. 

Sebbene quindi molto si sia studiato e scritto in questo campo esistono ancora motivi di incertezza ed in generale una scarsa dimestichezza nell’uso e nella applicazione di questi importanti presidi terapeutici. In questo breve articolo si illustreranno i differenti tipi di bendaggio che il flebologo applica e consiglia.
La prima differenza da fare è rispetto alle caratteristiche delle bende.
In pratica esistono due grandi gruppi. Del primo fanno parte le Bende Anelastiche, o non estensibili: si tratta di strisce di tessuto, più o meno permeabile all’aria e non elastico. Ne esistono di trattate con pasta all’ossido di zinco che, una volta applicate, essiccandosi assumono una maggiore rigidità.
Esiste poi la grande famiglia delle Bende Elastiche.
Esistono le bende elastiche a corto allungamento (40-70% della lunghezza iniziale), adallungamento medio (70­100%) e a grande allungamento (140% e oltre).
Le bende poi possono essere applicate in base alla tensione elastica esercitata e quindi essere facilmente rimovibili, oppure presentare colle che le fanno strettamente aderire alla pelle o alle spire già posizionate.
Sono state diffuse in commercio bende che non aderiscono alla pelle, ma risultano aderenti solo sulla spira di benda già applicata e sono denominate coesive.
La benda elastica, quando tesa ed applicata con forza sviluppa una pressione proporzionale alla forza di trazione longitudinale esercitata.
La pressione si manifesta superficialmente anche a riposo. Quando il paziente cammina, la benda si distende seguendo le variazioni di volume dell’arto durante la deambulazione.
Questo tipo di bendaggio esercita una discreta pressione a riposo e una modesta pressione durante l’esercizio muscolare.
E’ il tipo di bendaggio più diffuso: è relativamente più facile da eseguire, rimovibile ed eventualmente confezionabile da parte dello stesso paziente. Viene normalmente prescritto in caso di insufficienza venosa superficiale, esiti di intervento chirurgico di safenectomia o in caso di trombosi venose.
Il paziente anziano, obeso o con difficoltà a piegarsi e a muovere le dita della mani può trovare difficile il bendarsi correttamente.
D’altra parte anche il corretto posizionamento delle bende causa frequentemente solchi dolorosi di costrizione superficiali dovuti a spostamento, sovrapposizione eccessiva della benda che attorno alla caviglia tende facilmente ad arricciarsi.
La benda a corto allungamento o inestensibile esercita una minima pressione quando il paziente è a riposo, ma quando i muscoli della gamba si contraggono aumentano il volume dell’arto contenuto nello stivaletto di benda che non si estende e che quindi esercita una grande pressione, detta di “lavoro”, in modo intermittente, armonico con l’attività muscolare del passo.
S i tratta di un bendaggio che è applicato e rimosso dal medico o da personale paramedico specializzato.
E’ mantenuto in sede per un periodo da 4 a 15 giorni senza causare normalmente alcun problema, non necessitando di alcuna manutenzione.
Viene normalmente utilizzato nella cura delle ulcere non eccessivamente secernenti, nel trattamento degli edemi e delle varicoflebiti e in caso di trombosi venose periferiche.
Il bendaggio adesivo a corto allungamento viene anche applicato come coadiuvante dopo scleroterapia di varici o dopo l’esecuzione di trattamenti chirurgici quali safenectomia (asportazione della vena safena) o varicectomia (asportazione di vene varicose). Il bendaggio così effettuato non è però efficace se non è associato alla attiva deambulazione che incrementa il flusso venoso ed il drenaggio linfatico.
Le bende coesive permettono di realizzare bendaggi che sono un compromesso tra il primo ed il secondo tipo illustrati.
Le bende coesive sono generalmente abbastanza leggere con elasticità media o elevata.
Possono essere applicate in numerose spire che mano a mano conferiscono sempre maggiore consistenza al bendaggio, tanto da assomigliare, almeno funzionalmente, al secondo tipo descritto (non rimovibile, non elastico, adesivo). Sono meno costose delle bende adesive e all’occorrenza possono essere rimosse facilmente dal paziente stesso.
L’esperienza del Medico Flebologo ne permette l’utilizzazione sia in corso di scleroterapia di piccole varici o di teleangectasie sia come presidi terapeutici in caso diinsufficienza venosa ed edema.
La scelta del bendaggio in caso di insufficienza venosa, flebiti, ulcere, esiti di scleroterapia o intervento chirurgico è oggi abbastanza varia e dipende dalle caratteristiche della malattia da trattare, dalle abitudini e caratteristiche del malato e dall’esperienza dello Specialista consultato.

Vittorio VILLA -chirurgo vascolare
pubblicazione del 1996

PICCOLO DIZIONARIO DELL’ANGIOLOGIA

Angiologo 

È lo Specialista che si occupa dell’anatomia, della fisiologia e delle malattie che colpiscono i vasi sanguigni (arterie, vene, linfatici).

Conosce i principi che regolano il flusso di sangue in queste strutture ed è in grado di indagare quest’ultimo con opportune manovre o strumenti. E’ in grado di proporre terapie farmacologiche o interventi chirurgici, ma soprattutto è anche in grado di indicare regole igieniche e comportamentali per prevenire le malattie di cui si occupa o almeno di attenuarne gli effetti.

Arterie
Sono i condotti che permettono al sangue di raggiungere tutti gli organi ed i tessuti, trasportando sostanze nutrienti ed ossigeno, indispensabili alla vita delle cellule.
La parete presenta tre strati: uno, più interno, si chiama “intima” ed è a diretto contatto con il sangue che fluisce; il più esterno si chiama “avventizia” ed è aderente ai tessuti che circondano l’arteria. Lo strato intermedio si chiama “tonaca muscolare”, contiene fibre elastiche e particolari cellule muscolari che, contraendosi e rilasciandosi, possono variare il calibro del condotto.

Arteriosclerosi
Si tratta della più frequente arteriopatia (malattia che colpisce le arterie). Determina ispessimento con indurimento (sclerosi) della parete del vaso con progressiva perdita delle sue normali capacità elastiche.
La parete arteriosa risulta alterata dalla deposizione di grassi derivati dal sangue (colesterolo ), dalla abnorme proliferazione delle cellule muscolari della tonaca media e da fenomeni di infiammazione e deposizione di tessuto connettivo e sali di calcio.
Il sangue scorre con sempre maggiore resistenza per la riduzione del lume .
Le piastrine (elementi figurati che circolano nel sangue con i globuli rossi) aderiscono e si aggregano sulle irregolarità della parete, stimolando il processo di ispessimento e attivando la coagulazione, con formazione di trombosi (vedi).
I risultati sono la progressiva riduzione del lume e quindi del flusso nutritivo alle cellule, la completa e rapida occlusione dell’arteria ad opera di trombosi locale o l’invio di aggregati e materiali estranei (grasso, fibrina, coaguli) che, trascinati dal sangue, colpiscono gli organi ed i tessuti cui esso era destinato. Quest’ultimo fenomeno si chiama “embolia”.
Tutte le arterie possono presentare questa malattia, con differenti sintomi avvertiti dal paziente, in relazione agli organi che vengono a soffrire per mancanza di adeguata ossigenazione.
Se le arterie coronarie, che nutrono il muscolo cardiaco, sono ammalate può verificarsi angina di petto e l’infarto miocardico.
Le arterie carotidi,che presentano un ampio tratto esplorabile nel collo, sono i principali vasi nutritivi del cervello. Quando sono alterate si possono determinare deficit della vascolarizzazione cerebrale con attacchi ischemici transitori (TIA) ed ictus con perdita transitoria o definitiva della forza e della sensibilità di arti o deficit della conoscenza. I difetti di ossigenazione agli arti inferiori riconoscono come causa la malattia arteriosclerotica dellearterie della coscia. della gamba o le grandi arterie dell’addome (arteria aorta o arterie iliache)
Il disturbo più frequentemente riferito è la claudicazione intermittente, ovvero la comparsa di dolore, interpretato come crampo ai muscoli della gamba. della coscia o del bacino, che tipicamente scompare o si attenua con il riposo e compare ogni volta che il paziente cammina e percorre un definito tratto di strada. Viene anche descritta come “Malattia delle vetrine” in quanto il paziente che passeggiando viene colto da dolore, si sofferma con la scusa di osservare le vetrine, fintantoché il dolore, con il riposo, si attenua sino a scomparire. Ma la malattia può essere anche di più grave intensità ed indurre dolore anche a riposo, prevalentemente notturno.
La pelle, importantissimo elemento protettivo sempre rinnovato dall’organismo, può deteriorarsi, vista la carenza di ossigeno e nutrienti. Ecco allora comparire le “lesioni trofiche” ovvero ulcerazioni e necrosi di aree di cute o di intieri segmenti (dita, piede) con il noto fenomeno della gangrena. La presenza di diabete da una parte costituisce fattore di rischio e peggioramento dell’evoluzione della malattia, dall’altra rende più vulnerabili all’infezione i segmenti distali e la pelle già poco irrorati.
La degenerazione della parete elastica, congiunta con l’invecchiamento, può determinare lo sfiancamento delle arterie con la comparsa di Aneurismi.
In questi casi l’arteria ha un calibro maggiore e tende, sotto la pressione del sangue, a dilatarsi sempre più sino alla inevitabile rottura.
La sede più tipica e’ l’aorta addominale anche se possono essere colpite sia l’aorta toracica sia le arterie iliache, femorali e poplitee.
L’arteriosclerosi è la prima causa di morte negli Stati Uniti ed in Italia; grandi sforzi sono attualmente indirizzati alla cura e alla prevenzione.
I fattori di rischio sono ben conosciuti e sono essenzialmente l’ipercolesterolemia ed in generale l’iperlipidemia (aumentata quantità di grassi nel sangue), il fumo di sigarette, l’ipertensione arteriosa, il diabete, fattori genetici e costituzionali, abitudini di vita sedentarie con abuso di alcool ed iperalimentazione.
La diagnosi di questa malattia così temibile e terribile è affidata alla attenta valutazione del Medico che, sentiti i sintomi del paziente, percepisce nell’esame obiettivo la riduzione dell’ampiezza delle pulsazioni lungo le principali arterie o apprezza l’aumentata pulsatilità delle arterie divenute aneurismatiche.
Spesso però questi segni sono sfumati oppure compaiono tardivamente.
Per arrivare ad una diagnosi precoce, in tutto il mondo è in atto un grande sforzo cognitivo, investito nella ricerca clinica e strumentale, con risorse tecnologiche sempre più moderne. Sono oggi disponibili esami strumentali con ultrasuoni (Ecografia, Doppler, Eco-Doppler, Eco-Color-Doppler), pletismografi e raffinate tecniche di angiografia (visualizzazione radiografica di arterie ) che permettono di misurare passo dopo passo l’evoluzione della malattia.
Anche la diffusa disponibilità dei controlli dei valori di colesterolo e grassi nel sangue permette un attento monitoraggio dei fattori di rischio.
La tendenza ad abbandonare l’abitudine al fumo di sigarette, che ormai sta diffondendosi in tutto il mondo occidentale, ha già permesso la riduzione della prevalenza della malattia nella popolazione dei Paesi più progrediti.

Benda
Sino dall’antichità si utilizzavano bendaggi allo scopo di guarire ferite, traumi e affezioni circolatorie. Esistono documenti del suo uso da parte dei Medici Greci, Romani e dell’Antico Egitto.
Con la benda si può immobilizzare un’ articolazione, stabilizzare una frattura o esercitare una pressione dalla superficie in profondità dell’arto colpito.
La pressione è direttamente proporzionale alla forza con cui la benda viene applicata e inversamente proporzionale all’elasticità (capacità di allungamento) della benda stessa.
Le bende attualmente disponibili si dividono in grandi categorie: innanzitutto esistono bende adesive che aderiscono alla cute o alla medicazione applicata: ogni spira aderisce alla spira sottostante, conferendo al bendaggio una particolare consistenza. Utilizzando bende a corto allungamento (poco elastiche) fatte aderire con una certa forza, si viene a determinare una forte pressione diretta dalla superficie alla profondità dell’arto, che incrementa con l’attività muscolare. Queste bende sono applicate normalmente dallo Specialista sia in caso di edema, flebite e ulcera (vedi) sia, talvolta, come medicazione dopo rimozione chirurgica delle vene varicose.
Un’ altra categoria è quella delle bende non adesive.
Ci sono quelle a “medio allungamento”, più robuste, quelle “a grande allungamento” più leggere. Entrambe sono disponibili nella rete commerciale e riconoscono differenti applicazioni.
Le bende a medio allungamento sono frequentemente elasticizzate anche nella direzione della loro larghezza oltre ovviamente a quella della lunghezza e si dicono quindi “biestensibili”.
Sono consigliate nella terapia dell’insufficienza venosa cronica, nella contenzione dopo safenectomia o in caso di tromboflebiti .
Normalmente si inizia dal piede, applicandole in spire regolari e ben distribuite sino all’articolazione del ginocchio.
Il malato stesso può provvedere da sé alla confezione del bendaggio, che normalmente viene rimosso durante il riposo a letto. Non è raro quindi osservare errori di applicazione quasi sempre dovuti alla non sufficiente istruzione del paziente da parte dello Specialista o del suo staff.
Bende a lungo allungamento (si perdoni il bisticcio verbale) sono indicate come supporto in caso di minima insufficienza venosa o come contenzione dopo scleroterapia di tronchi venosi di medio e piccolo calibro.
E’ un errore pensare di sostituire bende robuste a corto allungamento, che sono in grado quindi di esercitare forti pressioni, quando indicato, con bende più economiche e facili da applicare perché estesamente allungabili.
Le basse pressioni esercitabili in profondità non sono allora sufficienti a prevenire o curare l’insufficienza venosa o la sindrome tromboflebitica.
Una categoria particolare è quella delle bende coesive che non aderiscono alla pelle, ma ogni spira è in grado di incollarsi sulla spira già applicata; vengono così esercitate discrete pressioni senza causare infiammazioni o irritazioni della cute, peraltro abbastanza frequenti con i bendaggi adesivi.

Calze
Lo Specialista Angiologo frequentemente consiglia o prescrive calze elastiche contenitive.
Non si tratta ovviamente di complementi di abbigliamento, anche se l’estetica e la funzionalità hanno in questo settore enorme importanza. Occorre prima di tutto spiegare il motivo della loro applicazione. Nel caso di insufficienza venosa del sistema superficiale o profondo il sangue defluisce con maggiore lentezza e difficoltà verso il cuore e quindi aumenta la pressione all’interno delle vene.
Per bilanciare questa forza occorre contrapporre una forza a direzione contraria, diretta cioè verso la profondità, più intensa in periferia, verso il piede, e gradualmente decrescente sulla gamba e la coscia. Le calze elastiche contenitive sono la risposta tecnica a questa esigenza. Questi indumenti contengono particolari tessuti con fibre elastiche disposte in modo da esercitare una determinata pressione; i materiali impiegati sono la gomma naturale, la fibra sintetica, il cotone ed il filato tessile. La composizione relativa di questi elementi influenza il grado di pressione esercitata che dovrebbe essere più forte alla caviglia e meno intensa alla coscia,per facilitare il ritorno venoso del sangue sia in condizioni di riposo sia con l’attività muscolare.
Queste calze sono state proposte anche per ridurre l’eventualità di ulteriori sfiancamenti delle vene superficiali e per prevenire fenomeni tromboflebitici.
Dal momento che esistono differenti gradi di insufficienza venosa esistono differenti gradi di compressione elastica con calze composte da differenti combinazioni di fibre elastiche.
Un modo molto diffuso di distinguere le calze è l’indicazione dei “Denari” o “Denier”, indicati in sigla “Den” che però e’ molto imprecisa, poiché dà solo una vaga indicazione sul peso del materiale elastico utilizzato dal Costruttore.
Sarebbe preferibile utilizzare la misura della compressione esercitata dalle calze con una unità di misura di pressione ed in particolare con il “millimetro di mercurio”. Con questo metodo di misura è stata compilata una classificazione delle calze di tutti i gradi di compressione indicata con la sigla KL, che compare nella targhetta di ogni singola calza e sulle relative confezioni.
Quando non sono ancora presenti varici o segni di insufficienza profonda, ma è presente stanchezza e senso di affaticamento delle gambe sono normalmente consigliate calze di “supporto” o preventive. La pressione esercitata alla caviglia è di pochi millimetri di mercurio.Queste calze corrispondono a quelle denominate da 40-70 Denari. Sono generalmente prescritte per alleviare i sintomi soggettivi di tensione o vago dolore, in soggetti predisposti costituzionalmente o esposti a maggiori rischi in virtù della professione esercitata che obblighi a sostare lungamente in piedi. Sono anche consigliate per prevenire il peggioramento di limitate insufficienze superficiali o l’estensione di teleangectasie .
Le calze di sostegno più impegnative indicate da 140 Denari non superano i 18 millimetri di mercurio (KL 0) e sono consigliabili per modeste insufficienze superficiali o come complemento della terapia dopo interventi di asportazione di vene varicose o scleroterapia.
In questa categoria sono anche disponibili calzini maschili.
Se la malattia è più importate le calze diventano molto più robuste e fortemente elasticizzate.
Si tratta di calze terapeutiche, cioè che sono un presidio fondamentale da affiancare alle cure mediche chirurgiche.
Si dividono in quattro Classi (KL) a seconda della pressione esercitata alla caviglia: la prima classe (KL1) corrisponde a 20-30 mm Hg, la seconda a 30-40 millimetri (KL 2), la terza a 40-50 (KL 3) e la quarta fornisce addirittura 50­60 mm (KL 4).
Le calze più frequentemente prescritte sono della prima e seconda classe, indispensabili per la terapia di insufficienze varicose importanti, gravi insufficienze venose profonde o miste (superficiali e profonde).
E’ stato dimostrato che sono in grado di aumentare il flusso, di ridurre l’ipertensione nelle vene dell’arto inferiore, prevenendo le complicazioni trombotiche e le ulcere.. Le calze di classe superiore (KL 3 e KL 4) sono indicate in casi più particolari. Queste calze devono adattarsi perfettamente all’arto, sono quindi disponibili in differenti misure e conformazioni. E’ indispensabile che prima dell’acquisto si proceda alla misura della lunghezza dell’arto inferiore, delle circonferenze della caviglia, della gamba e della coscia. Le misure sono effettuate con metro da sarta quando il piede e la gamba non sono edematosi, cioè al mattino dopo il riposo notturno. La calza perfettamente “su misura” per il paziente, calibrata rispetto al grado di insufficienza da curare, rappresenta una fondamentale e bene accettata terapia Se la calza non è adatta sia per compressione sia per misura può rappresentare una autentica tortura, con aggravamento dei sintomi, o essere insufficiente e quindi essere una inutile gravosa spesa.
Poche utili informazioni sulla manutenzione delle calze elastiche.
Questi indumenti dovrebbero essere lavati in acqua fredda e solo con sapone neutro, fatti asciugare lontano da fonti di calore. Gli additivi dei lavaggi possono causare dermatite irritativa. Le calze dovrebbero essere indossate al mattino, utilizzando appositi supporti in seta da applicare al piede (normalmente fornito dalla Casa produttrice delle calze).
I guanti di gomma da massaia sono utilissimi nel facilitare la risalita della calza lungo la gamba e la coscia, riducendo il rischio di rotture del filato da parte di unghie e delle dita stesse.

Capillari
Sono le più piccole diramazioni delle arterie e delle vene, strettamente in contatto con tutte le cellule. Nel linguaggio comune sono indicati al posto delle Teleangectasie

Doppler
E’ il nome di un Fisico, Christian John che descrisse un fenomeno caratteristico di tutti i tipi di onde.
Questo effetto è applicato a strumenti ad ultrasuoni che rilevano la velocità di scorrimento del sangue (Velocimetri Doppler).
Con il calcolo delle differenze di frequenza tra gli ultrasuoni emessi e ricevuti in corrispondenza di globuli rossi in movimento è possibile stabilire la velocità del sangue, che può essere rappresentata da un suono udibile, interpretato dall’orecchio addestrato dell’esaminatore, oppure visualizzato ed analizzato in un tracciato grafico. Come è ormai risaputo gli ultrasuoni permettono di eseguire ecografie ovvero rappresentazioni bidimensionali degli organi del corpo, attraverso scale di grigi (in bianco e nero).
Le pareti delle arterie e delle vene sono quindi visualizzabili su monitor.
Con l’uso di potenti computer può oggi essere realizzata una mappa di colore sovrapposta alle immagini ecografiche dello stesso vaso ottenute in tempo reale (Eco-Color-Doppler).
È cioè possibile vedere su monitor la parete del vaso (arteria o vena), misurarne lo spessore e contemporaneamente apprezzare il flusso di sangue al suo interno con un colore che ne dipinge il lume.

Pletismografia
Il pletismografo è uno strumento che permette di misurare le variazioni di volume di un arto o di un segmento di questo, ad es. un dito, in funzione delle variazioni del flusso del sangue. Esistono vari tipi di pletismografi che sfruttano differenti principi fisici: i più diffusi misurano le variazioni di circonferenza dell’arto studiato con particolari rilevatori (strain gauges) o le variazioni del suo volume attraverso le variazioni del volume noto di un recipiente (di gas) in cui l’arto viene contenuto. Esiste poi il foto-pletismografo che in effetti non misura il volume dell’arto ma fornisce indicazioni sul flusso ed il contenuto di sangue nei plessi vascolari subpapillari: estese diramazioni prevalentemente venulari poste sotto la pelle. La luce inviata alla pelle viene in parte assorbita in funzione del contenuto di globuli rossi (quindi in funzione del flusso di sangue) nelle venule più superficiali.
E’ cioè possibile verificare se avviene un patologico ristagno di sangue in questi vasi e se l’attiva contrazione dei muscoli della gamba riesce a correggere il difetto. Con questi strumenti è possibile misurare l’entità dell’insufficienza venosa e stabilire se questa è causata da difetti del sistema venoso superficiale o profondo.
E’ inoltre possibile riconoscere l’insufficienza della pompa muscolare e porre il sospetto di trombosi venosa profonda.

Teleangectasie
Con questo termine si indicano una serie di manifestazioni in cui piccoli vasi sanguigni appaiono dilatati e abnormemente visibili. Il loro colore può essere prevalentemente blu o rosso se in queste è presente sangue arterioso. Se all’interno di queste piccole venule sono avvenute piccole trombosi ed il sangue non vi scorre con regolarità si possono presentare pigmentazioni intensamente bluastre o nerastre.
Le teleangectasie sono in sostanza minuscole vene, situate nella parte più profonda della cute, divenute visibili proprio a causa della loro dilatazione o del loro particolare colore. Il calibro varia da 0.1 a 1 millimetro.
Le teleangectasie “rosse” sono più fini con moltissimi rami, che sembrano diramarsi in tutte le direzioni da un punto centrale. Le teleangectasie “blu” appaiono più dilatate e talvolta protrudono dalla superficie della pelle; non infrequentemente possono presentare piccole emorragie o essere causa di ecchimosi (stravaso di sangue per traumi o rotture spontanee). Ovviamente entrambi i tipi possono coesistere nello stesso soggetto e nelle stesse zone.
Nella maggioranza dei casi queste alterazioni colpiscono soggetti femminili.
Tra le cause si riconosce la stasi venosa (la scarsa o inefficace progressione del sangue verso il cuore) o la presenza di reflussi venosi come nel caso di varici.
La coesistenza di vene varicose e di teleangectasie è spiegata anche con la tendenza delle vene di piccolissime o grandi dimensioni a sfiancarsi e cedere per difetti della naturale elasticità della parete. Cause particolari possono essere deficit di fattori nutritivi e costituzionali o l’assunzione di alcool. Altre cause o fattori scatenanti possono essere l’esposizione al calore, la stazione eretta prolungata o la costrizione degli arti inferiori da lacci, elastici o indumenti attillati.
E’ di comune evidenza che la gravidanza o l’uso di estroprogestinici possono favorire la comparsa o peggiorare l’estensione di teleangectasie, tuttavia sono tuttora poco chiare le ragioni di questo fenomeno. I sintomi lamentati sono essenzialmente da riferire alla sfera estetica.
L’inestetismo determinato è vissuto talvolta come un vero cruccio da parte della paziente. Alcuni soggetti possono riferire anche un vago senso di dolore, trafittura o bruciore, sintomi accentuati durante la stagione più calda o dopo lunga stazione eretta.
Il trattamento più classico delle teleangectasie è la loro microsclerosi. L’iniezione di particolari sostanze chimiche determina all’interno di questi piccoli vasi una reazione infiammatoria controllata che ne ottiene il collabimento e quindi la adesione di una parete all’ altra.
Il sangue non può più circolare e la piccola vena trattata non è più visibile. La tecnica presuppone l’uso di piccolissime quantità di liquido sclerosante, attraverso aghi molto sottili, praticamente indolori, in sedute periodiche che prevedono numerosi punti di iniezione.
Le sostanze più frequentemente usate in tutto il mondo sono glicerina cromata, polidocanolo e salicilato di sodio. Gli effetti ottenuti sono generalmente la comparsa di eritema (arrossamento) nelle zone iniettate e l’attenuazione dell’evidenza o la scomparsa delle teleangectasie dopo alcuni giorni o settimane. Talvolta il risultato perseguito non si verifica ed occorre insistere con ripetute sedute oppure possono verificarsi infiammazioni eccessive o alterazioni della pelle per sovradosaggio locale dei prodotti sclerosanti. Tuttavia questi inconvenienti sono abbastanza rari, specie se la tecnica è eseguita con correttezza da medici esperti. Gli eventi allergici sono molto rari.
Le teleangectasie possono anche essere trattate con diatermocoagulazione. Attraverso aghi molto sottili e con debolissime correnti elettriche si possono direttamente coagulare le piccole vene, interrompendo il flusso di sangue. Anche in questo caso la tecnica è quasi indolore e presenta risultati a distanza molto soddisfacenti.

Trombosi
La presenza di un trombo all’interno di un’ arteria o di una vena è denominata trombosi.
Il trombo è un aggregato di fattori della coagulazione del sangue, principalmente piastrine e fibrina, che ingloba gli altri elementi cellulari (globuli bianchi e rossi).
Il meccanismo della trombosi può arrestare l’emorragia per la rottura di piccoli vasi in caso di ferita.
Tuttavia questo fenomeno può innescarsi anche in caso di malattie delle arterie (vedi arteriosclerosi), formando un coagulo all’interno di arterie con placche arteriosclerotiche. Il trombo può occludere il lume delle arterie causando ischemia (mancanza di sangue) all’organo irrorato.
La trombosi che si verifica nelle vene ha frequentemente cause diverse quali l’eccessivo rallentamento del flusso di sangue o la innaturale tendenza del sangue a coagulare (ipercoagulabilità) oppure alterazioni della parete venosa. Può essere di difficile riconoscimento, specie se coinvolge vene del distretto profondo. Anche in questo caso il trombo può occludere la vena causando cosi un ostacolo al flusso venoso verso il cuore. Quando il trombo si stacca dalla parete e viene trascinato dal sangue viene denominato”embolo”, e , nel caso del sistema venoso, può arrivare sino ai polmoni causando “embolia polmonare” dalle possibili gravi conseguenze (insufficienza respiratoria acuta o cronica, arresto cardiocircolatorio) .

Ulcera
L’ulcera è un difetto locale, un’escavazione alla superficie della cute, prodotta dal distacco di materiale necrotico o infiammatorio, senza la tendenza alla spontanea cicatrizzazione. L’angiologo è chiamato a trattare nella stragrande maggioranza dei casi ulcere localizzate all’estremità della gamba e al piede. Il 90% delle ulcere riconosce come causaun’insufficienza venosa. Il restante 10 % ha come causa la presenza di insufficiente apporto arterioso, infiammazione cronica, diabete, malattie del collageno, in varia combinazione poi con stasi venosa o linfatica.
Gli aspetti dell’ulcera sono molto differenti.
Nel caso di ulcere da insufficienza venosa la sede tipica è il malleolo mediale, mentre nel caso di lesioni arteriose possono essere interessati settori più periferici quali la regione del calcagno, il dorso le dita del piede.
La presenza di infezione conferisce i caratteristici aspetti con bordi macerati, secrezione di materiale corpuscolato, fetore.
I sintomi soggettivi sono molto variabili: spesso piccole ulcerazioni, con componente infiammatoria spiccata e causa arteriopatica sono molto dolenti mentre ampie ulcere, dovute ad insufficienza venosa sono poco o per nulla dolorose e sono tollerate magari per mesi od anni.
La terapia più appropriata deriva dalla precisa diagnosi.
Nel caso di arteriopatia o diabete sono necessari il ripristino di un adeguato apporto di sangue e del compenso metabolico, altrimenti le lesioni diventano sempre più profonde ed estese.
Nel caso di ipertensione venosa con stasi la compressione elastica con bendaggi, il rialzo dell’arto o la bonifica del reflusso patologico possono condizionare favorevolmente il decorso della lesione.
Le tecniche di cura sono abbastanza semplici e bene codificate.
Se esite infezione deve essere trattata con opportuna terapia antibiotica e medicazione.
La compressione elastica che riduca la stasi venosa e l’edema è quasi sempre adottata. Ecco allora applicare bendaggi adesivi, oppure rimovibili e anche calze opportunamente compressive.
Le ulcere più impegnative e ribelli sono quelle a genesi mista (infiammatoria, arteriopatica, flebopatica).
In questi particolari casi sono stati proposti innesti dermo epidermici. Sono interventi normalmente praticati dal Chirurgo Plastico che prevedono il trasferimento di lembi di cute sana, prelevati normalmente alla coscia del paziente, nella sede dell’ulcera.
La percentuale di attecchimento è variabile e dipendente dalle condizioni dell’ulcera.
Una recente proposta deriva dalla attuale disponibilità di lembi di epidermide (lo strato più superficiale della pelle) conservati a bassissime temperature (intorno a ­70 gradi centigradi) e biocompatibili per ogni ricevente.
Si tratta di una medicazione con materiale biologico che dovrebbe stimolare le capacità di cicatrizzazione nel ricevente.
Una volta curata l’ulcera frequentemente si assiste alla sua recidiva, sia per la fragilità della nuova cute formatasi sulla cicatrice, sia per il persistere dei fattori predisponenti e determinanti.

Vene
Il sangue che ha nutrito le cellule e ha ceduto ossigeno deve scorrere dalla periferia, dai tessuti, verso il cuore e successivamente essere da questo spinto verso i polmoni per depurarsi e riacquistare ossigeno. Le vene sono profonde e superficiali, hanno pareti similli alle arterie ma sono più elastiche e distensibili. La velocità è lenta e in questi vasi la pressione è molto bassa.
Cosa spinge il sangue dalla periferia, in particolare dai piedi verso il cuore?
Il maggiore contributo è dato dalla “pompa muscolare”: i muscoli contraendosi schiacciano e modellano le vene favorendo, in condizioni normali, il flusso in un’unica direzione, verso il cuore, grazie alla presenza di valvole che ne impediscono il reflusso. Giocano un ruolo anche i movimenti respiratori del diaframma e quindi le variazioni della pressione addominale, congiunti ad una piccola quota dell’energia della gittata cardiaca.
Quando si verifica e cosa significa l’insufficienza venosa
Se in un distretto venoso la pressione sale in modo abnorme le cause possono essere nella difficoltà a procedere del sangue verso il cuore (ostacolato deflusso) o nella incapacità delle valvole a convogliare correttamente il flusso nella direzione favorevole (reflusso) Oppure entrambi i meccanismi in varia misura sono combinati. Ma l’aumento della pressione in vasi delicati e dalle pareti deboli significa dilatazione delle vene con rallentamento ulteriore del flusso e quindi ristagno di sangue, ricco di sostanze irritanti. L’emoglobina, contenuta nei globuli rossi che non sono più trattenuti dalle microscopiche venule, si deposita nei tessuti e così appaiono le pigmentazioni caratteristiche.
Anche liquidi e proteine filtrano verso i tessuti, che vengono a contenere tra una cellula e l’altra più liquido del normale (edema).
Nelle vene superficiali (ad esempio la grande safena) si assiste allo sfiancamento delle pareti con la formazione di varici.
Se l’eliminazione di scorie da parte dei tessuti è ostacolata si innescano irritazioni delle terminazioni nervose (e quindi il paziente avverte prurito, dolore, trafitture e crampi) e la pelle viene a deteriorarsi, presentando dermatiti (infiammazione della cute e dei suoi annessi) e ulcerazioni (vedi ulcera).
La terapia razionale di tutte queste manifestazioni dell’insufficienza venosa è la riduzione della abnorme pressione nelle vene.
Questo si può attuare ad esempio con il rialzo dell’arto sopra il livello del cuore (atteggiamento non molto pratico per la vita comune ma efficace nell’aumentare per pure ragioni idrodinamiche il deflusso venoso).
Un’altra operazione è l’applicare una pressione orientata verso la profondità dell’arto (vedi Calze). Le vene superficiali che determinano patologici reflussi possono essere asportate (è il caso degli interventi chirurgici di safenectomia) o eliminate dal circolo con scleroterapia.

Vittorio Villa – chirurgo vascolare
pubblicazione del 1995

TERAPIA CHIRURGICA DELLE VARICI ESSENZIALI O PRIMITIVE

Paragoniamo il circolo venoso ad un fiume con alcuni affiuenti: in tutto il sistema la corrente deve avere un senso ben definito e l’acqua deve sempre scorrere senza ristagnare in pozze che diventino paludi o invertire il flusso in rigagnoli controcorrente, che possono man mano ingrossarsi e stornare la corrente dalla giusta direzione. Le dilatazioni venose dette varici possono essere quindi paragonate a laghi con acqua stagnante o a corsi d’acqua nei quali il flusso é diminuito o addirittura invertito rispetto alla normale direzione.Così come si farebbe in natura anche per fare ritornare il sangue venoso nella giusta direzione (periferia centro) occorre creare argini che impediscano la comunicazione tra l’alveo normale e le vie aberranti oppure interrompere completamente le comunicazioni od eliminare stagni e rigagnoli inutili e dannosi per l’economia generale. Ecco spiegate a grosse linee le finalità e i mezzi della terapia delle varici che si distingue in due metodiche: chirurgica e scleroterapica. Esse non sono in contrasto fra loro, come potrebbe sembrare, ma complementari l’una all’altra e ciascuna capace di ottenere i migliori risultati, se le indicazioni sono state esattamente poste, e da sola e in associazione con l’altra. Per spiegare ancora per metafora la chirurgia elimina, porta via “stagni e rigagnoli”, lasciando solo il fiume e i suoi rami collaterali di normale flusso, la scleroterapia invece crea argini che impediscano il reflusso e ostruisce gli stagni e i rigagnoli in modo che essi vengano obliterati in modo definitivo quindi annullati. Il risultato terminale deve essere lo stesso: eliminazione dei punti di fuga e delle ectasie venose. Qui bisogna sottolineare, anche per sfatare quel senso di disagio che molti pazienti hanno quando si propone loro di eliminare le varici e che si manifesta con il timore che li si possa privare di “vasi necessari”, che le varici una volta formatesi non sono più vasi venosi utili ma sono dannosi e si perpetua tramite loro l’insufficienza venosa e la stasi con gravi complicanze future: insufficienza venosa cronica discromie cutanee-ulcere. 

 

Le schematiche esemplificazioni sopra riportate possono servire a fare capire come occorra intervenire per tempo, quando si può agire solo in alcuni punti non ancora sottoposti a grossolani “sfiancamenti” senza che si siano già instaurati danni ai tessuti circostanti e possono inoltre spiegare come la terapia oltre ad eliminare la causa determinante agisce su quel che di patologico é in atto nel determinato momento, interrompendo la cascata peggiorativa che poteva prende il via se la situazione non veniva corretta. Comunque, anche l’intervento più riuscito, cioé quello che restituisce una perfetta integrità fisiologica ed estetica agli arti del soggetto trattato, non può impedire che con il passare degli anni in chi é predisposto, e per familiarità e per abitudini di vita, si possano verificare altri sfiancamenti venosi per stasi o inversione di flusso. Questi saranno però sempre di entità molto modesta rispetto a ciò che sarebbe certamente accaduto se l’intervento terapeutico non fosse stato eseguito e ad essi si potrà di solito provvedere con semplici manovre di scleroterapia aggiuntiva sempre che il paziente oltre ad osservare ingieniche regole di vita (dimagrire, camminare molto con calzature adatte ecc.) si sottoponga a periodici controlli e non trascuri la sorveglianza attenta e periodica di uno specialista, il quale dopo averlo curato, o con l’intervento chirurgico o con la scleroterapia o con l’ausilio di entrambi i mezzi, possa dargli utili consigli per prevenire o bloccare sul sorgere quelle piccole dilatazioni venose così spiacevoli, che in alcuni casi trascurati potrebbero comparire.
Varici essenziali o primitive sono quelle che insorgono “primitivamente” in soggetti predisposti per particolare situazione di debolezza connettivale ed insufficienza valvolare.
Varici secondarie sono quelle che subentrano come risposta di stasi o di supplenza in caso di patologie che interessano zone limitrofe (circolo venoso profondo, vasi iliaci ecc) e che danneggiano il circolo venoso superficiale in via secondaria.
E’ necessario escludere alterazioni del circolo venoso profondo con accurato esame clinico ed eventualmente con accertamenti diagnostici complementari flebografia e flussimetria ultrasonica “Doppler”.

La flebografia è una metodica radiologica, la flussimetria è una metodica non invasiva, di preziosissima utilità anche per la sua ripetibilità nel seguire l’evoluzione della malattia.
Fatta dunque la diagnosi di varici essenziali a carico della grande o della piccola safena o di entrambe con chiari segni di incontinenza degli ostii safeno femorale e safeno popliteo con inversioni di flusso, per chiudere questi punti di fuga, eliminare i vasi venosi ectasici ed interrompere le comunicazioni abnormi (in senso dentro fuori-circolo venoso profondo circolo venoso superficiale) dei vasi comunicanti si pone l’indicazione chirurgica.
Questa scelta non deve apparire troppo “drastica”, ma, in un soggetto giovane e sano e comunque in buone condizioni generali, è la via più breve e definitiva per eliminare cioè “togliere via” dei vasi divenuti inutili e dannosi nell’economia circolatoria dell’individuo. In essi il sangue o ristagna o prende il senso contrario alla giusta direzione ingorgando il “traffico” così come ingorgherebbe un’autostrada un flusso di autovetture immesso in una corsia in senso contrario a quello di marcia.
Per schematizzare la tecnica chirurgica sottolineo ancora le finalità dell’intervento.
1) interrompere le comunicazioni dove avviene inversione di flusso.
2) eliminare i vasi venosi divenuti ectasici (= varicosi).
A seconda che si asporti la grande safena (Safena interna) o la piccola safena (safena esterna) l’intervento viene detto Safenectomia interna o esterna e si può aggiungere l’aggettivo totale o parziale se tutta o soltanto una parte della vena viene asportata.

Safenectomia totale interna
Due sono le sedi delle incisioni principali
1) Regioni della piega inguinale
2) Regione premalleolare interna (alla caviglia)
In regione inguinale si incide cute e sottocute in corrispondenza dello sbocco safeno-femorale, si isola la safena proprio là dove si va a buttare nella vena femorale con una tipica curva e manico di ombrello della “crosse” che va evidenziata con accuratezza perché qui la safena riceve vasi collaterali da diverse direzioni, che vanno, opportunamente legati e sezionati. La stessa safena va interrotta al limite dell’imbocco nella femorale per non lasciare un “cul di sacco” prossimalmente alla legatura.
Questa legatura interrompe la cascata retrograda che avevamo diagnosticato clinicamente come insufficienza dello sbocco safeno-femorale e per la quale principalmente avevano posto l’indicazione chirurgica.
Il moncone distale (verso valle) della safena sezionata si isola per un tratto così da eliminare anche qui eventuali collaterali. Si incide quindi per un piccolo tratto la cute al davanti del malleolo interno: subito appare la safena interna alla sua origine accompagnata da un piccolo nervo (il nervo safeno). Anche qui si seziona, si lega il moncone verso il piede e si tiene beante l’estremità verso l’alto.
Il lume si infibula con apposito strumento detto Stripper che è simile ad uno spago metallico, che termina con due estremità filettate a passo di vite sulle quali possono essere avvitate apposite testine.
E’ preferibile incanalare dal basso verso l’alto (cioè nello stesso senso della corrente fisiologica) il lume venoso per evitare eventuali ostacoli alla progressione da parte delle tasche valvolari. L’estremità viene a spuntare dal moncone di safena in regione inguinale: si avvita una “testina” di calibro adeguato e si lega la vena sullo “stripper”, in basso si può avvitare un apposito manico: per trazione dal basso lo “stripper” porta via su di sé tutta la safena e strappa (quindi interrompe) rami collaterali che vi confluivano a diversi livelli.
Con questo tempo si raggiunge la seconda finalità prefissata: l’asportazione del vaso varicoso.
Questo semplice geniale accorgimento permette di “sfilare”, una lunga safena con due sole piccole incisioni chirurgiche e fa dimenticare come agli albori di questa chirurgia si facesse una sola lunga incisione verticale dall’inguine alla caviglia per esporre tutto il vaso e quindi asportarlo.
Spesso si deve interrompere la risalita dello strumento a circa metà percorso perché la punta si ferma: con una piccola incisione si può estrarla, sezionare il vaso e fare la manovra in due tempi.
Altre incisioni possono essere necessarie per porre legature e sezioni mirate di vasi venosi comunicanti che, lasciati in sede, porterebbero a recidive sicure (in particolare per le vene perforanti del terzo medio-inferiore della gamba e del terzo inferiore della coscia).
Si è sopradescritta la safenctomia totale: esiste anche la possibilità di asportare soltanto il tratto di safena che si riesce ad incanalare dall’alto (per es. fino al ginocchio), sempre dopo legatura e sezione della crosse; safenctomia breve o stripping corto.
Si demanda poi l’eliminazione delle varici della gamba alla sc1ero­terapia, senza fare ulteriori incisioni chirurgiche.
Questa metodica è piuttosto usata nei paesi del centro Europa dove più che da noi esiste stretta collaborazione tra chirurgia e scleroterapia. Le due possibilità terapeutiche sono viste come complementari cosicché anche quando non sia la stessa persona, come sarebbe l’ideale, l’esecutore di una completa perfetta toelette flebologica, si può constatare la collaborazione di centri medici e chirurgici. Essi inviano gli uni agli altri, i pazienti senza che si avverta affatto quel senso di “contrapposizione” o conflittualità che sembra a volte esistere in Italia tra l’indirizzo chirurgico e quello scleroterapico.

Safenectomia totale esterna
L ‘incisione a monte è eseguita nel cavo popliteo per lo più ad S per non avere retrazioni cicatriziali: si isola, si seziona e si lega la piccola safena allo sbocco nella vena popletea, l’incisione a valle è dietro il malleolo esterno. Un apposito stripper più corto permette l’estrazione di questa safena.
Le due safenctomie possono avvenire contemporaneamente nello stesso paziente. Prima di entrambi gli interventi il chirurgo provvede personalmente a disegnare con apposita matita dermografica le varici del paziente e dopo ad applicare un bendaggio elastico contentivo.
È bene che il paziente si alzi e cammini al più presto, di solito nel pomeriggio del giorno stesso, e può essere dimesso dopo pochi giorni di degenza.

Ernesta Galgano -angiologa
pubblicazione del 1984

NATURA E VENE

PERCHE’ COMPARE QUESTO DISTURBO CIRCOLATORIO 

Nell’evoluzione dell’uomo un punto nodale importante è stato il passaggio alla stazione eretta e la progressiva riduzione dell’utilizzazione delle gambe per spostarsi. Esiste un legame stretto fra l’uomo e il cavallo in relazione all’insufficienza venosa; il cavallo è l’unico degli animali domestici a soffrire di vene varicose, l’uomo cominciò a soffrire di questa malattia con l’andare a cavallo in relazione proprio alle prolungate cavalcate e conseguenti traumatismi sul decorso della safena su gambe penzoloni non correttamente utilizzate.
Dopo il cavallo, l’uso dei moderni mezzi di trasporto fino a quelli attuali, ha contribuito a mettere sempre più in “disuso” le gambe. Il ritorno del sangue venoso verso il cuore é regolato da diversi meccanismi che sono:
- presenza di valvole lungo il decorso venoso che impedisce il reflusso
- funzioni di pompa spremitrice svolta, durante la deambulazione, da diversi meccanismi:
- suola plantare di Lejars
- pompa muscolare del polpaccio
- sincronismo degli arti respiratori .
Le valvole venose da sole non sono sufficienti, gli altri meccanismi si attivano con il semplice camminare. Una predisposizione familiare associata alla sedentarietà é sufficiente perché si manifesti l’insufficienza venosa.

SI PUO’ PREVENIRE
Un’attenta valutazione dei fattori predisponenti e dei fattori di rischio nel corso di una visita flebologica con eventuale esplorazione Doppler del circolo venoso permettono un inquadramento diagnostico corretto, fondamentale per una appropriata indicazione alle norme igienico comportamentali ed alle eventuali prescrizioni di terapie mediche ed elastocontenitive (calze elastiche ).
Forme iniziali di insufficienza venosa se ben trattate possono non evolvere nella malattia vera e propria.

QUALI SONO LE CURE NATURALI
Trattandosi di una malattia antica quanto l’uomo, fin dall’inizio sono stati ricercati in natura i rimedi per alleviare le sofferenze legate alle vene varicose.
Una delle più antiche osservazioni riguarda l’IPPOCASTANO o castagna del cavallo che veniva somministrata dagli antichi cavalieri Sciiti ai propri cavalli per alleviarne i disturbi legati alle vene varicose con risultati sorprendenti. Nell’ippocastano sono contenuti principi attivi quali l’ESCINA e gli ANTOCIANOSIDI che hanno proprietà antinfiammatorie capillaroprotettrici e aumentano il tono venoso.
Questi stessi prodotti sono presenti in grandi quantità anche in altri vegetali quali: MIRTILLO,vite rossa, arnica montana.
Un’altra pianta esotica flebologicamente importante è la CENTELLA ASIATICA ricca di sostanze beneficamente attive sul tessuto connettivo che è l’impalcatura di molti organi ed anche delle vene e delle sur valvole.
Trova impiego locale, assieme alla CALENDULA, per il trattamento delle lesioni cutanee preulcerose e ulcerose. Da sola o in associazione agli altri principi attivi nel trattamento dell’insufficienza venosa.
Il MELILOTO, una piana della famiglia del trifoglio contiene sostanze ad azione anticoagulante e trova impiego in caso di varici con rischio tromboflebitico.
Anche la medicina OMEOPATICA ha prodotto ottimi preparati a partire da vegetali come HAMAMELIS, IPPOCASTANO, IDRASTE, sia per uso locale che generale.
Nella medicina tradizionale esistono numerosi preparati con i principi attivi suddetti, in formulazione singola o variamente associati a seconda delle funzioni prevalenti richieste.
Ad esempio i preparati a base di MIRTILLO sono utilizzati prevalentemente per la funzione capillariprotettrice anche in oculistica.

I RISULTATI DELLE CURE
Le varie cure in via generale, si possono paragonare a delle armi a disposizione con obbiettivi precisi e diversi.
Se vogliamo colpire ad esempio una zanzara, non ci verrà in mente di usare un cannone, allo stesso modo non ci si difende da uno squalo con un retino da pesci rossi.
Ugualmente nella malattia varicosa se si tratta di forme iniziali o di sintomi stagionali di una insufficienza venosa cronica, l’obbiettivo che ci prefiggiamo con la terapia medica è quello di alleviare i sintomi (pesantezza, gonfiore, crampi notturni) senza la pretesa di far scomparire grosse vene varicose per il trattamento delle quali ci sono armi ben più efficaci. Quindi la terapia medica trova utile e razionale impiego nel trattamento conservativo in associazione alle norme igienico comportamentali ed all’eventuale “calza elastica” nonché a complemento di trattamenti radicali chirurgico e scleroterapico.

EFFETTI COLLATERALI
Proprio per l’estrazione naturale, sia i preparati purificati industrialmente, sia le formulazioni di erboristeria che i prodotti omeopatici, sono ben tollerati e non presentano effetti collaterali.
Comunque, in via generale, é preferibile assumere i prodotti dietro consiglio medico anche e soprattutto per non coltivare eccessive aspettative in relazione al problema che si presenta.

ANCHE IN CASO DI EMORROIDI
Le emorroidi non sono altro che vene varicose di quella parte del nostro corpo e quindi come tali rispondono, alle dosi consigliate, alle terapie mediche naturali ed omeopatiche locali o per via generale, in egual modo.

CONCLUDENDO
In un mondo sempre più in allontanamento dalla natura, seguendo anche il principio del PRIMO NON NUOCERE, ove ci sia l’indicazione e con gli obbietivi e le aspettative ragionevoli, perché non ricercare ed utilizzare gli strumenti che il mondo della natura mette a disposizione dell’uomo per alleviare alcuni dei suoi mali?

Pietrino Forfori -flebologo

pubblicazione del 1997

ULCERE VENOSE DEGLI ARTI INFERIORI

Studi epidemiologici recenti rivelano che l’l-2 % della popolazione adulta sia colpita da questa complicazione dell’insufficienza venosa con un rapporto maschi femmine di l a 3. Tradotto in cifre reali significa che per 100.000 abitanti circa 2000 (500 uomini e 1500 donne) soffrano di ulcere venose. 

Rapportato alle città e paesi questi numeri variano anche a seconda dell’età media della popolazione e cioè il numero delle persone interessate da questa patologia aumenta nelle città con maggior numero di abitanti anziani.
Quali sono i soggetti a rischio
I pazienti con insufficienza venosa cronica secondaria a:
- pregresse tromboflebiti profonde
la tromboflebite profonda lascia nella maggior parte dei casi una situazione di ricanalizzazione della vena interessata dal processo trombotico, con perdita però della funzione di contenimento delle valvole e quindi di permanente reflusso (SPF sindrome post flebitica).
Questa situazione emodinamica se non trattata adeguatamente può condurre alla complicazione ulcerosa.
- insufficienza venosa varicosa da reflusso su:
*safena anteriore
*safena posteriore
*vene perforanti
Anche le cosiddette “vene varicose” che pure nella maggior parte dei casi evolvono senza dare sintomatologia eclatante, possono portare ad un grado di reflusso e di ipertensione venosa tali da causare lesioni cutanee preulcerose e ulcerose.
Quali sono i segni premonitori
- edema agli arti inferiori
La presenza del gonfiore all’estremità di un arto, più accentuata la sera o dopo un periodo di stazione eretta (abbastanza caratteristico il gonfiore che compare dopo una o due ore trascorse stirando), deve indurre a pensare ad una situazione di insufficienza venosa da definire correttamente con una visita flebologica ed esame doppler;
- presenza di discromie cutanee
L’insufficienza venosa cronica e l’ipertensione venosa che ne consegue, determinano la fuoriuscita di elementi corpuscolati dal letto circolatorio nell’epidermide ed il loro accumulo porta a quelle alterazioni del colore e della struttura della cute che diventa scura, poco elastica e sclerotica.
Come si curano
Le ulcere venose sono guarite non quando si chiudono, ma quando non si riaprono.
La cicatrizzazione quindi della lesione ulcerosa è un obiettivo importante ma non il solo obiettivo.
Per un corretto trattamento bisogna mirare ai seguenti obiettivi:
- detersione della superficie per la rimozione di eventuali detriti necrotici e residui della medicazione precedente;
- asepsi cioè impedire l’infezione batterica non con l’uso di antibiotici locali, quasi mai utili, anzi spesso nocivi, ma con una corretta medicazione con antisettici e, solo in casi selezionati di vera ulcera infetta, con antibiotici per via sistemica;
- processo riparativo: favorire una buona epitelizzazione con prodotti da applicare localmente e provvedimenti terapeutici generali;
- trattamento dell’ insufficienza venosa; molte ulcere non guariscono completamente fino a che non venga trattata correttamente la causa della stasi venosa. Molti presidi in commercio se pur validissimi, se usati singolarmente e non nel complesso possono risultare inutili.
Il cardine resta il quarto punto e cioè il trattamento dell’insufficienza venosa.
In presenza di ulcera venosa il metodo più efficace per una rapida guarigione rimane il bendaggio.

 

Bendaggio
Esistono vari tipi di bendaggio in relazione a:
Elasticità della benda
- anelastiche o rigide
- corto allungamento
- medio allungamento
- lungo allungamento
Bendaggio fisso
viene mantenuto giorno e notte per un periodo variabile di giorni;
Bendaggio mobile
la benda elastica, mantenuta in sede durante le ore di attività, viene rimossa nelle ore di riposo (di notte).
Gli orientamenti attuali sono per un bendaggio misto multistrato adattato di volta in volta alle diverse situazioni cliniche generali o locali incontrate.
Nella mia esperienza ottengo soddisfacenti risultati con:
- bendaggio all’ossido di zinco e/o ittiolo
- bendaggio elasto-adesivo fisso
- terapia medica di supporto

I tempi di guarigione
Esistono pazienti che mantengono in attività ulcere, magari ben deterse e non infette, per diversi mesi ed anni. Un’ulcera che non guarisce in sei mesi, se trattata correttamente, si dice “ucera difficile” ed in genere riconosce più cause oltre la stasi venose.
Nella mia esperienza in capo a due tre mesi di trattamento, l’ulcera giunge a guarigione.
Come espresso all’inizio, una volta che l’ulcera é guarita, bisogna mettere in atto provvedimenti terapeutici che impediscano che recidivi.

Come si previene la recidiva
Con il trattamento dell’insufficienza venosa e cioè con:
trattamenti conservativi
- adeguata calza elastica
trattamenti radicali
- scleroterapia
Nella maggior parte dei casi di insufficienza venosa varicosa non post flebitica profonda, la scleroterapia ben condotta risolve la stasi venosa.
Esistono cure naturali per le ulcere?
Molti prodotti di estrazione naturale intervengono nei processi di riparazione della lesione cutanea e nella cura del microcircolo e, recenti studi stanno vagliando nuovi prodotti naturali con risultati preliminari incoraggianti.
Resta inteso che il cardine della terapia delle ulcere di origine venosa rimane il trattamento dell’insufficienza venosa cronica.

Pietrino FORFORI -flebologo
pubblicazione del 1998

EPISTASSI

Normalmente nel caso tipico di emorragia dei capillari del setto nasale ( causa tipica, “epistassi anteriore”) è sufficiente l’applicazione di freddo locale (ghiaccio) ed una pressione del naso tra due dita per il tempo cosiddetto” di emorragia”, in media due minuti, per arrestare il fenomeno.
Non far coricare il paziente (aumenterebbe la pressione nel capo), è meglio mantenerlo seduto.
L’epistassi può essere segno di esordio di una ipertensiome arteriosa o di una malattia del sangue misconosciuta.
Nell’adulto, in carenza di cause riconoscibili, consultare sempre il medico.

Ferrari C.
Pubblicazione del 1991

CHE COSA E’ L’ANGIOLOGIA

Il sangue si distingue in arterioso e venoso: il sangue arterioso è ricco di ossigeno, ilvenoso ne è molto povero perchè è quello che ritorna dalla periferia (tutti i nostri organi e tessuti) verso il centro (il cuore), dopo avere ceduto ad ogni cellula l’energia necessaria per «vivere e lavorare».

Infatti ogni cellula del nostro organismo vive, si moltiplica e lavora perchè in essa avvengono, a seconda del tipo, diverse reazioni chimiche come in un perfettissimo laboratorio dove tutto deve funzionare in modo ottimale e continuo.
Le materie prime e l’energia sono portate alla periferia dal sangue arterioso contenuto nelle arterie che partono dal cuore e che si assottigliano sempre più fino a divenire piccoli vasi con parete molto sottile detti capillari: a questo livello avvengono gli scambi sangue tessuti nei due sensi.
Il sangue si impoverisce di ossigeno, cede le sostanze necessarie e si carica di «rifiuti», detti in termine medico «cataboliti».
Questo tipo di sangue per ritornare al cuore è convogliato in vasi prima più piccoli detti venule e poi man mano più grandi: vene.
Anche nel cuore questi due tipi di sangue sono nettamente distinti nella parte destra (Atrio e Ventricolo) è contenuto sangue venoso nella parte sinistra (atrio e ventricolo) sangue arterioso.
Quella descritta fin qui è la grande circolazione quella cioè che dal cuore porta sangue ossigenato a tutte le cellule e di qui ritorna quello che deve essere riossigenato.
Nelle vene, al sangue contenuto, si aggiunge, ad un certo punto di questo circuito, la linfa portata da collettori particolari detti vasi linfatici; la linfa è un liquido drenato dalla periferia non contiene globuli rossi ed è biancastro.
I vasi linfatici più periferici sono sottilissimi, (quasi come un capello), cominciano a fondo cieco e portandosi verso il centro aumentano di volume; essi devono interrompersi più volte in stazioni intermedie formate da Linfonodi.
Per completare questo discorso sulla circolazione è bene dire, pur senza precisarne i dettagli, che nel nostro organismo esistono due altre fondamentali «circolazioni»: la piccola circolazione dove il sangue viene portato dal cuore destro ai polmoni e da questi ritorna al cuore sinistro dopo che, attraverso, la sottilissima parete alveolare sono avvenuti gli scambi sangue-aria; e la circolazione portale quella che drena il sangue dall’intestino e lo porta ad essere filtrato ed elaborato dal fegato prima di gettarlo nelle vene che tornano al cuore.
Lo specialista angiologo si occupa in modo particolare della grande circolazione ed in modo specifico dei vasi nella quale essa deve avvenire cosicchè si distinguono diverse patologie di sua stretta pertinenza:
Le Arteriopatie: malattie delle arterie.
Le Flebopatie: malattie delle vene.
Le Linfopatie: malattie dei vasi linfatici.

Galgano Ernesta -angiologo
pubblicazione del 1983

VENE: UN PROBLEMA DELL’ESTATE

Naturalmente questa particolarità della fisiologia umana non si applica quando un soggetto é immobile e sdraiato, posizione nella quale si passa un terzo della propria vita. Nei restanti due terzi della vita la posizione assunta é quella verticale, che mette in evidenza la differenza fra soggetto sano in movimento e soggetto con problemi di circolazione venosa.

Lo sviluppo di una insufficienza venosa dipende in gran parte dalle condizioni di vita e da fattori predisponenti, quali, ad esempio, le professioni che richiedono una stazione eretta prolungata.
Il clima ha un significato determinante come quando il caldo provoca vasodilatazione, cioé aumento del calibro delle vene: possono essere evidenziati dapprima disturbi fastidiosi quali pesantezza delle gambe, inestetismi cutanei tipo capillari e piccole varicosità e poi, disturbi francamente patologici, cioé la vera e propria malattia varicosa.
Vediamo brevemente alcuni consigli:
regime alimentare:
 non esistono particolari regimi dietetici, ma bisogna combattere l’obesità ed evitare aumenti improvvisi di peso corporeo ed eccessi alimentari, eliminando vino, liquori, caffè;
abbigliamento: vestiti e guaine troppo strette possono provocare disturbi venosi e fragilità capillare, come pure scarpe troppo strette e con tacchi o troppo bassi o troppo alti;
fonti di calore: l’esposizione prolungata al sole, in posizione immobile é molto dannosa, pertanto é necessario muoversi e proteggere gli arti inferiori, come pure sono dannose cerette troppo calde e raggi ultravioletti abbronzanti.
La prevenzione si attua anche combattendo i primi sintomi, quali pesantezza degli arti inferiori e fragilità capillare. Un ruolo molto importante é dato dall’esercizio muscolare, in quanto la forza compressiva dei muscoli aiuta il meccanismo di pompa che favorisce il ritorno del sangue al cuore, evitando il ristagno nei grossi vasi delle gambe, con conseguente malattia varicosa.

Prevenzione:sport, quali nuoto, marcia, ciclismo, pattinaggio, esercizio ginnico con flessioni sulle ginocchia e la punta dei piedi, yoga, bagni e docce tiepide, durante la notte posizionare le gambe leggermente più alte del resto del corpo, massaggi dolci e graduali.

Prevenzione e cura da attuare da parte del medico:
compressione, molto importante nella terapia flebologica, attuata con bende elastiche adesive o non adesive, applicate a lisca di pesce, dalle dita del piede fino alla coscia, assicurando una compressione uniforme; bende all’ossido di zinco, da usare quando compaiono reazioni infiammatorie con edema e pelle eczematosa; calze elastiche, tipo i collant a diverso grado di contenzione; farmaci flebotonici, soprattutto a base di estratti vegetali come rutina, escina, flavonoidi; cure termali, tramite bagni completi con docce o idromassaggi.
Questa breve rassegna di trattamenti preventivi naturalmente non permette di evitare la comparsa di gravi disturbi della circolazione venosa: é importante in ogni caso consultare il medico e attenersi a una vita sana con molto movimento e pasti regolari.
Infine, la prevenzione va attuata tutto l’anno, non solo quando l’estate fa sentire le gambe più pesanti o aumentano i capillari per l’eccessiva esposizione al sole.

Angelo BARONE -chirurgo plastico
pubblicazione del 2000

CELLULE STAMINALI DEL CORDONE OMBELICALE

D’altra parte Ie cellule staminali del cordone ombelicale rappresentano una formidabile alternativa al trapianto di midollo osseo e ad oggi sono più di 75 Ie patologie che vengono affrontate con il loro utilizzo: non solo nell’ambito delle più gravi patologie del sangue, ma anche per i tumori solidi, la riparazione e ricostruzione dei tessuti, iL diabete infantile e molte altre malattie. L’elenco è sicuramente destinato ad allungarsi sia per I’eccezionale plasticità cellulare che caratterizza Ie staminali del cordone ombelicale, sia per la velocità con cui, per fortuna, progredisce la ricerca medica scientifica.

Crylogit-Regener è il nome dell’ Azienda italiana leader nella crioconservazione delle cellule staminali del cordone ombelicale, e offre la possibilità di ricevere il kit a casa, dopo aver compilato il modulo di richiesta, scrivendo a info@crylogiUt o scaricabile direttamente dal site http://www.crylogiUt .oppure possono essere richieste informazioni al numero verde 800 128 393.
“Oggi, dice Claudio Lotti, amministratore unico di Crylogit-Regener, Ie donne hanno in mano un potere importante, di cui spesso non sono consapevoli: salvare dalla pattumiera il cordone ombelicale al momento del parto e decidere per la crioconservazione autologa (cioè ad uso proprio/familiare) delle cellule staminali contenute nel sangue del cordone stesso. In questa modo ogni mamma ha il potere di non delegare in merito alla salute del figlio e creare una sorta di assicurazione biologica anche per il resto della famiglia”. Conservare Ie staminali del “proprio” cordone ombelicale oggi costa poco ma soprattutto, finalmente, è possibiIe farlo con società italiane, che finanziano progetti di ricerca sviluppati per intero in centri ospedalieri ed universitari d’eccellenza del nostro paese; la possibilità invece della donazione, in una “banca pubblica”, purtroppo si scontra tuttora, quotidianamente, con I’incapacità degli ospedali di garantire la raccolta del cordone e la corretta conservazione delle cellule.

Autore: Dr. Aldo Franco DE ROSE Specialista Andrologo e Urologo Genova
aldofdr@libero.it
Pubblicazione giugno 2010