admin

TUMORE DELLA MAMMELLA

l’età: con l’aumentare dell’età il rischio aumenta; 

gli ormoni: fino ad oggi numerosi studi hanno dimostrato una stretta correlazione tra
l’insorgenza del tumore del seno e gli ormoni femminili. I casi di malattia aumentano con l’età anche per effetto della prolungata esposizione agli ormoni prodotti dall’ovaio prima della menopausa. Le donne con vita fertile più lunga sono più a rischio sia nel caso di Prima mestruazione precoce, sia in quello di menopausa tardiva;
la familiarità: è ipotizzabile un aumento del rischio quando in famiglia vi sono casi di tumore del seno in parenti prossimi (madre, sorella, nonna, zia) sia da parte materna che patema;
la predisposizione genetica: in presenza di una forte familiarità di casi di tumore dell’ovaio e del seno, si può sospettare la presenza di predisposizione genetica, in molti casi sono disponibili anche test;
la nulliparità: il numero delle gravidanze può influire sul tumore del seno. Maggiore è il numero delle gravidanze, minore è il rischio. Anche l’età della prima gravidanza è influente: una gravidanza prima dei 30-35 anni sembra proteggere dal rischio di tumore al seno;
un precedente carcinoma della mammella aumenta le probabilità di recidive alla stessa o all’altra mammella;
l‘obesità: la tendenza ad ingrassare, specialmente dopo la menopausa può costituire fattore di rischio;
la dieta: un eccesso di calorie aumenta il rischio.

Segni
Nodulo mammario: è il segno iniziale più frequente (80%). Si presenta duro rispetto alla normale consistenza della mammella e quasi sempre non dolente.
Altri segni (presenti in fase avanzata di malattia): cute con caratteristiche che ricordano la buccia d’arancia, retrazione del capezzolo, indurimento della mammella, noduli ascellari.

Professor Rivelli, come si previene il tumore alla mammella?
“Purtroppo non esiste ancora la prevenzione primaria per il tumore del seno, perché non esiste un solo fattore di rischio che sia fortemente associato alla malattia. Attualmente risultati incoraggianti sono stati raggiunti attraverso la chemioprevenzione che consiste nell’utilizzo di sostanze naturali o farmacologiche con lo scopo di impedire o rallentare la comparsa del tumore. Esistono tuttavia alcuni comportamenti di vita e individuali che possono aiutare l’organismo a proteggersi”.

Quali sono?
“Sforzarsi di seguire un’ alimentazione ricca di frutta e verdura fresca, soia, cereali non raffinati e legumi, associata ad una costante attività fisica, specialmente in menopausa”.

Una donna attenta al suo corpo quali esami dovrebbe fare per una diagnosi precoce?
“Per iniziare è bene che si sottoponga ad una visita clinica annuale dopo i 25 anni, poi è necessaria una mammografia, per la prima volta a 40 anni e successivamente con cadenza annuale. Su parere del medico, prima dei 40 anni, potrebbe esserle richiesta un’ecografia e per finire è indispensabile che effettui una regolare autopalpazione”.

Il primo rilievo é volto all’aspetto generale delle mammelle: davanti allo specchio, in ambiente ben illuminato e rilassate se ne verificano la forma, il volume e la superficie. L’esplorazione vera e propria si effettua in posizione supina, con un cuscino sotto la spalla corrispondente alla mammella da esplorare e il braccio della stessa parte piegato sotto la testa sempre in posizione supima, la mammella verrà palpata in modo leggero,senza lasciare inesplorata nessuna parte, peartendo dal margine ascellare verso il capezzolo. A braccio alzato, ben teso, manovra che permette di evidenziare il solco sottomammario, la mammella verrà palpata dalla sterno a capezzolo.
La palpazione si estenderà dalla clavicola al solco sottomammario. La donna che si autoesplora deve inparare a distingure le formazioni ghiandolari normali da eventuali formazioni estranee. Sempre in posizione supina, si procede alla palpazione della superficie esterna della mammella, tenendo però il braccio teso lungo il fianco.
Un’ autoesplorazione efficace richiede una certa esperienza che ogni donna può conseguire in pochi mesi di pratica. L’autoesplorazione si conclude spremendo fra pollice e indice il capezzolo. Ogni anomalia riscontrata deve essere riferita immediatamente al medico.

Prevenzione e Salute
Prof. Rivelli D. F.
Pubblicazione Aprile 2004

IPERPROLATTINEMIA

Una concezione più marcatamente olistica tende, al contrario, ad individuare in una complessità di fattori il passaggio dallo stato di salute a quello di malattia. Nella visione positivista la domanda che il terapeuta fa la paziente (che d’ora innanzi chiamerò cliente) é “dove ha male?” invece di “Cosa sente?” (M.Foucault, 1968). Noi assumiamo l’idea guida che il terapeuta stesso co­costruisce la realtà insieme al suo cliente e che” … gli esiti stessi della situazione terapeutica sono il risultato di un processo a cui terapeuta e paziente contribuiscono entrambi, costruendo un sistema coevolutivo” (L. Onnis, 1993). 

Fatta questa breve premessa, possiamo ora definire in modo più comprensibile il
significato relazionale che può assumere un disturbo quale la iperprolattinemia. La prolattina é l’ormone responsabile del latte materno al termine del periodo di gestazione. Talvolta accade che la sua iperproduzione avvenga in periodi diversi da quello della gestazione provocando una serie di disturbi (amenorrea, glattorrea, ecc.).
Ovviamente é necessario effettuare tutti gli accertamenti clinici del caso per valutare se non vi sia un tumore dell’ipofisi. Accade però che in certi casi, non essendoci segni “organici”, si pensi ad una diagnosi differenziale su base psicogena. E’ questo il caso di una cliente da me seguita, insieme all’équipe di coterapeuti, in cui si chiedeva la consulenza psicologica per un disturbo di iperprolattinemia che tendeva a cronicizzare nonostante un lungo trattamento farmacologico. La cliente era stata inviata al nostro studio dalla ginecologa che la seguiva e che aveva fatto gli accertamenti diagnostici del caso, che avevano escluso un tumore o altre implicazioni organiche. Dal colloquio emergeva una storia di sofferenza per il distacco dalla famiglia in cui parti della storia famigliare, incomprensione tra i genitori, pesavano sulla lontananza dalla figlia. In effetti il sintomo aveva fatto la sua comparsa al momento della separazione abitativa legata al matrimonio della cliente.
Da quel momento le richieste di presenza presso la casa dei genitori si erano fatte pressanti e colpevolizzanti ogni molta che la figlia non poteva corrispondere al desiderio dei suoi genitori. La cliente stessa era consapevole, già dal primo colloquio, della connessione tra il sentimento di colpa che le suscitava la lontananza dai suoi e la manifestazione del disturbo. Sono state necessarie 13 sedute, distanziate di 15-20 giorni, per permettere l’esplorazione di tutte le implicazioni relazionali del sintomo e permettere la risoluzione del conflitto. Ovviamente per necessità di spazio tralascio la descrizione delle ipotesi dell’équipe terapeutica e della descrizione dei “miti” presenti nella famiglia di origine della cliente. Ricordo soltanto che quest’ultima rappresentava per il suo nucleo familiare la depositaria del sistema comunicazionale tra l’asse maschile, rappresentato dal padre e dal fratello maggiore, e l’asse femminile (madre e cliente stessa).
Questo intreccio relazionale aveva rappresentato per la cliente un vero e proprio ostacolo evolutivo che nel momento della separazione del nucleo familiare si era manifestato con tutta la sua “carica emozionale”.
L’utilizzo dello spazio terapeutico aveva fatto sì che si creasse la condizione per una riflessione sulle tematiche conflittuali permettendo un’uscita dal sintomo. Un controllo a distanza di 5 mesi, dall’ultima seduta, aveva confermato l’esito positivo della terapia.
I fattori individuati come maggiormente significativi per il buon andamento del trattamento sono stati:
1- Un inviante autorevole che ha saputo cogliere la necessità di valorizzare altre vie di terapia;
2- Una forte motivazione della cliente.
3- Un sistema terapeutico capace di cogliere i significati più ampi del sintomo.

Sergio Sabatini
Psicologo – Psicoterapeuta
Pubblicazione giugno 1997

VULVOVAGINITI GRAVIDICHE

La leucorrea è un sintomo che compare molto frequentemente durante la gravidanza e, entro certi limiti, può essere considerato un evento fisiologico mancando la sovrapposizione di germi patogeni. Il problema fondamentale che spesso si pone è il riconoscimento precoce del limite di demarcazione tra la normalità e la situazione francamente patologica. 

La vagina possiede una notevole capacità di difesa contro le differenti noxae, basata principalmente sulla acidità ambientai e (pH intor­no ai 3,5-4,7) e sulla presenza del bacillo di Doderlein. Entrambi i fattori sono strettamente dipendenti dalla quantità di glicogeno presente nell’epitelio vaginale che a sua volta è correlato al tasso di estrogeni circolanti.

L’influsso degli estrogeni
Al di fuori dello stato gravidico, durante un ciclo mestruale normale l’influsso degli estrogeni sulle cellule vaginali, altamente differenziate in senso acidofilo, fa sì che queste reagiscano scarsamente alla presenza di miceti; al contrario nella seconda metà del ciclo si creano situazioni particolari che rendono le cellule epiteliali vaginali più sensibili all’attacco dei miceti in relazione all’azione del progesterone. È noto inoltre che il pregnandiolo stimola in vitro la crescita della candida albicans.
Durante la gravidanza si assiste a una ipertrofia della mucosa vaginale a opera del mutato equilibrio endocrino, in grado di indurre un aumento dello spessore che può raggiungere il valore di cinquecento micron. Tale processo coinvolge principalmente le cellule dello strato intermedio dove si riscontra un tale accumulo di glicogeno da determinare spesso la citolisi.
Questo fatto determina una abbondante proliferazione microbica soprattutto del bacillo di Doderlein che trasforma il glicogeno liberato in acido lattico impedendo teoricamente lo sviluppo di altri ceppi patogeni. Oltre un certo limite però il pH, che inizialmente subisce un abbassamento, tende al contrario a salire, le difese vaginali vengono meno a un’infezione sino ad allora latente, si può manifestare clinicamente. A tal proposito la comparsa di sintomatologia soggettiva caratterizzata da prurito, bruciori dipendenti dalla presenza di acetaldeide, acido acetico e acido piruvico, tutti derivanti dalla fermentazione dei carboidrati, rappresenta certamente il passaggio dalla leucorrea fisiologica a una su base flogistica.

L’esame batteriologico
Per quanto riguarda la frequenza con cui i vari agenti patogeni si rendono responsabili della vulvo-vaginite gravidica, la tabella mostra le differenti percentuali. Dai dati espressi è possibile attribuire alla candida albicans la maggiore responsabilità nella patogenesi di queste forme infiammatorie.
La maggior parte delle vaginiti in gravidanza è infatti provocata da tale microrganismo e frequentemente la diagnosi clinica è facilitata dalla comparsa di perdita di colore biancastro con aspetto cremoso e spesso dalla contemporanea presenza di un alone eritematso simmetrico sulla vulva e alla radice delle cosce (epidermofizia inguinale) .
Dato però che la diagnosi clinica non sempre è agevole per ciò che riguarda l’identificazione dell’agente causale, è opportuno effettuare l’esame batteriologico del secreto vaginale al fine di instaurare una terapia mirata. Infatti se all’esame cito batterio logico non sono presenti germi patogeni, ma semplicemente cellule vaginali, leucociti, bacilli di Doderlin anche in numero elevato e germi saprofiti in numero moderato, la terapia sarebbe inutile se non addirittura controproducente.
Anche il trichomonas vaginalis è spesso chiamato in causa pur se con frequenza nettamente inferiore rispetto alla candida albicans alla quale peraltro spesso si associa nel determinismo delle flogosi vaginali gravidiche. Per ciò che riguarda i germi banali possono essere ricordati i colibacilli, gli enterococchi, gli streptococchi e numerosi altri. Va detto che in questi casi spesso coesiste una cervicite che è in grado di influenzare negativamente l’andamento della vaginite al punto che, se non curate, si può stabilire un circolo vizioso.
Una volta effettuata la diagnosi etiologica è fondamentale impostare quanto prima la terapia al fine di evitare possibili risalite dell’infezione all’interno della cavità uterina. Va infatti ricordata la possibilità di endometrite post partum soprattutto se si sono rese necessarie manovre strumentali durante l’espletamento del parto, e non è infrequente che alcune diastasi di episiorafie siano dovute alla colonizzazione della sutura da parte di agenti patogeni presenti in vagina e non trattati convenientemente.

I farmaci attivi
Per ciò che rigarda le sostanze terapeuticamente attive, esse sono esattamente le medesime impiegate al di fuori della gravidanza. Particolarmente attivi il cotrimazolo e l’econazolo in caso di vaginiti da candida e l’imidazolo in caso di infestazione da trichomonas vaginalis.
Da ultimo va ricordato che la terapia deve essere effettuata anche sul partner maschile al fine di evitare continue e fastidiose recidive, già di per sé frequenti, spesso ribelli alle terapie.

 

Frequenza relativa ai differenti germi nell’ezimologia della vulvo-vaginite gravidica

Trichomonas

22,9%

Candida

39.2%

Trichomonas + candida

15,3%

Germi banali

7.6%

Leucorrea fisiologica

15,4%

Da Pearl e Walter, statistica effettuata presso il Mount Sinai Hospital

 

Giampaolo Garrone
Divisione di Ostetricia e
Ginecologia dell’ ospedale di Seregno
da: ‘Corriere Medico’ 24-25/X/81
Pubblicazione Febbraio 1985

SENOLOGIA

Il seno è sempre stato, comunque, un elemento essenziale della bellezza femminile, celebrato in tutte le età da pittori e scultori. Oggi si assiste certamente a un apprezzamento esagerato della desiderabilità di un seno voluminoso, rispetto alle altre parti del corpo, con notevoli implicazioni psicologiche in caso di deformità o scarso volume.

ASPETTI DI ANATOMIA E FISIOLOGIA DELLA MAMMELLA
Nelle donne le mammelle contengono una quantità variabile di tessuto adiposo: ciò determina una grande variabilità nella grandezza delle mammelle e nella posizione dei capezzoli.
Per questo il capezzolo non può essere assunto come punto di riferimento anatomico. Usualmente nella donna la mammella è situata in una area compresa tra la terza e la sesta costa. In caso di obesità, nell’ipertrofia mammaria (ad esempio durante l’allattamento) e nell’età avanzata (per perdita dell’elasticità dei tessuti ed atrofia del tessuto ghiandolare) la mammella scende al disotto dei limiti descritti.
Nelle giovani donne magre, il capezzolo, circondato dall’areala, è situato poco sopra il quarto spazio intercostale, approssimativamente in corrispondenza della linea emiclaveare. In caso di obesità e nelle donne anziane il capezzolo è dislocato più in basso. Nella donna un aumento del volume delle mammelle si ha, in condizioni fisiologiche, nella pubertà, nella gravidanza e durante l’allattamento.
Lieve aumento di volume, con sensazioni di tensione dolorosa, è avvertito in fase pre-mestruale.
Un aumento del volume delle mammelle, accompagnato a dolorosità, si riscontra in alcuni giovani di sesso maschile durante la pubertà: in questi soggetti la ginecomastia scompare dopo la pubertà.
Giovani donne normali possono presentare sia dall’adolescenza un abnorme sviluppo della grandezza di entrambe o di una sola mammella, sviluppo che si accentua ulteriormente in corso di gravidanza: non è noto se in questi casi siano in gioco fattori ormonali o una particolare reattività tessutale.
Un ritardo nello sviluppo delle mammelle si ha nella maturazione sessuale ritardata. Uno sviluppo prematuro delle mammelle in bambine di 9-10 anni, in assenza di altri segni di maturazione sessuale, è piuttosto frequente e non riveste significato patologico. Lo sviluppo è usualmente bilaterale ma in qualche caso appare monolateralmente.
Normalmente le mammelle e i capezzoli sono simmetrici; occasionalmente, anche in assenza di malattie, può esservi una lieve asimmetria di volume e di posizione.
In alcuni casi sono presenti isole di tessuto . ghiandolare aberrante, della grandezza di pochi centimetri di diametro, in posizione laterale rispetto alla ghiandola mammaria verso l’ascella.
Le cause più frequenti di asimmetria sono rappresentate dalla scoliosi spinale e dalle altre condizioni con deformazione della gabbia toracica.
In questi casi una mammella scende più in basso della controlaterale.
Nella grande maggioranza delle donne i capezzoli sono sporgenti; in alcune donne normali appaiono introflessi, ma si estroflettono comprimprimendo l’areola fra le dita.

ESAME FISICO E MORFOLOGICO DELLA MAMMELLA
La palpazione fornisce i dati essenziali per scoprire le principali affezioni che interessano la mammella. Devono essere valutati:
- CAPEZZOLO
- AREOLA
- QUATTRO QUADRANTI
Il capezzolo adulto consta di tessuto erettile ricoperto da cute pigmentata; all’apice o presso l’apice possono essere osservate le aperture dei dotti galattofori. Le areole attorno al capezzolo sono pure pigmentate e l’intensità del pigmento varia direttamente con il colorito scuro dei capelli della paziente. La pigmentazione è minore nei soggetti biondi, è invece aumentata nella gravidanza e nella insufficienza surrenale.
Ogni mammella può essere suddivisa in quattro quadranti, come un orologio al cui centro sia situato il capezzolo; l’esaminatore procedendo allora in senso orario ha a disposizione numerosi punti di riferimento per localizzare determinate lesioni.
CAPEZZOLO: va valutata la elasticità che, ad esempio, si perde precocemente nel carcinoma subareolare.
AREOLE: una lieve pressione può essere esercitata sulle zone areolari al fine di mettere in evidenza eventuali secreti normali o patologici.
GHIANDOLA MAMMARIA: la palpazione procede, come detto, a spirale, in senso orario, mentre la paziente si trova in posizione eretta e supina, con gli arti superiori prima liberi sui fianchi e poi elevati sopra la testa.
Occorre valutare alcune caratteristiche:
Consistenza ed Elasticità: l’aumento di consistenza e la perdita di elasticità suggeriscono una infiltrazione di natura flogistica o neoplastica del tessuto sottocutaneo.
Dolorabilità: è solitamente indizio di processo flogistico e talora di mastopatia cistica. E’ comune una dolenzia nel periodo precedente le mestruazioni, che fa parte del quadro di “tensione premestruale”. Le lesioni maligne sono raramente dolenti.
Presenza di Masse: la palpazione di eventuali masse consente di definire alcuni caratteri:
Sede: utile sistema di localizzazione è il quadrante orario adeguatamente applicato alla ghiandola mammaria.
Volume: va valutato possibilmente nelle tre dimensioni (lunghezza, ampiezza e spessore) al fine di stabilire l’evoluzione in senso progressivo o regressivo della massa.
Contorno: regolare (liscio) o irregolare.
Consistenza: molle, cedevole, moderatamente dura, dura, calcarea, a seconda che si tratti rispettivamente di lesione, di cisti, di processo flogistico o di neoplasia.
Dolorosità: come precedentemente detto, le mastiti sono dolenti e così pure, talora, le mastopatie cistiche; indolenti invece le lesioni maligne.
Mobilità: Occorre valutare la mobilità sui piani superficiali e profondi. la maggior parte delle lesioni benigne sono mobili; le alterazioni flogistiche sono meno mobili o moderatamente fisse. I processi maligni possono essere mobili nelle fasi precoci, ma sempre più fissi negli stadi successivi.
Il sopraelevamento delle braccia può consentire all’osservatore di completare l’ispezione delle mammelle alla ricerca di eventuali rientramenti cutanei. Infine, la palpazione·della ghiandola mammaria va sempre completata con l’esplorazione del relativo cavo ascellare e della regione sopraclavicolare.

MEZZI E METODI DIAGNOSTICI
La palpazione di un nodulo mammario è il metodo più semplice e importante per la rilevazione precoce di un tumore mammario.
La possibilità di cura di una neoplasia è determinata soprattutto da un fattore: la diagnosi più precoce possibile.
La diagnosi precoce consente di valutare la possibilità di procedere ad un intervento chirurgico meno demolitivo; inoltre, consente in molti casi di eseguire una ricostruzione del seno con buoni risultati estetici.
Nonostante la maggioranza delle donne sia consapevole che la diagnosi precoce aumenta la possibilità di guarigione e che l’autoesame del seno è il più semplice ed importante mezzo diagnostico, una indagine condotta in USA da Gallup (per conto della American Cancer Society) indica che meno del 20% delle donne esegue periodicamente l’autoesame del seno.
Un autoesame corretto si esegue ponendosi di fronte a uno specchio in posizione eretta, osservando accuratamente eventuali asimmetrie, infossamenti della cute o retrazioni dei capezzoli. Quindi, si passa alla palpazione delle mammelle, iniziando dal quadrante superiore esterno e procedendo medialmente e verso il basso. L’esame va poi ripetuto in posizione sdraiata. Dovrebbe essere eseguito alla stessa epoca di ogni mese, circa 10 giorni dopo l’inizio del periodo mestruale.

MAMMOGRAFIA
E’ il più importante strumento diagnostico in campo senologico, anche se messo spesso in discussione da molti ricercatori. Infatti, secondo le varie casistiche darebbe una accuratezza diagnostica intorno al 70-90%. Si dovrebbe eseguire dopo i 40 anni, con periodicità triennale. Superati i 50 anni la periodicità dovrebbe essere annuale.
Indicazioni per l’esecuzione immediata sono:
- sintomatologia mammaria di recente insorgenza;
- presenza di noduli;
- anamnesi famigliare
di tumore mammario;
- incertezza diagnostica dell’esame obiettivo;
Un particolare tipo di esame mammografico è la xeromammografia, dove l’immagine viene trasferita su carta.
La termografia si effettua in pochi minuti e non comporta l’esposizione a radiazioni.
Altri esami diagnostici:
- agobiopsia, cioè aspirazione, dopo puntura con ago sottile, di una massa mammaria, al fine di eseguire l’esame citologico del liquido e delle cellule aspirate;
- esame citologico di eventuali secrezioni di liquido dai capezzoli.

TERMOGRAFIA
Questa tecnica consente di ottenere una immagine fotografica delle emanazioni termiche (infrarosse) di ciascuna mammella. Dal momento che la maggior parte delle neoplasie determina un aumento del tasso metabolico, con incremento della temperatura del sangue venoso proveniente dal tumore, si può evidenziare un incremento della attività infrarossa alla superficie della mammella, che può essere registrata su una speciale pellicola termosensibile.

CHIRURGIA DELLA MAMMELLA
Prescindendo dagli interventi effettuati per finalità estetiche, le principali operazioni chirurgiche sulla mammella hanno lo scopo di:
- drenare o asportare cavità ascessuali;
- eseguire biopsie di tumefazioni che clinicamente hanno o potrebbero avere carattere di malignità;
- asportare parte della ghiandola e/o masse costituite da cisti, adenomi , fibromi, papillomi intraduttali, ecc.;
- essere il trattamento di elezioni di tumori maligni;
- essere un mezzo palliativo nella cura di tumori maligni;
- correggere la ginecomastia maschile.
In sintesi, gli interventi chirurgici più comunemente effettuati consistono in asportazioni parziali o totali dei diversi componenti anatomici mammari:
A) RESEZIONI PARZIALI:
- resezione parziale o segmentaria, cioè di una porzione di solo tessuto ghiandolare;
- mastectomia sottocutanea, ovvero asportazione di tutta la ghiandola mammaria con rispetto della parte tegumentaria soprastante, dell’areola e del capezzolo;
- quadrantectomia, cioè resezione parziale o segmentaria della ghiandola mammaria con la corrispondente porzione di cute;
B) RESEZIONI TOTALI:
- mastectomia semplice, mediante asportazione di tutta la ghiandola mammaria con la porzione di cute sovrastante e con rispetto dei muscoli pettorali e senza dissezione linfonodale;
- mastectomia parziale secondo Patey, che consiste nella asportazione di tutta la ghiandola mammaria con ampia porzione di cute sovrastante, conservazione del muscolo grande pettorale e dissezione linfonodale al primo livello ascellare;

STRATEGIE TERAPEUTICHE DOPO LA SCOPERTA DI UNA LESIONE MAMMARIA
La decisione terapeutica da prendere nella paziente in cui sia stato appena diagnosticato un carcinoma alla mammella presenta numerose difficoltà, soprattutto in considerazione dell’entità e della rapidità dei cambiamenti di strategia che si sono verificati recentemente. A partire dalle prime esperienze di Halstead, che circa 100 anni or sono stabilì i criteri di esecuzione della mastectomia radicale, il concetto da lui propugnato di radicalità loco-regionale dell’intervento chirurgico è stato progressivamente criticato, modificato ed adattato all’attuale ed ancora in evoluzione approccio terapeutico.
L’accurata valutazione dell’estensione della malattia e dei possibili fattori in grado di influenzare la prognosi è indispensabile per stabilire la strategia terapeutica ottimale nel singolo caso clinico. Essenziali a questo proposito sono un’anamnesi ed un esame obiettivo particolarmente dettagliati, nonchè l’esame di dati citoistologici, radiologici e laboratoristici a disposizione.
Circa il 40% delle pazienti con carcinoma mammario esordiscono con un semplice nodulo mammario, di piccole dimensioni e generalmente mobile. Non è però raro osservare casi asintomatici o sintomatici di malattia localmente avanzata con fissazione o ulcerazione della cute, erosione delle coste, linfoadenopatia ascellare massiva o retrazione del capezzolo, della cute o della mammella. Meno frequenti sono il dolore o altri sintomi riferibili ad una metastatizzazione ai polmoni, alla pleura, allo scheletro, al fegato o all’encefalo, ma il loro riconoscimento è comunque importante per la precisione della stadiazione.
Le dimensioni della lesione primitiva, il tipo ed il grado istologico, l’invasione linfatica o vascolare e, soprattutto, le condizioni dei linfonodi regionali, sono tutti fattori cruciali per la valutazione prognostica della paziente con carcinoma della mammella. La presenza di recettori per gli estrogeni e di quelli per il progesterone, d’altra parte, oltre ad avere implicazioni prognostiche, fornisce utili informazioni sul tipo di terapia da utilizzare.
Allo scopo di studiare la malattia è consigliabile in pratica eseguire una radiografia del torace, alcuni esami ematochimici (esame emocromocitometrico, funzionalità epatica, fosfatasi alcalina, calcemia, azotemia e creatininemia) e la mammografia bilaterale, che consente di escludere la presenza di lesioni nella mammella controlaterale e sarà di notevole aiuto al radioterapista. La bassa incidenza di metastasi ossee (2-4%) in assenza di sintomi specifici, o di alterazioni degli esami ematochimici, sconsiglia l’esecuzione di una scintigrafia ossea, e, analogamente, non è indicato alcuno studio particolare dell’encefalo in assenza di una sintomatologia neurologica sospetta.
AI termine delle indagini descritte è finalmente possibile determinare lo stadio della malattia e decidere la strategia terapeutica ottimale.
In passato la terapia consigliata per tutti i casi di carcinoma mammario localizzato era invariabilmente rappresentata dalla mastectomia radicale. Oggi si preferisce invece optare per una mastectomia radicale modificata, che conservando il muscolo grande pettorale e limitando l’entità della dissezione ascellare facilita la ricostruzione mammaria e riduce i rischi di successivo linfoedema del braccio. Le pazienti esposte ad un alto rischio di recidiva locale possono essere sottoposte ad un ciclo di radioterapia sulla parete toracica e sui linfatici regionali. Per quanto non vi siano dati che depongano chiaramente per un miglioramento della soprawivenza o della percentuale di guarigione con la radioterapia post-operatoria, è ormai accertato che tale terapia è in grado di diminuire il rischio di recidiva loco-regionale, con tutti i problemi ad essa associati.
L’efficacia della radioterapia post-operatoria nel ridurre l’incidenza delle recidive loca-regionali, ha condotto all’ esecuzione di interventi chirurgici sempre meno estesi, associati però a terapie radianti sempre più consistenti, nel tentativo di migliorare sostanzialmente i risultati cosmetici senza perdere terreno in termini di controllo locale della malattia e, naturalmente, di sopravvivenza.
Più di una modalità di esecuzione di queste tecniche chirurgiche conservative sono state descritte in vari centri oncologici americani ed europei; indipendentemente dal fatto che venga asportata solo la massa tumorale (nodulectomia, tumorectomia o tilectomia) oppure una porzione più ampia di tessuto ghiandolare mammario (quadrantectomia o mastectomia subtotale), i risultati in termine di controllo loca­e della malattia e di sopravvivenza sono analoghi.
L’associazione di un intervento chirurgico conservativo e di un trattamento radiante presuppone alcune importanti differenze nei risultati e nelle caratteristiche dell’eventuale recidiva che sia la paziente che il suo medico di famiglia, devono ovviamente conoscere nell’accingersi alla scelta fra l’approccio chirurgico conservativo e quello più tradizionale.
In particolare la paziente deve realizzare il fatto che, nel caso dell’intervento conservativo, il rischio di recidiva locale persiste per un tempo più prolungato rispetto all’eventualità di un intervento tradizionale: mentre infatti nelle pazienti che vanno incontro ad una recidiva locale dopo una mastectomia radicale tale evento si verifica entro 5 anni dall’intervento, nelle pazienti sottoposte ad intervento conservativo la recidiva può verificarsi anche 15 anni dopo tale trattamento.
La percentuale di recidive è comunque analoga per i due tipi i trattamento.
Alcune pazienti possono scegliere l’approccio conservativo ritenendolo vantaggioso in virtù del maggior periodo di tempo a rischio e quindi del presumibilmente più prolungato intervallo libero da malattia.
Anche se i risultati cosmetici ottenibili dagli interventi conservativi sono chiaramente superiori a quelli successivi ad una mastectomia, occorre ricordare che le nuove tecniche di chirurgia plastica, se programmate all’inizio di tutto l’iter terapeutico, possono consentire risultati del tutto accettabili anche dopo la mastectomia.

CHIRURGIA RICOSTRUTTIVA DELLA MAMMELLA
Dopo la terapia demolitiva, il chirurgo plastico dovrà valutare quali sono i parametri morfologici mancanti, al fine di reintegrarli nel modo più completo dal punto di vista sia anatomico che estetico. Nella maggior parte dei casi è possibile effettuare una ricostruzione immediata, senza provocare impedimenti nei successivi controlli ambulatoriali, effettuati a distanza di tempo dall’asportazione del tumore. In genere, la donna che ha subito un intervento demolitivo al seno si presenta depressa e profondamente provata per la grave mutilazione subita. Ha bisogno della massima comprensione, senza falsi pietismi. E’ necessario, pertanto, che la donna che si sottopone alla ricostruzione sia ben decisa a volerla e sappia esattamente quali sono le modalità e i tempi: non deve infatti essere portata a pensare a sfolgoranti risultati estetici, e neppure essere intimorita dalla complessità dell’intervento. Si deve affidare con serenità e fiducia al chirurgo plastico, con il quale dovrà collaborare per ottenere i risultati migliori.
Prima di procedere alla ricostruzione è indispensabile valutare i seguenti parametri:
Parametri psicologici
- Grado di accettazione della mutilazione.
- Rapporto tra aspettative e possibilità ricostruttive.
- Precisa conoscenza dell’iter chirurgico ricostruttivo.
- Indagine tipologica (test, colloqui).
Parametri clinico-oncologici
- Ragionevole intervallo dal tempo demolitivo e da eventuali trattamenti complementari (Rx terapia e chemioterapia).
- Precedenti clinici (tipo di intervento chirurgico, tipo e stadio della neoplasia primitiva, compromissione dei linfonodi).
Parametri morfologici
- Condizione loco-regionale (cute, difetto muscolare, cicatrice).
- Esame del seno controlaterale.

In linea di principio si può dire che tutte le pazienti, dall’età più giovane fino a circa 70 anni, possono essere sottoposte a ricostruzione del seno.
Le controindicazioni assolute sono essenzialmente due:
- recidiva e metastasi in atto;
- sospetto di tumore nel seno sano;
A seconda del diverso tipo di intervento praticato per l’asportazione del tumore, esistono tecniche di ricostruzione diverse. I parametri morfologici che il chirurgo plastico deve ricostruire sono:
- cute;
- ghiandola mammaria;
- strato muscolare (se asportato);
- complesso areola-capezzolo.
Per la ricostruzione di cute, muscolo e areola-capezzolo si utilizzano tessuti biologici, mentre per sostituire la massa ghiandolare si ricorre all’impianto di protesi al gel di silicone.
A prescindere dalle controversie attualmente in atto, che hanno determinato la messa al bando delle protesi al silicone a scopi cosmetici (cioè per aumentare il volume di seni normali), in chirurgia ricostruttiva della mammella la maggior parte delle tecniche si basa sull’inserimento di protesi al silicone.
In commercio esistono
-protesi gonfiabili costituite da un involucro vuoto da riempire con soluzione fisiologica (expander);
-protesi monovolume a corpo pieno di gel di silicone, disponibili in diverse forme (rotonde, ovali, a goccia, a basso o alto profilo);
-protesi a doppio volume, formate all’interno da una quantità fissa di gel di silicone, mentre l’esterno può essere riempito con soluzione fisiologica fino a ottenere il volume desiderato.

In presenza di una demolizione che abbia conservato abbondanza di cute e il muscolo pettorale, l’unico elemento morfologico da ricostruire è la ghiandola mammaria, verrà quindi utilizzata una protesi al gel di silicone, di volume appropiato rispetto alla mammella sana, la quale verrà inserita in una tasca adeguatamente allestita sotto il muscolo grande pettorale.
Tale intervento, di facile e breve esecuzione (mezz’ora di intervento), con una breve degenza post-operatoria (4 giorni), trova applicazioni nella mastectomia sottocutanea e nella mastectomia secondo Patey (qualora esista cute sufficiente e muscolo grande pettorale trofico).
Si dovrà invece ricorrere a lembi cutanei o fascio-cutanei (lembo toraco-epigastrico) qualora la cute sia carente ma sia presente un muscolo grande pettorale trofico. Anche in questo caso la protesi verrà inserita sotto il muscolo ed il lembo cutaneo ottempererà alla carenza di cute.
Tale intervento è di facile esecuzione; di media durata è la degenza post-operatoria, leggermente più lunga rispetto al precedente (7 giorni).
Qualora invece sia carente sia il mantello cutaneo che lo strato muscolare, bisognerà ricorrere a tecniche operatorie più sofisticate che prevedono l’utilizzo di lembi miocutanei, cioè lembi che in un unico tempo, una volta ruotati in sede di ricostruzione, sopperiscano alla carenza cutanea e muscolare; tali lembi sopravvivono grazie al loro fascio vascolo-nervoso che deve essere scrupolosamente conservato. Il lembo più utilizzato in tale caso è il lembo del muscolo grande dorsale. Una volta disegnata l’isola di cute necessaria, tale lembo viene ruotato anteriormente in sede di mastectomia, il muscolo verrà fissato alla parete toracica a ricostruire il muscolo grande pettorale mancante e la cute del dorso sopperirà alla carenza del mantello cutaneo. Tale intervento è di media difficoltà, di lunga durata e con degenza post-operatoria intorno ai 14 giorni.
Esiste anche la possibilità di non ricorrere all’ uso di protesi.
Questo richiede però interventi chirurgici complessi, quali il lembo miocutaneo del muscolo retto addominale o il lembo libero, con anastomosi microvascolare, del muscolo gluteo. Questo è possibile perché le zone di prelievo sono ricche di tessuto adiposo sottocutaneo e provvedono quindi da sole a ricostruire la ghiandola mammaria. Sono interventi di difficile esecuzione e di lunga durata, ma garantiscono un ottimo risultato estetico.
Per la loro complessità sia operatoria che post-operatoria devono essere eseguiti in centri altamente specializzati.
Per la ricostruzione del complesso areola-capezzolo, differenti sono le tecniche, le quali prevedono l’utilizzo del complesso controlaterale o di altre zone anatomiche.
Areola:
- areola controlaterale (in caso di mastoplastica riduttiva);
- cute della regione inguinocrurale.
Ambedue i metodi sfruttano la tecnica dell’innesto libero cutaneo.
Capezzolo:
- parte del capezzolo controlaterale;
- sfruttando la cute in sede di ricostruzione;
- utilizzando uno spicchio di cute delle piccole labbra;
Tali tecniche sono di facile esecuzione e necessitano di una breve degenza post-operatoria (3 giorni). Quasi tutte le tecniche ricostruttive danno risultati adeguati come volume e dimensioni, ma non sempre la forma adatta, poiché nella maggioranza dei casi la mammella sana è ptosica (secondo età) mentre quella ricostruita è di tipo giovanile a cono. E’ quindi necessario ricorrere ad una correzione della mammella sana tramite una delle diverse tecniche di mastoplastica riduttiva.

CHIRURGIA ESTETICA DEL SENO
La chirurgia estetica si occupa elettivamente di tre situazioni, che determinano spesso problemi psicologici nelle pazienti:
- ipertrofia delle mammelle, cioè conseguenza di tessuto mammario notevolmente abbondante, che in alcuni casi raggiunge dimensioni tali da essere considerata una vera malformazione, sia nel caso di ipertrofie ghiandolari pure (frequenti nella giovane età) che nelle ipertrofie post­gravidiche o nelle ipertrofie adipose associate ad adiposità generalizzata;
- ptosi delle mammelle, che si verifica quando un cedimento dei tessuti di sostegno della ghiandola determina un notevole abbassamento del capezzolo; anche se di norma si ha ptosi in caso di ipertrofia mammaria, si può verificare il caso di ptosi di mammelle normali per forma e dimensione o addirittura di mammelle ipotrofiche;
- ipoplasia delle mammelle, che può essere primitiva (cioè costituzionale), o dipendere da disturbi endocrino-metabolici, oppure secondaria a gravidanza, cure dimagranti, menopausa.
Per il trattamento dell’ipertrofia mammaria sono state proposte numerose tecniche operatorie; tutte sono basate su tre momenti fondamentali:
- la resezione di una porzione cutaneo­ghiandolare;
- il rifacimento della normale mortologia del cono mammario.
Preliminarmente alla parte chirurgica è necessario eseguire un disegno sulle mammelle, secondo modelli standard ( in riferimento alla dimensione desiderata), nonché stabilire l’esatta ubicazione del capezzolo.
Molti Chirurghi Plastici consigliano di disporlo a una distanza ideale di 22 cm. dall’incisura superiore dello sterno, in corrispondenza della 6° costa o del IV° spazio intercostale .
Le cicatrici devono essere situate in posizione sottomammaria, effettuando, a seconda delle varie tecniche chirurgiche, una cicatrice orizzontale che deve essere il più corta possibile.
Il Chirurgo deve decidere la quantità di tessuto da rimuovere caso per caso, valutando esattamente la differenza di dimensione tra le due mammelle prima dell’intervento, a paziente in posizione seduta. L’intervento da eseguire in caso di ptosi mammaria è detto mastopessi, basato sui medesimi principi tecnici delle mastoplastiche riduttive, escludendo il tempo della resezione in caso di seno ipotrofico.
La corretta esecuzione della tecnica consente di riportare le mammelle a una forma gradevole, con cicatrici in genere poco visibili, disposte lungo il margine dell’areola o lungo l’emisfero inferiore della mammella.
Nei casi di ipoplasia mammaria le indicazioni all’intervento di mastoplastica additiva dipendono nella generalità dei casi da considerazioni di ordine psicologico.
Molte donne con aplasia, ipoplasia, asimmetria o atrofia secondaria delle mammelle, soffrono di un profondo senso di menomazione che può anche interferire con i rapporti sentimentali.
Inoltre, soprattutto in nord America, negli ultimi anni si è assistito a una vera e propria corsa alla mastoplastica additiva, unicamente per esibire misure da maggiorate fisiche. Infatti, la Food and Drug Administration degli USA stima che solo in nord America un milione di donne si sarebbe sottoposto a interventi chirurgici per aumentare il volume del seno. Tenendo presente i desideri della paziente e il suo aspetto fisico, il Chirurgo Plastico consiglia alla paziente l’entità dell’ingrandimento e il risultato finale che ella può attendersi.
Si devono prendere in considerazione la corporatura, l’altezza e il peso della paziente; le mammelle devono essere esaminate con la massima cura, potendo variare dall’appiattimento com­pleto ( con il capezzolo e areola), fino a mammelle ben svilup­pate che non hanno alcun bisogno di aumento, oppure essere asimmetriche nella forma o nelle dimensioni.
In generale, la parola d’ordine dei più seri chirurghi del settore è: “moderazione”. Infatti, un aumento eccessivo determina pro­blemi, dovuti allo scarso rivestimento cutaneo.
Le mastoplastiche additive sono classicamente eseguite inserendo protesi in materiale sintetico.
I risultati estetici di tale tecnica sono ottimi, a condizione che la protesi non evochi reazioni infiammatorie, tali da costituire una capsula fibrosa che ingloba la protesi, determinandone spesso la necessità di asportazione chirurgica.
A tale inconveniente si è ovviato, secondo diverse tecniche, inserendo la protesi tra il piano del muscolo grande pettorale e quello del muscolo piccolo pettorale (impianto subpettorale).
Tuttavia, l’era delle maggiorate fisiche con seno al silicone sembra essere finita, da quando all’inizio del 1992 la Food and Drug Administration degli USA ha messo al bando le protesi al silicone a scopi cosmetici. L’obiettivo dichiarato è l’avvio di ricerche adeguate sulla sicurezza delle protesi, verificando se possano provocare disturbi al sistema immunitario, nonché stabilire il rischio di rotture dell’involucro di plastica che contiene il silicone, con spandimento di quest’ultimo nei tessuti. Anche in Italia sono state poste in atto sospensioni cautelative. Comunque, in attesa di ulteriori studi, la raccomandazione per Ie portatrici di impianti al silicone consiste in un controllo attento delle mammelle protesizzate, per valutare in tempo ogni variazione di consistenza e forma, segnale inconfondibile di un cedimento dell’involucro. In alternativa, si possono usare protesi da adattare con l’immissione di soluzione salina, che però non offrono gli stessi vantaggi, essendo poco stabili e facilmente rilevabili, soprattutto in caso di mammelle con scarso tessuto adiposo. Altre tecniche si basano sull’uso di autoinneschi dermoadiposi, cioè prelevati dalla stessa paziente in aree ricche di tessuto adiposo (addome, glutei).

Dott. Barone Angelo
Specialista in Chirurgia Plastica
Vigevano (PV)
Pubblicazione Dicembre 1993

MALFORMAZIONE E PREVENZIONE

Ad esempio un caso clamoroso si verificò una trentina di anni or sono, quando nel 1961 si ebbe in Australia il primo sospetto che un medicinale, la talidomide, potesse causare malformazioni. 

Per quanto sia stata ritirata dal commercio nel giro di pochi mesi, nacquero ben 5.600 bambini malformati, sparsi in 20 paesi del mondo.
Se all’epoca fossero esistiti i sistemi di sorveglianza di cui disponiamo oggi, molto probabilmente la talidomide non avrebbe colpito così duramente.
Un campanello d’allarme sarebbe suonato prima in un Paese o nell’altro e avrebbe avuto una ripercussione immediata su tutto il mondo.
Oggi esistono infatti organizzazioni di controllo nei vari stati ed una organizzazione di coordinamento l’ International Clearinghouse for birth defects monitoring systems che opera dal 1974 (ICBDMS)
L’ICBDMS è diventata non solo un rapido sistema di scambio di informazioni tra 30 programmi di sorveglianza operanti nel mondo, ma anche un articolato sistema di ricerca epidemiologica sulle malformazioni con un suo centro operativo, situato prima all’Università di Bergen (Norvegia) e adesso presso il Centro Studi e ricerche dell’ ASM (Associazione Studio Malformazioni) che ha sede a Milano -pza M.Adelaide di Savoia 2 -tel. 29.40.13.83.
Oggi l’attività pluriennale della ICBDMS può permettere di affermare che negli ultimi anni non si sono nè verificate epidemie di malformazioni di dimensioni simili a quelle sopra ricordate, nè è documentato un aumento di una qualche malformazione per una qualsivoglia causa ambientale.
Ciò si ottenuto con ferrei sistemi di sorveglianza e con un affinamento delle varie metodologie di analisi. Ma il problema della malformazione non si limita a stabilire se c’è un aumento della loro frequenza oppure no.
Il problema è ben più ampio.
Ogni anno, in ogni Paese del mondo 5 bambini su 100 nascono con una malformazione congenita. E’ questa una frequenza costante, con minime oscillazioni tra Paese e Paese.
La ricerca mondiale da tempo tenta di spiegare le cause di queste malformazioni.
La risposta non può essere fornita dai sistemi di sorveglianza di cui abbiano parlato fino ad ora , poichè per la loro natura hanno il solo scopo di individuare eventuali aumenti di frequenza nella popolazione generale.
Sono necessari altri approcci, altre strategie di studio in grado di scoprire ad esempio quei teratogeni che causano malformazioni solo in una piccola parte dei casi ed in particolari gruppi di gravidanze.
Certo è l’unica strada percorribile per trovare le cause delle malformazioni che affliggono l’umanità e quindi realizzare una prevenzione. Ecco che nel 1989 nasce l’lnternational Centre for Birth Defects (ICBD).
I primi passi sono i più importanti anche se sono i più difficili e chissà quanti anni dovranno trascorrere prima di poter registrare i primi risultati concreti.
Il  generoso contributo norvegese per iniziare, l’attuale sforzo dell’ ASM (Italia), del CDC (Stati Uniti) e del RIVM (Olanda)per proseguire, rappresentano solo un positivo e promettente sforzo collaborativo.
Il centro studi Italiano in particolare si chiama I.C.A.R.O. ASM (International Centre for Adverse Reproduction Outcomes) ed ha la duplice funzione di essere a disposizione degli scienziati per continui confronti e di fornire una attività di consulenza a medici e popolazione con due tipi di intervento:
Telefono Rosso: rivolto alle donne sia prima del concepimento (per consigliare quali precauzioni osservare in modo da prevenire alcuni esisti sfavorevoli della riproduzione), che durante la gravidanza (valuta e aiuta a superare eventuali timori o rischi reali occorsi durante le prime fasi).
Sindronet: centri per diagnosi e assistenza delle patologie congenite più comuni.

Det
Pubblicazione Gennaio 1992

TUMORI DELL’APPARATO GENITALE FEMMINILE

A tutt’oggi in Italia ogni anno circa 3000 donne muoiono per Cancro ovarico, 2500 per cancro del collo dell’utero e 1800 per cancro del corpo. 

Per uno solo di questi tumori, si è ottenuto il massimo traguardo possibile nel campo della prevenzione: parliamo del tumore cervicale e del PAP TEST
Per altri invece, non esiste possibilità di arrivare così presto alla loro scoperta; anzi per uno di questi, il tumore dell’ovaio, non si è ancora riusciti ad impostare un iter non solo preventivo, ma anche diagnostico accettabile, se è vero che al momento della sua scoperta, nei 2/3 dei casi esso si presenta già in maniera diffusa.
In questi articoli, prenderemo in considerazione le varie neoplasie prevalentemente dal punto di vista della loro prevenzione e di alcuni importanti aspetti epidemiologici; questo ci consentirà di evidenziare eventuali situazioni a rischio e di individuare le donne che necessitano di controlli più frequenti.

TUMORE DEL COLLO DELL’UTERO O TUMORE CERVICALE
Questa neoplasia è una degenerazione delle cellule che tappezzano la parete del collo dell’utero ed insorge a livello del passaggio della mucosa tra il canale cervicale e la porzione esterna della cervice.
Complessivamente è un tumore in fase di diminuzione con un aumento delle forme iniziali ( = curabili) ed un calo di quelle invasive, specie nei paesi a migliore livello socio-sanitario.

 

 

CONCETTI EPIDEMIOLOGICI

  • - è in diminuzione la mortalità (meno morti per cancro cervicale) grazie alla maggior efficacia delle terapie che consentono anche una migliore qualità della vita residua;
  • - sono in aumento le forme iniziali ma a maggior successo di terapia;
  • il fattore che maggiormente condiziona il rischio di cancro cervicale sembra essere il tipo di vita sessuale della donna nel senso che:
    a) è tanto più elevato quanto più precoce è stato il primo rapporto e quanto più numerosi sono stati i partners;
    b) esiste la possibilità del o dei partners di trasmettere fattori favorenti il suo insorgere su una mucosa particolarmente ricettiva,
    c) vi sono lesioni virali trasmissibili sessualmente ed in grado di influenzare la crescita epiteliale della mucosa (Herpes genitalis, virus papilloma responsabile dei condilomi)
  • - spesso le donne sono forti fumatrici;
  • - la frequenza di questo tumore è tripla nelle classi sociali medio-basse;
  • - è un tumore dell’età fertile;
  • - le forme inizialissime colpiscono in media tra i 20-35 anni;
  • - le forme invasive colpiscono tra i 45-55 anni;
  • - sembra essere stata definitivamente assolta la pillola estro-progestinica, almeno come azione diretta degli ormoni sulle cellule;
  • - unico tra tutti i tumori ha possibilità di diagnosi precocissima mediante un esame di minimo impegno, il PAP TEST con possibilità di effettuarlo come test di screening di massa a tutta la popolazione.

 

 

Occorre diffondere il concetto che:

  • il cancro cervicale è un tumore reale e frequente,
  • può essere già presente in un corpo assolutamente sano,
  • può crescere silente fino a forme avanzate,
  • non vi sono esami clinici o emato-chimici in grado di rilevarne le forme iniziali,
  • esistono delle donne più a rischio di svilupparlo,
  • esistono dei fattori di rischio realmente presenti nella vita quotidiana,
  • esiste un solo esame preventivo in grado di scoprir lo, il PAP TEST, di facilissima attuazione, di alta attendibilità e della durata di pochi minuti.

Dunque questo tumore introduce il nuovo concetto sia di una certa componente a trasmissione sessuale, sia di maschio a rischiio come risulta dalle varie ricerche statistico-epidemiologiche di questi ultimi anni.
Occorre ora effettuare un breve accenno a ciò che succede dal punto di vista istologico, argomento che seppur un poco complicato, ci permette di spiegare meglio la motivazione del nostro intervento ai fini della prevenzione.
A tale proposito introduciamo alcuni elementi tecnici importanti:
DISPLASIA = anomalia dello sviluppo cellulare.
CIN = è la nuova terminologia che indica lo sviluppo di una neoplasia a sviluppo intra-epiteliale cioè che non si è ancora approfondita oltre la membrana basale e quindi non si è immessa in quelle strutture che la diffonderebbero in tutto il corpo.
Alcuni anni fa esisteva un concetto diverso che separava distintamente la DISPLASIA dalTUMORE INIZIALE NON INVASIVO (detto cancro in situ) per cui una volta esisteva un punto focale importante dal punto di vista della diagnosi, della terapia e della prognosi, tra la displasia grave e il cancro in situ.
Oggi è mutata un poco l’ottica di valutazione per cui la displasia, di qualsiasi grado essa sia, ed il cancro in situ, vengono accolti nella unica terminologia di CIN intendendo così accomunare le varie lesioni come espressione in realtà di una stessa malattia in grado di evolvere a tumore; la barriera terapeutica e prognostica è stata quindi spostata da cancro in situ a cancro invasività stromale precoce (micro-invasivo), cioè quello che ha appena iniziato a superare la barriera della membrana basale.
La storia naturale di questo tumore, se lasciato senza terapia, rivela, almeno all’inizio, una certa lentezza: come si vede dalla tabella, un CIN 1 per trasformarsi in un cancro in situ impiega da 1 a 4 anni e da 7 a 12 anni un tumore intraepiteliale per diventare invasivo, mentre circa un 40-50 % dei CIN 1 e CIN 2, possono regredire.
Il Cin 3 invece ha meno possibilità di regressione spontanea (circa un 25-30%)
L’età media di incidenza dei CIN 1 e CIN 2 è intorno ai 25 anni, potendo arrivare secondo alcuni studi anche a 20-30 anni; è invece di 35 anni per il CIN 3 e di 49-50 anni per un cancro invasivo. 

 

ETA’ MEDIA DI INCIDENZA VELOCITA’ DI EVOLUZIONE IN ANNI % DI POSSIBILI REGRESSIONI SPONTANEE
CIN 1:
displ. LIEVE

25 aa

1-7 aa

40 – 50 %

CIN 2 :
displ. MODERATA
CIN 3:
displ. GRAVE
CA in situ

 

35 aa

7-12 aa

25 – 30%

CA INVASIVO

45-59 aa

 

Questa fine valutazione tecnica in realtà è alla base di tutto il nostro discorso: infatti scopo della prevenzione è proprio quello di scoprire l’esistenza di una displasia prima ancora che si trasformi in un ca in situ o per dirla più correttamente: che un CIN 2 non si trasformi nel tempo in un CIN 3.
Oggi inoltre esistono terapie tali che, a fronte di una diagnosi precoce, sono in grado di risolvere definitivamente la malattia senza essere per nulla invasive o demolitrici ed invalidanti. Per non sprecare questo incalcolabile vantaggio che noi abbiamo nei confronti di questo tumore, e purtroppo solo di questo, occorre predisporre una efficace opera di istruzione e diffusione dell’uso del pap test in modo che un numero di donne il più ampio possibile, possa venire a conoscenza di quanto può essere fatto per evitarlo:
PAP TEST
Veniamola dunque a scoprire questa grande ed efficace arma di difesa.
Dobbiamo tutto all’idea di un patologo americano di origine greca, dr. Papanicolau (da cui Pap Test), il quale aveva notato nel lontano 1943 che alcune cellule esfoliate del tratto genitale femminile presentavano alterzioni associate al timore del collo uterino; fece disporre una donna su un lettino ginecologico e le raccolse striscIando con una semplice spatola di legno sulla mucosa della cervice; poi le depose sopra un vetrino co­prioggetto colorandole con una metodica da lui stesso sviluppatate le osservò diligentemente al microscopio; infine classificò le alterazioni visualizzate in cinque classi di gravità crescente.
Questo è dunque lo striscio colpo-citologico o Pap Test e a tutt’ oggi la tecnica di prelievo è la stessa e rimane il primo e fondamentale passo di questa nostra battaglia poichè permette di scoprire certe atipie cellulari che sono espressione talora di una situazione precancerosa e che con adeguata terapia, possono essere defmitivamente eliminate evitando così la loro evoluzione a tumore vero e proprio.
Inoltre è l’unico mezzo per svelare una lesione virale altrimenti per nulla sospettata a livello della cervice. La effettuazione di questo esame è di per se molto semplice, eseguibile da qualsiasi ginecologo durante ogni visita , semplice, efficace ed attendibile, a patto che venga
eseguito correttamente, cioè che vengano raccolte ed esaminate con la spatola proprio le zone di passaggio (dette anche “di transizione”) tra l’epitelio che riveste la parete della cervice e quello proveniente dal canale cervicale.

CLASSI secondo PAPANICOLAOU

Classe I -Pap-Test negativo: assenza di cellule atipiche.

Classe II -Pap-Test negativo: presenza di cellule con alterazioni dovute di solito a fatti flogistici ma senza caratteri di discariosi (alterazioni del nucleo).

Classe III -Pap-test dubbio: presenza di qualche cellula alterata ma con carattenstiche insufficienti a sospettarne la malignità. Coesistenza frequente di reperti flogistici spesso dovuti a Trichomonas o a infezioni virali.

Classe IV -Pap-test positivo: presenza di pochi elementi nettamente displasici cioè con discanosi e con anomalie citoplasmatiche per cui c’è il fondato sospetto di lesione cancerosa, probabilmente iniziale.

Classe V -Pap-test positivo: presenza di numerosi elementi displasici per cui la presenza di lesione maligna è quasI certa.

 

TECNICA DELL’ ESAME
Prima ancora di effettuare la visita, si introduce in vagina lo ‘speculum’ e si mette in evidenza la porzione del collo che confina in alto con la vagina (detta PORTIO); con una spatola di legno, si ‘striscia’ con una leggera pressione sopra la mucosa, cercando di passare con precisione sopra la predetta zona a livello dell’orifizio uterino esterno.
Il prelievo cosi effettuato, e che deve comprendere per essere corretto, anche alcune secrezioni provenienti dal canale cervicale e contenenti anch’esse cellule da esaminare, viene poi deposto su un vetrino copri-oggetto, strisciato in maniera uniforme e ‘fissato’ con una apposita sostanza che impedisce il deterioramento del preparato. Il tutto deve poi essere inviato ad un anatomo patologo, esperto citologo, che colorerà il preparato e si esprimerà classificando il materiale in una delle cinque classi.
Alcune condizioni della vita della donna, (nulliparità, presenza di flogosi croniche della cervice, la menopausa) possono rendere difficoltoso il raggiungimento della zona esatta di prelievo, per cui ogni ginecologo si adopererà per predisporre un prelievo ottimale (uso di piccoli bastoncini tipo Cotton fioc o uso di spatole particolari tipo Cytobrush che entrano nel canale cervicale) in modo tale da comprendere sempre sul vetrino cellule provenienti dal canale cervicale e la cui assenza dovrà essere segnalata dal patologo attento e diligente, pena la diminuzione della efficacia preventiva
La classe 1 e la classe 2 vengono definite come classi NEGATIVE; le classi 3 e 4 sono dette classi POSITIVE per sospetto di cancro; la classe 3 viene considerata DUBBIA per la presenza di alterazioni (flogosi da trichomonas, uso della pillola o la gravidanza o alterazioni distrofiche della menopau­sa) compatibili non solo con uno stato benigno; dopo una terapia medica adeguata, si dovrà assolutamente ripetere con accuratezza l’esame: a tal punto o la lesione sarà regredita ad una Classe 2 o persisterà la classe 3 (detta in questo caso classe 3 ‘persistente’).
Il successivo passo da fare è una indagine più precisa che in maniera definitiva ponga diagnosi di eventuale tumore, e se possibile, ne sveli le caratteristiche istologiche e ne indichi la eventuale terapia. In pratica si va a visionare direttamente la zona precedentemente indagata, ingrandendola notevolmente con un microscopio ottico particolare; eseguiti alcuni test con coloranti al fine di evidenziare e delimitare con precisione l’ area di atipia cellulare, si effettuerà un prelievo bioptico MIRATO. Questo esame si chiama COLPO-SCOPIA e si effettua con una particolare attrezzatura detta COLPOSCOPIO durante una visita ginecologica e della durata di circa 20 minuti.
Se la zona della giunzione squamo-colonnare non è visibile al microscopio della colposcopia, o se la lesione osservata nasconde il suo margine verso l’interno del canale, occorre visualizzarlo direttamente ampliando l’esame colposcopico eseguendo le micro colpo isteroscopia che, con una piccolissima sonda ottica, indaga anche il canale stesso.

LA COLPOSCOPIA serve a:
- formulare la diagnosi di tumore nelle pazienti ,con pap test dubbio o positivo e a classificare il tipo di CIN;
- definire con certezza se, come e dove effettuare il prelievo bioptico, creando una vera e propria ‘mappa’ della cervice
- svelare con certezza il tipo di lesione virale sospettata al pap test;
- rilevare alcuni aspetti vascolari, già sinonimo di una eventuale invasione del tumore;
- indicare anche il tipo di prelievo bioptico, se cioè può essere sufficiente solo un piccolo prelievo oinvece è necessaria una escissione a forma di cono, della zona sospetta;
-indicare la modalità del trattamento opportuno (conizzazione, elettrocoagulazione della zona o criocoagulazionedella stessa, o la vaporizzazione con il Laser o infine la asportazione dell’utero.
Un ultimo cenno merita la terapia conservativa delle forme iniziali , che consente a fronte di una diagnosi certamente corretta e precisa , sia di mettere l’utero con possibilità di eventuali gravidanze, sia di eliminare definitivamente la lesione: è la escissione della zona con cui una incisione in grado di togliere un lembo a forma di cono.

 

ATTENDIBILITA’

PAP TEST da solo = 75-80%
PAP TEST + COLCOSCOPIA = 90-97%

FALSI NEGATIVI PER:
(7- 20%)

1) PRELIEVO NON CORRETTO (causa più frequente)
2) ERRORE DI LETTURA
3) TUMORE NASCOSTO IN PROFONDITA’ (raro)
FALSI POSITIVI PER:
(10-20%)
1) FLOGOSI CRONICHE
2) PARTICOLARI CONDIZIONI ORMONALI, MENOPAUSA

 
PAP TEST
- non pone diagnosi di tumore ma di sospetto;
- seleziona le donne a rischio di sviluppare un tumore;
- è in grado di rilevare alterazioni cellulari anche in assenza di qualsiasi disturbo;
- va effettuato dopo il primo rapporto e comunque non oltre il 18°-20° anno di età e va eseguito anche in menopausa;
- deve essere fatto una volta all’anno;
- secondo alcuni studi le donne con assoluta mancanza di rischio di cancro cervicale (non
rientranti nella tabella sottostante) e con almeno 3 pap test sempre negativi, potrebbero diradarne l’esecuzione ad almeno ogni due anni; tuttavia la semplicità e il minimo impegno richiesto alla sua esecuzione sia dal ginecologo che dalla donna, consiglierebbe la sua effettuazione annuale;
- se è vero che va fatto quando si hanno problemi, va inculcato nella mentalità delle donne che esso deve essere fatto specialmente quando si sta bene.

 

Donne a maggior rischio di cancro:

  • con infezioni genitali da virus papilloma o herpes
  • con primo rapporto prima dei 17-18 anni
  • con molteplicità dei partners
  • che hanno avuto partners portatori di infezioni virali ai genitali

 

Molte sono le figure coinvolte nella lotta alla prevenzione di questa terribile malattia: strutture pubbliche, consultori pubblici e privati, mass media; essi devono diffondere il concetto della quoidianità del rischio di questo tumore, parallelamente alle odierne teorie sociali liberazionistiche e di emancipazione giovanile specie nel campo sessuale: la precocità dei primi rapporti, l’aumento di frequenza di molte malattie a contagio sessuale, specie asintomatiche e diagnosticate solo se specificatamente ricercate, sono fattori indubbiamente predisponenti e spesso ‘primum movens’ dell’insorgenza di una malattia che esisterà sempre e con la quale solo con una diagnosi precoce si potrà imparare a coesistere senza rinunciare alle molte teorie sul liberalismo sessuale. Indubbiamente il ritorno di un tipo di contraccezione meccanica, il profilattico, consentirà di raggiungere l’obbiettivo di diminuire il contagio e la diffusione non solo di quelle malattie oggi particolarmente combattute, ma anche di quelle certamente più subdole ma ugualmente diffuse e rivelatesi concause spesso presenti nella insorgenza di alcuni tipi di tumore (virus del Papilloma, Herpes genitalis etc.). E’ con il pap test che tali situazioni sono emerse, dopo accurati, seri e lunghi studi provenienti da tutto il mondo scientifico; ed è con lo stesso pap test che viene per la prima volta offerto alla popolazione femminile una efficace arma di prevenzione nei confronti di un temibile nemico: il cancro cervicale è una malattia che può essere evitabile ed anche guaribile, a patto che sia diagnosticato in tempo.

Riccardo TRIPODI
Ginecologo
Pubblicazione Ottobre 1990

LA SALUTE MATERNO-INFANTILE

La gravidanza è la principale causa di morte per le donne in età fertile nei Paesi in via di Sviluppo, nei quali si concentra il 99% dei decessi, spesso per problemi che in altre parti del mondo sarebbero facilmente curabili, quali emorragie, parti podalici e convulsioni. Ogni anno circa 16 milioni di adolescenti tra i 15 e i 19 anni partoriscono e le complicazioni al parto sono la prima causa di morte tra queste giovani ragazze nei Paesi in via di Sviluppo. 

Nonostante la salute durante la gravidanza e il parto siano il quinto Obiettivo del Millennio che nel 2000 189 Capi di Stato si sono impegnati a ridurre significativamente entro il 2015, ancora troppo poco e stato fatto: l’analfabetismo e i tabù locali rendono spesso difficile – se non impossibile – per una donna decidere quando diventare madre, evitare gravidanze troppo precoci o ravvicinate, rivolgersi con fiducia all’assistenza sanitaria – comunque spesso inadeguata – o raggiungere gli ospedali al momento del parto per mancanza di mezzi o infrastrutture.
Per arginare il problema è necessario assicurare controlli pre e post-natali per mamme e neonati diffondere un’educazione igienico-sanitaria, promuovere una cultura di prevenzione dei rischi legati a gravidanze troppo precoci e parti ravvicinati e garantire alle donne – e alle famiglie – di poter decidere della propria vita riproduttiva. Perchè nessuna donna debba ancora dare la vita rischiando la propria.
Marta Vida
Fondazione Pangea Onlus

GRANDI RISULTATI CO PICCOLI SFORZI
Fondazione pangea lavora da anni in paesi quali l’Argentina e l’India, in cui si registrano i tassi più alti di mortalità materno-infantile al mondo.
Con uno dei seguenti Regali Solidali, si può aiutare una mamma a partorire serenamente e a prevenire compicazioni a lei e al suo bambino.
20 euro per un CORSO IGIENE-SANITA’ E SALUTE RIPRODUTTIVA
50 euro per VISITE POST PARTO PER MAMMA E BEBE’
80 euro per CONTROLLI PRENATALI CON ECOGRAFIA
82 centesimi al giorno SOSTEGNO A DISTANZA DI UNA MAMMA per un anno
Fondazione Pangea Onlus tel 02 7332020
www.pangeaonlus.org/sostieniunamamma

PROBLEMATICA DELLA SALUTE MATERNO-INFANTILE
II problema:
536.000 donne muoiono ogni anno per complicazioni durante la gravidanza e il parto, il 99% delle quali nei Paesi in via di sviluppo.
Le cause principali
L’impossibilità da parte della donna di gestire la propria sfera sessuale e la propria vita riproduttiva, a causa di culture e tradizioni che la escludono dal sapere e dalla possibilità di decidere, è una delle cause principali della mortalità materna.
Oltre 200 milioni di donne nel mondo non fanno uso di sistemi di contraccezione adeguati, o perchè non ne conoscono l’esistenza, o perchè non ne hanno accesso, o perchè non hanno la libertà di poter scegliere di utilizzarli. Ciò viene favorito dall’analfabetismo, dalla mancanza di conoscenza dei propri diritti e dall’ignoranza delle nozioni di base relative alla propria salute, all’igiene e la salute riproduttiva.
L’analfabetismo e i tabù locali non favoriscono le buone pratiche del sottoporsi a visite durante la gravidanza o del recarsi presso strutture ospedaliere per il parto.
Inoltre le tradizioni locali, come l’obbligo a matrimoni precoci o le violenze subite, determinano spesso gravidanze in età troppo giovane o troppo ravvicinate tra loro, rendendo più difficile e rischioso partorire.
Ogni anno circa 16 milioni di adolescenti tra i 15 e i 19 anni partoriscono.
Le complicazioni al parto sono la prima causa di morte tra queste giovani ragazze nei Paesi in via di Sviluppo.
Circa il 50% delle donne al mondo partorisce da sola o assistita da persone non esperte.
Nei Paesi in via di sviluppo c’è una grave carenza di personale sanitario specializzato, specialmente di ostetriche, e di strutture sanitarie e attrezzature adeguate per dare la corretta assistenza durante la
gravidanza, nel delicato momento del parto e nel periodo post parto. Peggiorata dall’inacessibilità a fonti di acqua e/o di acqua potabile, dalla mancanza di igiene personale e dell’ambiente circostante.
Le soluzioni
Garantire l’accesso a un’assistenza sanitaria di qualità durante la gravidanza e il parto:
• Cure prenatali.
• Cure post parte per mamma e neonato.
• Presenza di personale preparato durante il parto e di ostetriche in caso di emergenza.
Accesso alla pianificazione familiare
• Consulenza per aiutare le coppie a compiere scelte consapevoli in tema di pianificazione familiare.
• Servizi di prevenzione e ritardo della gravidanza.
Accesso a metodi contraccettivi
• Possibilità di abortire in maniera sicura, quando l’aborto e legale. (Ogni anno circa 20 milioni di aborti avvengono in situazioni che mettono a rischio la salute delle donne).
• Aumento dell’istruzione tra le femmine: se in possesso di nozioni sulla salute riproduttiva, la sessualità, e la prevenzione della trasmissione HIV/AIDS le donne sono in grado di prendere decisioni consapevoli in merito.

FONDAZIONE PANGEA ONLUS
La Fondazione Pangea Onlus è un’organizzazione non profit che dal 2002 lavora per favorire condizioni di sviluppo economico e sociale delle Donne e delle laro famiglie attraverso strumenti quali: l’istruzione, l’educazione ai diritti umani, la formazione professionale, l’educazione igienico-sanitaria e alla salute riproduttiva e la micro finanza, per la creazione di attività generatrici di reddito.

Pangea opera in collaborazione con associazioni e gruppi locali di donne che condividono la volontà di un’azione efficace che renda le donne protagoniste del loro stesso percorso di riscatto economico e sociale e che favorisca la loro partecipazione attiva allo sviluppo della comunità di appartenenza e dell’intero Paese.

Perchè:

Una Donna è una moltiplicatrice di benessere nella società in cui vive,
è il nodo di una rete sociale e di solidarietà.
Troppo spesso, però, essere Donna
significa essere vittima di situazioni politiche instabili, di precetti religiosi e di pregiudizi sociali.
Troppo spesso, essere Donna significa essere privata dei propri diritti.
Per questo noi della Fondazione Pangea Onlus vogliamo essere solidali con le Donne,
per individuare e denunciare ogni tipo di violazione dei loro Diritti in tutti quei Paesi che
presentano situazioni radicate di disagio e povertà.
Ma Pangea non è solo DENUNCIA. E soprattutto AZIONE.
Perchè e importante aiutare ogni Donna
a costruire una vita ricca di certezze e di speranze per se stessa e per la comunità in cui vive.
Perchè una Donna può diventare una moltiplicatrice di Pace.

Attualmente Pangea è impegnata in Afghanistan, India, Nepal, Repubblica Democratica del Congo, Sudafrica e da marzo 2008 in Italia con un progetto che mira a sostenere il percorso di uscita dalla violenza delle donne che si rivolgono a cinque centri antiviolenza.

MENAYE DONKOR INDOSSA IL NODO PANGEA
Per contribuire al lavoro di Pangea viene proposto il NODO, simbolo del rifiuto e della sdegno per la violenza molte donne hanno subito durante la propria vita, sotto forma di ciondolo o di anello. II Nodo, richiedibile a Pangea (www.pangeaonlus.org) a fronte di una donazione minima di 12 Euro (10 euro +2 di spese di spedizione), diventa così segno di una solidarietà concreta alla risoluzione del problema della violenza di genere . Anche Menaye Donkor, modella ed ex Miss Universo Ghana, da sempre molto sensibile ai diritti delle donne, sostiene Fondazione Pangea nel creare strumenti di empowerment femminile, indossando il Nodo Pangea. Menaye Donkor, nasce a Toronto il 20 marzo del 1981.
Nel 2004 viene eletta Miss Universo Ghana e si laurea a pieni voti in Marketing presso la York University di Toronto.
Nel 2005 fonda un’associazione “Menaye Charity Org”, che aiuta i bambini orfani e i piccoli malati di Aids e successivamente una scuola nella sua città di origine, Agona Asafo.
Menaye desidera continuare a occuparsi di progetti di solidarietà in Ghana e sogna di dar vita a una società che si occupi di formare e sostenere giovani imprenditrici.
Da circa tre anni è legata al centro­campista dell’Inter, Sulley Muntari, con cui vive a Milano.

Pubblicazione giugno 2010

IMPOTENZA E GASTROENTEROLOGIA

Il paziente con problemi di impotenza si rivolge quindi più spesso all’urologo-andrologo o agli specialisti in sessuologia clinica che, attraverso una accurata indagine anamnestica, una visita completa, e gli opportuni accertamenti, ricercano i segni suggestivi di patologie dell’apparato genitourinario, della sfera psico-sessuale ma anche di altri apparati distanti allo scopo di impostare il programma terapeutico più appropriato. 

Possono emergere così alterazioni o segni di una malattia sistemica (diabete mellito, ipertensione arteriosa, malattie vascolari, alterazioni endocrinologiche complesse) o di organi ed apparati apparentemente non strettamente collegati con la sfera sessuale quali l’ apparato digerente ed il fegato, fino ad allora ignoti al paziente e di cui si rende necessario stabilire la precisa responsabilità nel determinare il disturbo oggetto delle indagini.
E per quanto concerne i disturbi riferibili alla patologia dell’ apparato digerente, del fegato e del pancreas, tipicamente di competenza dello specialista gastroenterologo, va tenuto presente che questa è molto frequente e figura, nelle statistiche, tra le principali cause di morte e di inabilità potendo costituire perciò, nel paziente affetto da impotenza, un reperto solo “occasionale”.
Infatti i dati epidemiologici indicano che il 7% della popolazione “sana” accusa rigurgiti acidi (sintomo tipico della malattia da reflusso gastroesofageo) tutti i giorni, ed il l5 % almeno una volta al mese; dal48 al 79% delle donne in gravidanza presenta questo disturbo. Circa il 25-30% della popolazione soffre di “cattiva digestione” (dispepsia) per periodi prolungati nell’arco della propria vita ed il 10% dell’umanità sofrirà durante la propria esistenza di ulcera. Fino al 50% ed oltre dei soggetti che vivono nei paesi industrializzati è portatore dell’Helicobacter Pilori, che viene attualmente considerato uno dei principali fattori di rischio per la gastrite cronica, l’ulcera duodenale e forse per le neoplasie dello stomaco. Almeno il 2% soffre di stitichezza cronica severa ed il 14% delle donne soffre di “colite spastica”.
L’elenco potrebbe continuare, con dati che lascerebbero sicuramente stupiti molti Poiché la frequenza della patologia gastroenterologica è così elevata, l’associazione con patologie o fenomeni a prima vista non collegati, come l’ impotenza maschile, è possibile e può essere del tutto casuale, ma comunque “degna” di attenzione e di approfondimenti. D’ altra parte malattie internistiche che non interessano primitivamente l’ apparato gastro-enterico, o neurologiche in grado di provocare secondariamente impotenza maschile (il diabete, le lesioni dell’ encefalo e del midollo spinale), possono comprendere, tra i loro sintomi, disturbi riferibili al tubO digerente (nausea, vomito, disturbi dell’ alvo e dei meccanismi dell’ evacuazione, ecc) di cui si rende necessario un corretto inquadramento.
Inoltre è noto il ruolo svolto dallo stress e dai fattori psicologici nella patologia del tubo digerente: gli stessi elementi possono costituire lo sfondo e la causa comune dei disturbi digestivi e dell’impotenza.
Spesso, infine, poiché la patologia dell’apparato digerente ha un andamento cronico, con periodi di remissione e di riacutizzazione, oppure un andamento progressivo ed invalidante, non è infrequente che, per il deterioramento delle condizioni generali, o per l’innesco di serie problematiche neuropsichiatriche (ansia, depressione ecc) il paziente gastroenterologico subisca interferenze di tipo aspecifico con funzioni diverse da quelle digestive, comprese quelle della sfera sessuale e riproduttiva, che, nel maschio, possono comprendere la perdita di libido o l’impotenza.
Fin qui si è detto delle associazioni casuali tra la patologia dell’apparato digerente e la sfera sessuale. Ma è anche possibile che il disturbo sessuale o riproduttivo sia effettivamente secondario ad una malattia dell’apparato digerente.
Ciò si può verificare per interferenze con i processi di digestione e assorbimento dei precursori delle sostanze ormonali deputate al mantenimento delle funzioni sessuali, peralterazioni del loro metabolismo nel fegato, o per la difettosa sintesi epatica delle proteine vettrici degli ormoni sessuali nel circolo ematico, o per effetti secondari di terapie farmacologiche o chirurgiche di malattie gastroenteriche, o per lesioni che anatomicamente si estendono dall’ apparato digerente agli organi genitali attigui.
La consulenza gastroenterologica risulta quindi, a volte, indispensabile per la corretta gestione di problematiche sia della sfera riproduttiva femminile (disturbi gastroenterici collegati con il ciclo mestruale, epatopatie coincidenti o esclusive della gravidanza. diagnosi e trattamento delle malattie infiammatorie croniche intestinali in gravidanza. infertilità nel corso di patologie croniche epatiche e gastrointestinali) che di quella maschile (impotenza e infertilità nel corso di epatopatie croniche e di malattie del tubO digerente).
E’ noto da molto tempo che i soggetti affetti da grave insufficienza epatica secondaria alla cirrosi alcolica e all’ emocromatosi, ed i soggetti dediti all’abuso di alcool pur in assenza di significative lesioni epatiche, presentano un complesso di alterazioni ormonali dell’ asse ipotalamo- ipfisi- gonadi che provocano, nei maschi, ginecomastia (aumento di volume delle ghiandole mammarie), ipotrofia testicolare, alterazioni della spermiogenesi, riduzione della libido e impotenza. Tali alterazioni possono essere presenti fino nel 70-80% dei pazienti con epatopatia cronica alcolica.
I segni clinici che possono far sospettare la presenza di una patologia epatica correlata all’ abuso di alcool sono il colorito itterico (giallo) della cute, delle mucose, degli occhi e delle urine, il prurito generalizzato con le conseguenti lesioni da grattamento, l’ eritema palmare (arrossamento del palma delle mani), la presenza di ectasie capillari cutanee prevalenti al volto ed al tronco (spider naevi), la tendenza al facile sanguinamento gengivale e cutaneo anche spontaneo (ematomi ed ecchimosi spontanee o per traumi di lievi entità con manifestazioni che vanno sotto il nome di porpora), le alterazioni degli annessi cutanei (unghie, peli), la riduzione del pannicolo adiposo e delle masse muscolari, l’ aumento di volume e di consistenza del fegato e della milza, il versamento di liquido nella cavità peritoneale (ascite) e la ritenzione idrica delle estremità.
In presenza di questi segni alcuni tests principali di laboratorio possono confermare il sospetto di epatopatia e precisarne la causa (determinazione del volume eritrocitario, conta delle piastrine, transaminasi sieriche, gamma GT – tipicamente alterate anche negli stadi iniziali dell’ epatopatia alcoolica -fosfatasi alcalina, bilirubina totale e frazionata, elettroforesi delle proteine seriche, test della coagulazione, determinazione del ferro, della transferrina satura e della ferritina, marcatori virali delle epatiti B e C, dosaggio di alfa-1-antitripsina, cupremia, ceruloplasmina e degli autoanticorpi-antinucleo, -antimitocondrio, -antimuscolo liscio antiantigene comune fegatorene – dosaggio di alfa feto proteina).
L’ ecotomografia addominale, l’ eco-doppler del fegato, ed eventualmente la biopsia epatica possono confermare ulteriormente la diagnosi e fornire preziose informazioni anche prognostiche. Confermata la diagnosi esistono possibilità terapeutiche la cui discussione esula gli scopi di questa trattazione, in grado di migliorare la prognosi e la qualità di vita del paziente.
I pazienti affetti da morbo celiaco o da altre sindromi di malassorbimento (patologie di natura complessa con alterazioni dell’ epitelio assorbente intestinale) possono manifestare disturbi della sfera riproduttiva (amenorrea e infertilità nella femmina, impotenza e infertilità nel maschio), sia per gli effetti della grave denutrizione, sia per probabili alterazioni, secondarie alla malattia stessa, dell’asse ormonale ipotalamo-ipofisi-gonadi. Il morbo di Crohn (malattia infiammatoria cronica intestinale che può colpire segmenti del tenue o del colon o di entrambi e che provoca diarrea, occlusioni intestinali, sanguinamenti dal retto, febbre, dolori addominali, calo di peso, e manifestazioni extra intestinali), può complicarsi con lesioni perianali e pelviche che possono provocare disturbi della sfera genitale sia nella femmina che nel maschio (impotenza per lesione delle strutture nervose preposte all’erezione).
Anche le amputazioni chirurgiche del retto, ed in generale gli interventi della pelvi possono interessare le strutture nervose deputate alle funzioni sessuali e possono comportare problemi psicologici (dovuti al confezionamento di ano artificiale) al compimento dell’ atto sessuale. Talvolta anche alcuni farmaci utilizzati nel trattamento di affezioni dell’apparato digerente e del fegato possono provocare, nel maschio, impotenza o riduzione della libido. Disturbi di questo tipo sono stati meriti in soggetti che assumevano farmaci antiulcera (anti-H2 secretori), antidispeptici (domperidone, metodopramide, levosulpiride), diuretici (spironolattone), interferone (in conseguenza degli effetti depressivi del tono dell’umore).
Reciprocamente, i farmaci eventualmente utilizzati per il trattamento di forme organiche (terapie ormonali a base di androgeni) o funzionali (neurolettici ed antidepressivi) di impotenza maschile possono provocare significativi effetti secondari a carico del fegato, rendendo necessario un monitoraggio laboratoristico (test di funzionalità epatica) e strumentale (ecotomografia dell’addome superiore) durante il loro impiego. Si può concludere affermando che, nel corso delle indagini e degli accertamenti cui viene sottoposto il paziente con problemi di impotenza, è opportuno ricercare anche i segni di una possibile associazione con malattie gastroenterologiche, non sottovalutando la possibilità che il paziente possa giovarsi, per la soluzione del suo problema di impotenza di una corretta gestione terapeutica della concomitante affezione gastroenterica od epatica.
E’ da tener presente infine, che la prevenzione delle complicanze delle malattie gastroenterologiche passate in rassegna, possa ridurre il rischio in questi soggetti di soffrire di disturbi come l’impotenza.

Ettore Vallarino -gastroenterologo
pubblicazione del 1996

LA STIPSI, UN PROBLEMA SEMPRE PIU’ COMUNE

La definizione stessa di stipsi é difficile, in quanto l’evacuazione é un atto fisiologico complesso, con standard diversi a seconda delle zone geografiche e delle abitudini dietetiche, influenzata dall’ambiente familiare e sociale. Inoltre spesso non é facile, per il paziente, valutare il suo funzionamento intestinale, né, per il medico, interpretarlo correttamente. La defecazione va infatti inquadrata in base alla frequenza, completezza, difficoltà e ricorso a lassativi; vanno inoltre considerati forma, peso e consistenza delle feci. In generale, in soggetti sani, nel mondo occidentale, si ritiene che la frequenza media sta compresa tra 3 evacuazioni/die e 3 evacuazioni/settimana. La stipsi é un fenomeno universale, ampiamente variabile per aree geografiche, dieta, fattori socio-economici, età, sesso, farmaci. E’ un problema molto diffuso, che interessa dal 2 al 20% della popolazione generale. Spesso questi soggetti non interpellano il medico e ricorrono preferibilmente ad automedicazioni con un consumo elevatissimo di lassativi, con costi e rischi talora elevati. Il colon, deputato principalmente all’assorbimento di acqua e sali ed alla propulsione del contenuto intestinale, ha una propria attività motoria, controllata in via nervosa, neuroendocrina e ormonale, estremamente variabile (pasti, sonno, emozioni, età, attività fisica). Il retto é invece deputato al deposito delle feci e alla loro espulsione con l’atto della defecazione, in cui intervengono recettori e riflessi nervosi, sistemi sfinterici e muscolari. La stipsi pertanto può dipendere da un rallentato transito del colon, da un alterato meccanismo evacuatorio anorettale o dalla combinazione di entrambi i fattori. L’inquadramento clinico della stipsi presuppone, da parte del medico, un’attenta anamnesi ed una visita accurata, eventuali esami strumentali, per escludere patologie organiche (ecografia, clisma doppio contrasto, colonscopia) vanno riservati a soggetti con sintomi di allarme (perdita di peso, proctoraggie ecc…). In assenza di sintomi di allarme é inizialmente giustificato un periodo di prova con apporto di acqua e fibre in quantità adeguata, correzione di stili di vita non corretti, rassicurazione. In caso di fallimento si consigliano indagini funzionali (tempo di transito del colon, defecografia, manometria ano-rettale…), anche per orientare meglio la terapia che oltre alle suddette norme generali, prevede l’uso di lassativi “fisiologici” come fibre artificiali, lattulosio, procinetici, soluzioni idroelettrolitiche bilanciate. Lassativi più energici e clisteri vanno riservati a situazioni particolari e comunque usati con moderazione. I programmi terapeutici vanno in ogni caso personalizzati e monitorati periodicamente dal curante. Esistono infine tecniche e terapie chirurgiche da utilizzare esclusivamente in casi selezionati.
Paolo MICHETTI Dirigente 2° livello
U.O. Gastroenterologia
Servizio Endoscopia Digestiva E.O
Ospedale Galliera

ALTHEA

Fiori: rosei 

Foglie: digitate ricche di mucillagine
Droga: radici, foglie, fiori
Raccolta: le radici si raccolgono in settembre-ottobre e si utilizzano solo le radici centrali eliminando quelle secondarie.
Principi attivi: mucillagine, asparagina.
Proprietà: emolliente, bechico, disinfiammante.

Uso interno:
Infuso: foglie e fiori (un cucchiaio in una tazza da the, spegnere al primo bollore e lasciare riposare per 10 minuti) per tossi, bronchiti, cistiti, irritazioni gastriche.

Uso esterno:
Decotto: 20 g di radice in 200 cc di acqua bollente (bollire 10 minuti) per gargarismi, lavande ed irrigazioni vaginali ascessi.
Radice: tale e quale viene data ai bambini da masticare per facilitare la dentizione.