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VARICI & GRAVIDANZA

Le varici in gravidanza compaiono in donne costituzionalmente predisposte: la gravidanza agirebbe cioè come fattore scatenante o accelerante la comparsa di un problema già presente, anche se ancora non venuto alla luce. Il manifestarsi di tale malattia non è infatti obbligatorio, ma è tuttavia un evento molto frequente, nel momento in cui si venga a realizzare la combinazione di uno o più fattori scatenanti: la gravidanza ne rappresenta uno dei più importanti.
Questo particolare momento della vita di una donna, quindi, ha una notevole influenza sulla storia naturale della malattia varicosa, essendo infatti in grado sia di determinare l’aggravamento di una patologia preesistente, sia di evidenziare i segni di una insufficienza venosa ancora non clinicamente evidente; peraltro in alcuni casi esiste la possibilità di una sua regressione spontanea nei mesi successivi al parto.
La frequenza di comparsa delle varici aumenta con l’aumentare del numero delle gravidanze; inoltre, un intervallo di tempo troppo breve tra una gravidanza e quella successiva può non permettere il recupero del tono della parete venosa (cioè il ritorno alla sua normale elasticità e capacità di contenere il volume di sangue circolante) e nemmeno un adeguato recupero del normale peso corporeo.
L’insorgenza della malattia varicosa, se rapportata alle varie epoche gestazionali, presenta un andamento statistico di questo genere:
· 70% nel primo trimestre;
· 25% nel secondo trimestre;
· 5% nel terzo trimestre;
tendendo quindi a manifestarsi fin dalle prime settimane di gravidanza.
Da questi semplici dati numerici emerge con evidenza l’importanza della diagnosi precoce di una eventuale insufficienza venosa degli arti inferiori, così come la precoce adozione di misure preventive o terapeutiche.
Se dopo la prima gravidanza molto spesso le vene varicose tendono a regredire spontaneamente, questo tuttavia non avviene con quelle successive, in quanto il sovraccarico lavorativo (nel corso della gravidanza il volume di sangue circolan­te aumenta considerevolmente) e di peso tenderà a danneggiarle in maniera irreversibile.
Bisogna ricordare che la presenza di varici delle gambe non rappresenta solo un disturbo estetico, ma un rischio di insorgenza di complicazioni legate al ristagno di sangue non ossigenato; si andrà quindi dal semplice gonfiore di piedi, caviglie e gambe fino alla flebite(infiammazione di una vena) o alla tromboflebite (occlusione di un tratto di vena): queste ultime sono complicazioni piuttosto serie, che tendono a manifestarsi per lo più verso il termine della gravidanza.
E’ evidente quindi la necessità di prevenire tali problemi o, qualora esistano già, di prendere efficaci contromisure per ridurre l’estensione e l’intensità di tali disturbi, in modo da affrontare la gravidanza con le migliori condizioni circolatorie possibili.

Terapia
Esistono una serie di rimedi che possono essere messi in atto per evitare o ridurre i problemi causati dalle vene varicose in gravidanza.
Si può iniziare con alcune semplici regole di stile di vita: evitare una prolungata posizione eretta così come una prolungata posizione seduta, magari con le gambe accavallate; mantenere un minimo di attività fisica (molto utile in particolare il nuoto); evitare le fonti di calore, che potrebbero causare un peggioramento dei gonfiori delle gambe.
Molto utili, anzi indispensabili, le calze elastiche: rappresentano infatti la più importante ed efficace misura preventiva. Dovrebbero essere indossate anche dalle donne che non presentano varici fin dall’inizio della gravidanza e mantenute per tutta la sua durata, modificando periodicamente il grado di compressione, che dovrà aumentare con il passare dei mesi: sarà specifico compito dello specialista flebologo consigliare il tipo di calza più adatto.
Si possono eventualmente associare farmaci cosiddetti “flebotonici”, in grado di ridurre alcuni dei disturbi che abbiamo citato all’ inizio (gonfiore, pesantezza, formicolii, stanchezza): la loro efficacia è tuttavia inferiore a quella derivante dal costante uso di calze elastiche e dall’ osservanza delle norme di stile di vita delle quali abbiamo parlato.
La terapia chirurgica, l’unica veramente efficace per l’eliminazione delle vene varicose, deve essere tuttavia programmata o prima o dopo la gravidanza.

Giuseppe Serpieri – chirurgo vascolare
pubblicazione 2002

ALTERAZIONI DEL CICLO MESTRUALE

“Il ciclo”
Occorre rapidamente ricordare che il cosiddetto “ciclo” é scandito dal flusso mestruale che rappresenta la sola manifestazione tangibile dell’esistenza, appunto, di un ciclo mestruale; esso é il risultato del complesso gioco degli ormoni sessuali su un tessuto recettore privilegiato, cioè l’endometrio (la mucosa che riveste internamente la cavità uterina, una sorta di moquette che si rigenera mensilmente).

Gli ormoni
Tra gli ormoni sessuali, la classe determinante é rappresentata dagli estrogeni i quali sono i soli a poter esercitare la loro azione su un endometrio a riposo, promuovendo una sua attività proliferativa.
L’altra classe di ormoni sessuali, i progestinici, possono, di contro, agire sull’endometrio soltanto se quest’ultimo é già stato adeguatamente preparato dagli estrogeni. Si può dunque già comprendere come in assenza di estrogeni non possa verificarsi una mestruazione perché appunto l’endometrio non sarà proliferato e quindi non potrà desquamare.

Amenorrea
Si definisce con il termine di AMENORREA l’assenza di flussi mestruali per almeno tre mesi in un soggetto che precedentemente mestruava (Amenorrea SECONDARIA) oppure la non comparsa del menarca (cioè la prima mestruazione) al compimento del 16° anno di vita (Amenorrea PRIMARIA).
Dal punto di vista clinico, però, si preferisce distinguere le varie forme di amenorrea in base alla causa. Per semplificare, distingueremo:
A) Amenorrea di origine ipotalamica;
B) Amenorrea di origine ovarica;
C) Amenorrea di origine uterina;
D) Amenorrea di origine extragenitale.

Amenorrea di origine ipotalamica
L’ipotalamo è quella regione del cervello dove si trovano i centri che controllano il sistema nervoso vegetativo e che coordina i processi più importanti dell’equilibrio organico e nella quale vengono prodotti i cosiddetti ormoni ipotalamici; Esistono forme congenite e forme acquisite di amenorrea ipotalamica.
Forme congenite: si tratta di condizioni assai rare quali la sindrome di Kallman, la sindrome di Laurance Moon-Biedl, difetti di sviluppo encefalico, ecc.
Forme acquisite: possono essere sostenute da diverse condizioni quali:
- Iperprolattinemia (eccessiva produzione ipofisaria di Prolattina dovuta ad un difetto di Dopamina ipotalamica o ad un adenoma ipofisario) che si accompagna spesso ad anovulazione cronica e amenorrea.
- Eccessiva riduzione del peso corporeo (es. neIl’anoressia nervosa) che si accompagna ad una riduzione dell’attività del GnRH (fattore ormonale prodotto nell’ipotalamo e diretto al lobo anteriore dell’ipofisi).
- Traumi psichici che influenzano con meccanismo analogo la secrezione di GnRH (rientra fra questi anche la pseudociesi o gravidanza immaginaria)
- Lesioni organiche quali processi infiammatori, traumi meccanici, neoplasie, terapie radianti, ecc.

Amenorrea di origine ovarica
Esistono diversi quadri di amenorrea ovarica; fra questi ricordiamo:
- Sindrome dell’ovaio policistico si tratta di una condizione nella quale esiste un’eccessiva secrezione di androgeni prodotti daIl’ovaio che finisce per determinare un quadro clinico caratterizzato, nelle forme più eclatanti, da sterilità, irsutismo o ipertricosi, obesità, amenorrea secondaria con conseguente cronica anovularietà.
- Menopausa precoce condizione la cui etiologia è ancora in parte sconosciuta ma nella quale meccanismi di tipo genetico-familiare e forse anche autoimmune vengono sempre più chiamati in causa.
Il quadro è caratterizzato da un precoce esaurimento funzionale dell’ovaio per cui intervengono alterazioni del ciclo mestruale dapprima sotto forma di oligomenorrea con cicli anovulari per arrivare poi all’amenorrea secondaria.
- Sindrome dell’ovaio resistente è una condizione che si manifesta in giovani donne con normale sviluppo puberale e normali caratteri sessuali secondari ma con amenorrea primitiva o secondaria dovuta forse alla presenza di anticorpi antirecettori ovarici o per l’esistenza di un difetto recettoriale o postrecettoriale.
- Altre condizioni esistono poi forme di amenorrea secondaria a tumori ormono-secernenti dell’ovaio o a lesioni ovariche di varia natura (infiammatoria, infettiva, radiante, ecc;)

Amenorrea di origine uterina
Si riconoscono essenzialmente due forme di amenorrea uterina:
- Amenorrea da sinechie o aderenze intrauterine: Si tratta di una condizione (nota anche come sindrome di Asherman) che si può riscontrare, anche se non frequentemente, dopo raschiamenti della cavità uterina ad esempio per metrorragie (sanguinamento di origine uterina) post­partum o per aborto.
Amenorree secondarie a malformazioni uterine: possono essere di natura congenita (es. agenesia utero-vaginale o sindrome di Rokitansky caratterizzata da atresia uterina, aplasia vaginale e ovaie normali) oppure, più frequentemente, di natura acquisita (infettive quali la TBC, traumatiche, tossiche, da farmaci, ecc.)

Amenorree di origine extragenitale
Tra le condizioni patologiche a carico di altre ghiandole endocrine che possono indurre alterazioni del ciclo mestruale e, in particolare, amenorrea ricordiamo principalmente quelle di origine cortico­surrenalica e quelle di origine tiroidea.
Per quanto riguarda le prime, si tratta di condizioni caratterizzate da un quadro più o meno diretto di iperandrogenismo cui si associano varie alterazioni del ciclo di cui l’amenorrea secondaria rappresenta una delle più frequenti. Ricordiamo, solo a titolo esemplificativo e mnemonico, la sindrome di Cushin, l’iperandrogenismo corticosurrenalico postpuberale, i tumori corticosurrenalici, ecc.
Per quando riguarda le alterazioni del ciclo conseguenti a patologia tiroidea, occorre sottolineare che tanto l’iperfunzione (ipertiroidismo) che l’iporfunzione (ipotiroidismo) possono influire sulla normale regolazione dei cicli mestruali. Nel primo caso, i livelli circolanti di androgeni ed estrogeni risultano aumentati per cui si verifica una situazione simile a quella che si ha nell’ovaio policistico, di cui abbiamo già parlato, con cicli anovulari e, in genere, oligomenorrea o amenorrea secondaria.
Nel secondo caso, si verifica un’inappropriata secrezione delle gonadotropine conseguente all’eccessiva conversione di androgeni in estrogeni (estradiolo prima e poi estriolo) con conseguente disfunzione ovarica.
Bisogna, infine, ricordare che un certo numero di iperprolattinemie patologiche è dovuto aduna condizione di ipotiroidismo.

Brevi considerazioni terapeutiche
Non esiste una terapia dell’amenorrea, intesa come entità nosologica a sé, ma esistono strumenti terapeutici che non possono prescindere dalle cause dell’assenza del ciclo. Non solo, occorre tenere presente molte altre variabili (età, situazione emotiva, abitudini di vita, ecc;) la cui importanza può non essere marginale nel valutare un quadro di amenorrea e per poterlo differenziare da situazioni chiaramente patologiche.
Comunque, in genere, la terapia delle alterazioni del ciclo mestruale è una terapia medica, in particolare, ormonale, tranne nei casi in cui l’amenorrea sia una delle conseguenze di condizioni patologiche non disfunzionali (es. neoplasie, malformazioni, processi infiammatori o infettivi) in cui il trattamento chirurgico o medico deve mirare alla risoluzione della patologia primitiva.

Sandro Viglino
Specialista in Ginecologia e Ostetrica
Pubblicazione Dicembre 1996

CEFALEA PREMESTRUALE

Il motivo dell’esecuzione del dosaggio ormonale era dovuto al fatto che le ripetute assunzioni di ormoni prescritti dal ginecologo curante avevano fatto assopire il problema solo temporaneamente, infatti al cessare dell’assunzione dei preparati ormonali ricomparivano flusso mestruale abbondante e cefalea premestuale fortissima.
Nel momento in cui si presenta a me la paziente riferisce solo la cefalea mentre il flusso è quantitativamente normale. Le caratteristiche di questa cefalalgia sono insite nella continuità di durata dalla sua comparsa alla risoluzione per lisi; ha una localizzazione occipito-temporo-parietale con tendenza alla generalizzazione e nella fase acuta si manifestano fotofobia e necessità di immobilità e silenzio assoluti.
La durata è giornaliera con esordio mattinale ed aumento d’intensità durante le ore della mattinata fino al raggiungimento di un plateau che rimane costante fino alle ultime ore del pomeriggio quando inizia a calare d’intensità ed esaurirsi poi nella tarda serata. L’assunzione dei comuni analgesici più o meno potenti non dà alla paziente il benché minimo risultato.
Durante il colloquio ho la possibilità d’individuare la tipologia TAE YANG della paziente, secondo i canoni della Medicina Tradizionale Cinese, che ha una fortissima sovrapponibilità DIATESI 1 o ALLERGICA secondo MENETRIER, per cui decido di eseguire un trattamento di Agopuntura con un supporto terapeutico “per os” con fitoderivati e oligoelementi.

AGOPUNTURA: Le sedute sono mensili e premestuali, l’ azione la programmo sul sistema TCHONG MO che controlla l’asse ipofisi-tiroide-surrene­ovaio.
Eseguo la connessione TCHONGMO YANG OE’ usando i seguenti punti:
4SP; 4/5CV; 6PC; 5TE; 25-30-44S; 38- 41GB, tutto in dispersione. Durante il trattamento compare un cospicuo e largo trattamento intorno alle aree d’infissione degli aghi addominali; gli aghi nella loro posizione riproducono grossolanamente la forma dell’utero a conferma che il problema, alla fine, è scatenato da quell’organo. Invariati tutti gli altri punti

FITOTERAPIA: Miscela di SALVIA, OENOTHERA e BORRAGINE. Una dose un’ora prima di pranzo, una dose un’ora prima di cena.

OLIGOTERAPIA: ZINCO-RAME; MANGANESE.
Una dose dell’uno e dell’altro a giorni alterni.

RISULTATI: Dopo un mese dalla prima seduta di agopuntura e di trattamento con fito-oligoterapia la paziente dichiara la non comparsa di cefalea e così via di mese in mese fino ad oggi salvo la comparsa di qualche nevralgia cefalica di altra natura.

CONSIDERAZIONE: L’agopuntura ha svolto un’azione riequilibrante sull’asse ipofisi-tiroide-surrene-ovaio supportata dal trattamento oligoterapico mediante MANGANESE in quanto la paziente appartiene alla DIATESI l; Con ZINCO catalitico che è un grande regolatore di quel “direttore d’orchestra” che è la funzione ipofisaria; l’aiuto del RAME che è un altro grande catalizzatore.
Non meno importante è stato l’intervento fitoterapico della SALVIA altro grande riequilibrante ormonale della sfera ginecologica che può intervenire nelle disfunzioni ovariche, nei disturbi della menopausa e nella sindrome premestuale.
L’azione regolatrice ormonale della SALVIA contribuisce all’attenuazione della sintomatologia algica e spasmodica dovuta ai principi attivi contenuti nell’olio essenziale.
In più vanno considerate la BORRAGINE e l’OENOTHERA che sono ricchissime di acido gamma-linolenico (GLA) acido grasso derivante dall’acido Cis-linolenico e dalla cui trasformazione derivano anche le PROSTAGLANDINE l (PGE 1) altri acidi grassi importantissimi per il buon funzionamento dell’organismo nonché mediatori dell’infiammazione.
Le PGE l inibiscono alcune azioni collaterali della prolattina ormone implicato sia nei problemi a carico del seno sia in quelli del ciclo mestruale, inoltre essendo derivate del GLA in natura contenuto nell’olio di BORRAGINE ed OENOTHERA è possibile dedurre, ancora una volta, che la loro assunzione possa essere d’aiuto anche nelle mastopatie cicliche legate al periodo mestruale.
Vincenzo MATERA
Medico Chirurgo
S.Terenzo di Lerici
(La Spezia)
Pubblicazione Ottobre 1995

ESSERE DONNA.: IL CICLO MESTRUALE

Il processo riproduttivo inizia nell’ ovaio con lo sviluppo di formazioni chiamate “follicoli”. Nei follicoli si sviluppano e giungono a maturazione gli ovociti, ma ad ogni ciclo generalmente viene espulso un solo ovocita.
Durante l’infanzia i follicoli sono solo “primordiali”, cioé “immaturi”.
FSH e LH nella donna agiscono sulle ovaie; LTH promuove la produzione di latte nella ghiandola mammaria (questo ormone viene chiamato anche prolattina). Le ovaie sono quasi completamente quiescienti nell’infanzia. A partire dagli 8-9 anni fino alla pubertà (11-15) le gonadotropine cominciano a venire prodotte dall’ipofisi in quantità sempre crescenti. Nel periodo della pubertà l’FSH comincia ad essere prodotto in grandi quantità ed agisce facendo maturare i follicoli; in questa fase l’LH agisce sinergicamente con l’FSH. l follicoli ovarici sono costitutiti da cellule che, durante la maturazione dei follicoli stessi, producono grande quantità di estrogeni. Durante ogni ciclo l’uovo espulso dal follicolo ovarico viene “aspirato” dalle tube che sono dotate di “ciglia”, formazioni che, con il loro movimento, fanno procedere l’uovo attraverso le tube fino all’utero. L’FSH serve per la maturazione del follicolo l’LH invece provoca la rottura del follicolo al momento dell’ ovulazione. Entro poche ore dall’ovulazione le cellule di quello che era il follicolo ovarico vanno incontro a luteinizzazione: cioé diventano il “corpo luteo” che secerne principlamente progesterone.
Il “corpo luteo” si ingrandisce fino al settimo-ottavo giorno dopo l’ovulazione; poi, se l’uovo non é stato fecondato, regredisce e, verso il dodicesimo giorno del ciclo, perde la sua funzione secretoria trasformandosi nel corpo “albicante” (costituito da tessuto connetivo biancastro).
Gli ormoni prodotti dall’ovaio, estrogeni e progesterone, agiscono sugli organi sessuali della donna che, sotto l’influsso degli estrogeni, passano dallo stato infantile allo stato adulto: le tube, l’utero, la vagina si ingrandiscono e così anche i genitali esterni.
Gli estrogeni agiscono anche sull’ epitelio vaginale, sull’endometrio dell’utero e determinano anche l’aumento del numero delle cellule ciliate delle tube. Agiscono anche sulle mammelle e sulle ghiandole mammarie.
Un’altra importante azione degli estrogeni é quella esercitata sullo scheletro. Nella donna durante la pubertà aumentano la velocità dell’accrescimento corporeo, provocano la saldatura dell’ epifisi con la dialisi delle ossa lunghe.
Agevolano la crescita ossea favorendo la ritenzione di calcio e di fosfati.
Gli estrogeni esercitano un’azione anche sulla distribuzione dei peli corporei, soprattutto nella regione pubica.
Il progesterone ha i seguenti effetti: modifica l’endometrio uterino per prepararlo all’impianto dell’uovo fecondato, fa diminuire le contrazioni dell’utero, prevenendo così eventualmente l’espulsione dell’uovo impiantato; influisce anche sulle tube e, insieme alla prolattina, sulle cellule delle mammelle deputate alla secrezione del latte.
Gli ormoni gonadotropi FSH e LH provocano la secrezione di estrogeni e di progesterone da parte delle ovaie, però gli estrogeni ed il progesterone influiscono sull’ipotalamo il quale a sua volta influisce sull’adenoipotìsi facendo diminuire la secrezione degli ormoni gonadotropi. Gli estrogeni ed il progesterone esercitano un feedbeck (controllo) negativo sulla secrezione ipofisaria: di FSH e di LH.
L’ipotalamo secerne un fattore liberante l’LFSH, un fattore liberante l’ LH e un fattore inibente l’LTH.
Contemporaneamente al ciclo mestruale c’é un ciclo uterino nel quale l’endometrio subisce moditìcazioni adatte a ospitare l’uovo fecondato (embrione).
Nel ciclo uterino ci sono quattro fasi:
I. Fase desquamativa: dopo la mestrua­zione la mucosa uterina ha perso il rive­stimento epiteliale;
2. Fase rigenerativa: l’epitelio si rigenera. 3. Le ghiandole uterine si ingrandiscono e si allungano.
4. Fase secretiva: le ghiandole uterine si dialatano e producono una secrezione che si raccoglie nel lume ghiandolare. In base agli ormoni il ciclo mestruale presenta varie fasi:
1. Fase mestruale,
2. Fase follicolinica,
3. Fase ovulatoria,
4. Fase luteinica,
5. Fase premestruale.
La perdita mestruale é dovuta a rottura di piccoli vasi sanguigni a livello uterino; lo spasmo di piccoli vasi sanguigni (arteriole spirali uterine) determina la fine della mestruazione. AI momento dell’ovulazione le ghiandole uterine secernono una maggiore quantità di muco che diventa poco vischioso, filante; si osserva il fenomeno della cristalizzazione del muco cervicale: il muco cervicale, disteso su un vetrino, dopo essicazione, esaminato al microscopio, assume l’aspetto a foglia di felce. La cristalizzazione del muco generalmente compare solo durante la fase ovulatoria, perciò serve come test indiretto per constatare la data dell’ovulazione. La fluidificazione del muco cervicale facilita la penetrazione degli spermtozoi nella cavità uterina, ciò rende più facile l’incontro tra lo spermatozoo e l’ovocita.
Il progesterone, secreto durante la seconda metà del ciclo, fa innalzare la temperatura corporea di mezzo grado centigrado, tale aumento si ha a partire dal giorno seguente l’ovulazione.
La pillola anticoncenzionaIe, costituita da estrogeni e progesterone (o dalla combinazione di entrambi gli ormoni), fornendo questi ormoni all’organismo femminile, blocca la secrezione di FSH e di LH, e impedisce quindi il verificarsi dell’ ovulazione.
A volte può succedere che ci siano cicli mestruali· senza ovulazione: si tratta di cicli “anovulatori”. Durante la pubertà i primi cicli possono essere anovulatori.
Menopausa: Intorno ai 45-50 anni i cicli mestruali diventano irregolari fino a cessare completamente. Con la loro cessazione si ha la menopausa. Le ovaie non funzionano più, quindi la produzione di estrogeni diminuisce molto, ed é così piccola da non essere più in grado di inibire al produzione di LH e FSH; perciò l’LH e l’FSH dopo la menopausa vengono prodotti in grande quantità. Il periodo a partire dal quale i cicli mestruali diventano irregolari fino a cessare completamente, si chiama climaterio. La mancanza di estrogeni provoca disturbi nella donna: vampate di calore, rossore cutaneo, ansietà, depressione, osteoporosi, maggior incidenza di malattie cardiovascolari. Tutto ciò spesso richiede una terapia sostitutiva ormonle.

Luciana CASTAGNOZZI
Medico chirugo
Milano
Pubblicazione Marzo 2000

LE ANEMIE IN CORSO DI GRAVIDANZA

In corso di gravidanza, quando al fabbisogno in ferro della madre si aggiunge il fabbisogno in ferro del feto, stati ferro­canziali non ancora clinicamente evidenti possono esplodere, specie alla fine della gravidanza, quando alla fisiologica anemia da emodiluizione (legata all’aumentato volume plasmatico da probabile iperaldosteronismo), si aggiunge la sottrazione ai depositi materni di varie centinaia di mg. di ferro necessari per il feto: ricordiamo che ogni gravidanza costa alla madre 500 mg. circa di ferro.
Ciò costituisce un decimo del patrimonio globale in ferro dell’ organismo materno e le pluripare quindi sono molto soggette alle anemie da carenza di ferro. Pertanto l’ostetrico deve lavorare a stretto contatto con l’ematologo per documentare lo stato anemico e correggerlo adeguatamente.
Sarebbe lungo discutere in breve spazio la patogenesi delle anemie da carenza di folati e/o di Vit. B 12 che possono insorgere in corso di gravidanza. C’è da sottolineare comunque che è dimostrato come i folati sierici materni vengano intrappolati nella placenta e ciò probabilmente per essere prontamente disponibili per il feto, il che ha come conseguenza una diminuita disponibilità dei folati stessi per eritropoiesi materna. Dopo il parto, con l’espulsione della pla­enta, si perdono notevoli quantità di folati e poiché le riserve di folati, a differenza delle riserve di Vit. B 12 (che assommano a circa 3000 gamma) sono estremamente esigue, può verificarsi nel post partum una anemia da carenza di folati che si manifesta con un midollo megalomacroblastico e, a livello periferico, con un’anemia macrocitica.
Altro aspetto che è necessario tener presente nella donna in gravidanza è la possibilità che la gravidanza stessa metta in evidenza uno stato anemico congenito ignorato prima della gravidanza.
Ci riferiamo in particolare allo stato betatalassemico eterozigotico che, come è noto, può passare del tutto inosservato dal punto di vista clinico in soggetti di estrazione sarda, meridionale o originari, delle regioni del Delta del Po.
In questi soggetti, in cui si possono avere normalmente valori di ematocrito intorno al 30-33% con un alto numero di globuli rossi (5-6 milioni di globuli rossi x mm3, dato il carattere microcitico ipocromico della beta talassemia), si possono, durante la gravidanza, (specie nel terzo trimestre quando fisiologicamente si ha una emodiluizione legata probabilmente all’ iperaldosteroli- smo), manifestare marcati stati anemici che, ad un accurato esame dello striscio di sangue e ad un accurato dosaggio dell’emoglobina A2, si rivelano essere legati essenzialmente alla persistenza di una notevole quantità di emoglobina A2.
E’ chiaro che in questa terza eventualità, a differenza dei due stati anemici precedentemente descritti e cioè dalla anemia da carenza di folati e/o Vit. B 12, non è necessaria alcuna terapia, poiché dopo il parto, con la riduzione dell’ eccessivo volume plasmatico, si ritornerà a valori di ematocrito “normali” per la persona affetta da beta talassemia eterozigote e quindi ben tollerabili dal soggetto stesso. Nei due primi casi invece, e cioé nella anemia da carenza di folati e/o Vit. B 12, l’ostetrico e l’ematologo dovranno concordare la terapia marziale e quella con acido folico o Vit. B 12, da eseguire in modo da riportare al più presto possibile la donna nel post-partum ad uno stato ematologico di piena normalità.
Questo anche per prevenire tutti quegli stati di pseudo esaurimenti nervosi che si verificano spesso nelle donne post par­tum e che molto spesso sono legati esclusivamente alla carenza di sostanze eritropoietiche (ferro, acido folico o Vitamina B 12) che sono indispensabili per il pieno benessere e per la piena salute della donna.

Prof. Emanuele Salvidio
Ordinario Ematologia,
Direttore della Cattedra di Ematologia
Università di Genova.
Pubblicazione Giugno 1982

UN RAPPORTO DI FIDUCIA: MEDICO-DONNA

Abbiamo fatto questa premessa per sottolineare come il progresso di una società si misuri anche e soprattutto con lo sforzo culturale compiuto dai tecnici, dagli operatori nel cercare di «concretizzare» e di «trasmettere» le conquiste” stese del progresso alla collettività. È ovvio dunque che se la Medicina cambia, deve cambiare anche: il «modo» di fare Medicina, quindi anche il tipo di rapporto tra l’operatore (il medico )ed il cittadino. ”
D’altra parte però, i mutamenti di una società non sono quasi mai traumatici ed è naturale che gli stessi rapporti interpersonali si modifichino non sempre nel modo più giusto. È così che anche il rapporto medico-paziente, in questi ultimi anni, è mutato con risultati a nostro parere un poco controversi: da un lato c’è stata senza dubbio e per diversi motivi una maggiore umanizzazione di detto rapporto; dall’altro però la confusione dei ruoli unita ad una sorta di individualismo e di scetticismo dell’uomo comune nei confronti delle cose «importanti» ha portato ad una ridotta credibilità del ruolo del medico ­specie nelle grandi città – il quale si è trovato così a pagare oggi lo scotto di errori passati.
Tutto questo nel momento in cui nella «giungla» sanitaria fatta di tickets, di ritardi, di deficienze, di cavilli burocratici, di lotte di potere ecc. più forte è il disorientamento del cittadino e corrispondentemente più forte è dunque il suo desiderio di affidare non solo il proprio corpo ma anche la propria psiche ad un medico di fiducia.
Se questo è vero per tutti, a maggior ragione è vero per la donna quando si deve rapportare col ginecologo. Ma questo non perchè la donna abbia costituzionalmente più bisogno dell’uomo di un appoggio psicologico, ma perchè in effetti nel corso della sua esistenza essa si trova a dover affrontare e superare eventi di estrema importanza quale quello di dare origine. ad una nuova vita. D’altra parte l’emergere di nuove patologie femminili unitamente ad una diversa coscienza del proprio corpo, inducono sempre più spesso la donna a rivolgersi al ginecologo per porre domande e cercare risposte.
Questo è tanto più vero, quando più diffusa è l’informazione e la divulgazione scientifica: non c’è quotidiano, rivista, servizio televisivo che non si occupi di Medicina ed in particolare di problematiche femminili.
Se ciò può essere importante come elemento di crescita culturale e di educazione sanitaria della popolazione, è anche vero che talvolta può essere causa di errate interpretazioni e può alimentare la convinzione che sia possibile gestire da soli (anche farmaco logicamente) la propria salute.
Questo sarebbe un errore gravissimo che potrebbe avere spiacevoli conseguenze che porterebbero poi inevitabilmente a richiedere l’intervento del medico.
In altri termini, quel che vogliamo dire è che la donna deve rivolgersi al medico non con un atteggiamento scioccamente fideistico, ma valutando razionalmente se le qualità umane e professionali del medico consentono di trovare una risposta ai propri problemi.
L’esempio concreto che meglio ci sembra chiarire quanto abbiamo esposto, è fornito dalla donna che affronta una gravidanza e che si rivolge al ginecologo, magari per la prima volta nella sua vita. La gravidanza è un evento estremamente impegnativo: oggi più che mai. La donna si è notevolmente emancipata in questi ultimi anni: oltre ai più tradizionali impegni familiari, ha oggi responsabilità lavorative spesso faticose, talvolta con compiti di direzione, ambizioni di carriera, necessità di spostamenti frequenti con diversi mezzi di locomozione e così via.
La gravidanza può rappresentare una limitazione, un condizionamento a tutto ciò. Se poi ci sono problemi nel corso della sua evoluzione, a questo si aggiunge la necessità di riposo forzato, di terapie durature, di controlli, di indagini diagnostiche ecc. Se dunque non si instaura un rapporto di fiducia, di rispetto (paritario, non gerarchico) tra donna e medico, si potrà arrivare ad incomprensioni, a scontri, ad ostilità, con conseguenze oltremodo negative per il prosieguo della gravidanza stessa.
Molti altri esempi si potrebbero fare per sottolineare l’importanza di un tale rapporto: la donna che decide di interrompere una gravidanza, l’adolescente che si appresta a misurarsi con la propria sessualità, la moglie afflitta da difficoltà relazionali psicologiche e fisiche col proprio marito e così via. Una condizione è però comune e va salvaguardata: un corretto e fiducioso rapporto col proprio medico. Spesso soltanto questo riesce a «guarire» situazioni dove qualsiasi farmaco fallisce.

Sandro M. Viglino
Specialista in Ginecologia
e Ostetricia
Pubblicazione Febbraio 1995

IPERTENSIONE IN GRAVIDANZA

Per prima cosa bisogna dire che spesso «ipertensione in gravidanza» equivale ad indicare una sindrome che può insorgere nella seconda metà della gravidanza stessa e che va sotto il nome di «gestosi». Quest’ultima è infatti caratterizzata, nella sua espressione clinica più completa, da 3 sintomi principali che sono: edemi (E), proteinuria (P; cioè presenza di proteine, di albumina in particolare, nelle urine), ipertensione (H). Infatti nella sua accezione più completa, la gestosi polisintomatica (cioè con tutti e tre i sintomi) viene anche indicata come EPH gestosi.
Questo spiega perché occorre distinguere tra l’ipertensione indotta dalla gravidanza e l’ipertensione precedente la gravidanza (e che può, ma non necessariamente, vedere sovrapporsi le caratteristiche cliniche della prima).
Anche per quel che riguarda la frequenza, ci sono differenze tra le due forme: infatti si calcola che l’incidenza complessiva dell’ipertensione in gravidanza si aggiri intorno al 6%, mentre le manifestazioni ipertensive che caratterizzano la EPH gestosi varino dal 3% al 5% circa (anche se secondo qualche autore l’incidenza di tutte le sue forme considerate oscillerebbe dal 3% al 13%).
Dal punto di vista della diagnosi differenziale per quanto non sempre agevole, possiamo affermare che, un elemento sufficientemente discriminante è dato dal fatto che la donna gravida che va incontro alla gestosi presenta un’anamnesi negativa per quel che riguarda l’ipertensione, è in genere una primigravida, ha un’età sotto i venti o sopra i trentacinque anni, e sviluppa una situazione ipertensiva a partire, in genere, dalla 20° settimana di gravidanza (nella donna con ipertensione precedente la gestione c’è un’anamnesi positiva, alti valori pressori possono essere rilevati prima della 20° settimana e possono persistere a tempo indefinito dopo il parto).
In caso di ipertensione in gravidanza, per il feto esiste un maggior rischio di morte endouterina, di basso peso alla nascita e di parto prematuro. D’altra parte non bisogna dimenticare che l’ipertensione in corso di gravidanza rappresenta la più frequente causa di mortalità materna nel periodo gravidico-puerperale (circa il 20% sul totale delle morti materne). La prognosi risulta particolarmente severa quando, in caso di gestosi, si passa da una situazione definita di «preeclampsia» (lieve o grave), caratterizzata da cefalea, disturbi visivi, dolore epigastrico a barra, acufeni ad una complicanza estremamente seria indicata col termine di «eclampsia o attacco eclamptico», caratterizzata da perdita di coscienza, convulsioni ed anche coma.
Per ciò che riguarda le cause ed i possibili fattori di rischio, abbiamo già detto in precedenza che permangono ancora incertezze e ipotesi discordanti. Sono stati chiamati in causa fattori costituzionali, razziali, geografici, climatici, dietetici, ma tutti, per un motivo o per l’altro, discutibili. Altri autori hanno sottolineato il ruolo svolto da processi coagulativi intravasali o da talune sostanze vasoattive come la renina e l’angiotensina. Altri ancora hanno avanzato teorie immunologiche o basate su alterazioni dell’equilibrio del tono vasale nonché dell’aggregazione piastrinica. L’ipotesi, comunque, sulla quale esiste la maggiore uniformità di opinioni è quella proposta da Page nel 1972 in base alla quale si prevede l’esistenza di un circolo vizioso patogenetico su cui intervengono, in misura e a livelli diversi, fattori predisponenti o coadiuvanti.

Profilassi e terapia
Non è certo casuale che la frequenza delle complicazioni legate alla gestosi (eclampsia convulsiva, distacco di placenta normalmente inserta, coagulazione intravascolare disseminata, apoplessia utero-placentare) si sia sensibilmente ridotta da quando la pratica di un periodico controllo clinico in corso di gravidanza si è diffusa tra la popolazione. D’altra parte un controllo medico attuato già in epoca pre-concezionale permette di indivuduare e di trattare quelle condizioni patologiche preesistenti alla gravidanza e favorenti l’insorgenza di ipertensione: tra queste ricorderemo le malattie renali (specialmente la glomerulonefrite acuta e cronica), le vasculopatie ipertensive (ivi compresa l’ipertensione essenziale), il diabete e l’obesità.
Per quel che riguarda il trattamento, va detto che esistono alcune regole generali che debbono essere scrupolosamente attuate; esse sono rappresentate da: riposo (a letto, eliminando tutti gli stimoli esterni che possono risultare fastidiosi per la paziente quali la luce ed i rumori); dieta (controllata ma senza eccessive restrizioni); controllo metabolico, idroelettrolitico e della funzione intestinale.Ricordando che in caso di preeclampsia grave la terapia migliore resta l’espletamento del parto (quando naturalmente ciò è possibile), nei casi in cui le condizioni materne lo consentano, se non vi è sofferenza fetale e quando l’epoca gestazionale è incompatibile con la maturità fetale, si può ricorrere al trattamento farmacologico. Il discorso qui potrebbe farsi molto lungo ed impegnativo, ma basterà ricordare che possiamo disporre di alcuni gruppi di farmaci (beta-bloccanti, vasodilatatori periferici come l’idralazina, simpaticolitici centrali come l’alfametildopa e la clonidina) che, se usati in modo mirato e con cautela, possono garantire una prosecuzine pressoché normale della gravidanza, almeno fino ad un’epoca in cui le possibilità di sopravvivenza del feto siano decisamente buone.

Sandro Viglino
Specialista in Ginecologia e Ostetricia
Università di Genova
Pubblicazione Febbraio 1984

ROSOLIA E TOXOPLASMOSI IN GRAVIDANZA

Bisogna inoltre aggiungere che, a seconda del periodo in cui si manifesta una qualsiasi infezione materno-fetale, si parla di:
- embriopatia infettiva quando compare nel 1° trimestre di gravidanza
- neonatopatia infettiva quando viene contratta in un periodo vicino alla nascita, ad esempio durante il travaglio di parto.
È ancora necessario premettere che ogniqualvolta di verifica una infezione intrauterina, le conseguenze che ne derivano possono essere diverse. Si può avere infatti:
- aborto
- morte endouterina del feto
- fetopatia
- neonato sano
- neonato apparentemente sano ma che avrà della manifestazioni tardive.
Naturalmente l’una o l’altra eventualità si potrà verificare in base all’esistenza di determinate variabili: epoca della gravidanza in cui l’infezione viene contratta, difese immunitarie materne, virulenza dell’agente patogeno e così via.

ROSOLIA
E’ una malattia causata da un virus (Togavirus; ma, secondo altri, potrebbe trattarsi di un Arbovirus); si tratta inoltre di una malattia endemica (vale a dire è presente tutto l’anno), epidemica (presenta cioè un picco di massima frequenza in primavera) e pandemica (ricorre cioè ogni 6-9 anni perdurando per 2-3 anni). Ha un’incubazione di circa 15-18 giorni dopodiché si manifesta con eruzione cutanea (rash rubeolico), febbre, ingrossamento dei linfonodi nucali, retrocauricolari e latero­cervicali. Questo è ciò che si verifica nel bambino o nell’adulto; naturalmente assai diverse sono le conseguenze quando la rosolia viene contratta da una donna gravida.
Infatti le manifestazioni più importanti, sul piano clinico, che contraddistinguono la rosolia congenita sono:
a) il ritardato accrescimento intrauterino del feto: questo è presente in oltre il 60% dei casi.
b) la sordità, specie dopo il primo anno di vita.
c) le cardiopatie, soprattutto su base malformativa (pervietà del dotto di Botallo, stenosi dell’arteria polmonare, stenosi della vena polmonare, ecc.)
d) le lesioni oculari (cataratta, retinite, glaucoma) presenti in un terzo dei casi.
e) anomalie cerebro-meningee e neuropsichiche ..
f) alterazioni ossee metafisarie nonché compartecipazioni renali, polmonari o pancreatiche.
Bisogna precisare che nella nostra area geografica la maggior parte delle donne (circa
l’ 80%) ha contratto la rosolia in età infantile o comunque appare essere Immunizzata nei suoi confronti. Pertanto solamente il 20% della popolazione femminile corre il rischio di contraria durante un’eventuale gravidanza. Non solo, ma ciò che è importante sottolineare è che il rischio di contrarIa varia a seconda dell’epoca di gravidanza; infatti il rischio è massimo durante il primo mese di gestazione (oltre il 50%), scende al 30-50% durante il secondo mese, è del 10-15% nel terzo mese e meno del 5% nel quarto (Fig. 1). Se ne deduce che dopo la 16a settimana il contagio transplacentare è eccezionale per cui si può anche affermare che dopo il quarto mese di gravidanza è praticamente impossibile una fetopatia rubeolica.
Discorso analogo va fatto anche per la gravità delle manifestazioni cliniche: infatti queste sono decisamente più frequenti e gravi nel primo mese di gestazione e decrescono poi in modo scalare nel secondo, terzo e quarto mese.
Per ciò che riguarda gli aspetti immunologici della rosolia, bisogna dire che le difese dell’organismo sono legate alla formazione di anticorpi quali quelli neutralizzanti, quelli fissanti il complemento e quelli emoagglutinoinibenti. Questi ultimi hanno trovato un utilissimo impiego clinico perchè è dalla loro valutazione che si può stabilire ad esempio se un soggetto è immunizzato oppure no, e, nel caso di infezione, se si tratta di una primo-infezione o di una reinfezione. Ai fini pratici, per poter considerare un soggetto protetto nei confronti della rosolia occorre che il titolo anticorpale così ottenuto sia almeno di 1:32.
Di qui l’importanza di eseguire sempre nelle bambine immediatamente prima della pubertà e nelle donne in età feconda (quando naturalmente non sia noto lo stato d’immunizzazione e quando vengano a contatto col medico) il test rosolia.
Dal punto di vista profilattico due sono le possibilità che si possono avere:
1) nel caso di giovani donne non immuni si deve far ricorso alla vaccinazione;
2) nel caso di donne non immuni gravide si deve instaurare al più presto l’immunoprofilassi passiva. Quest’ultima si basa sull’impiego di gammaglobuline specifiche al fine di evitare il contagio, limitatamente alle prime 16 settimane di gravidanza. Queste donne inoltre dovrebbero essere vaccinate subito dopo il parto.
La vaccinazione, dopo essersi naturalmente accertati di trovarsi in condizioni sicuramente extra­gravidiche, consiste invece nell’inoculo di virus vivi attenuati.
In pratica la vaccinazione va eseguita in corso di mestruazione, dopodiché si prescrive un trattamento contraccettivo per i 2-3 mesi successivi; dopo quattrosei mesi è opportuno controllare il titolo anticorpale per verificare se vi è stata una soddisfacente risposta immunitaria.

Fig. 1

 

Valutazione del rischio di contrarre la rosolia in relazione con l’epoca di gravidanza

Epoca gestionale % di rischio
- I° mese oltre 50%
-II° mese 30-50%
- III° mese 10-15%
- IV° mese meno del 15%

 

TOXOPLASMOSI
Si tratta di una parassitosi causata da un protozoo, il Toxoplasma Gondii, che è un microrganismo strettamente intracellulare. L’uomo adulto si contagia principalmente ingerendo cibi crudi o poco cotti o comunque contaminati (soprattutto carni di manzo, di maiale o di montone che contengono le cisti del parassita), oppure consumando verdure crude e mal lavate inquinate dalle cisti del Toxoplasma o infine direttamente in seguito al contatto con animali infetti (cani, conigli ma soprattutto gatti) che possano essere stati contaminati dal protozoo. Infatti le cisti del Toxoplasma possono essere conservate a livello dell’intestino del gatto e di qui diffuse nell’ambiente esterno tramite le feci. Le cisti, che sono molto resistenti, sono in grado di contaminare verdure o altri animali e quindi essere trasmesse all’uomo. Si calcola che il 50-80% dei soggetti adulti abbiano contratto la malattia (anche senza segni clinici, come accade il più delle volte) e ne risultano dunque protetti.
I problemi dunque nascono qualora ne sia affetta una donna gravida non immunizzata. La fetopatia toxoplasmosica è infatti caratterizzata da ritardato accrescimento intrauterino, manifestazioni patologiche di tipo polivisceritico (a carico soprattutto di cuore, polmoni e fegato), lesioni neuro-oculari (in questo caso può essere presente la classica tetrade: idrocefalo-corioretinite-convulsion i-calcificazioni endocraniche), ritardo mentale (negli anni successivi).
Anche per la Toxoplasmosi esiste una relazione con l’epoca di gravidanza: infatti il rischio di contrarla (che persiste per tutta la durata della gravidanza) al contrario della rosolia aumenta con l’aumentare dell’età gestazionale. Basti pensare che la possibilità di contrarre la malattia è del 20% nel l° trimestre di gravidanza, del 30% nel II° trimestre e del 50% nel III° trimestre (Fig. 2). Analogo a quello della rosolia è invece il discorso che riguarda la gravità delle manifestazioni cliniche: infatti questa diminuisce all’aumentare dell’età gestazionale. Indicando un rapporto tra forme gravi e forme lievi ad epoca di gravidanza, constatiamo che tale rapporto è di 4:1nel l° trimestre, di 1:1 nel lIo trimestre e di O:1 nel III°trimestre (Fig. 3): questo si spiega con il fatto che con l’aumenare dell’età gestazionale aumenta anche la permeabilità placentare al passaggio degli anticorpi anti-Toxoplasma.
Per quel che concerne le indagini diagnostiche, dobbiamo premettere che il tipo di esame cui viene fatto più frequentemente riferimento è il test di emoagglutinazione indiretta (Toxo-test) che utilizza globuli rossi su cui è stato fissato l’antigene toxoplasmico. Altre prove di laboratorio cui si ricorre per porre diagnosi di Toxoplasmosi sono: il test Sabin e Feldmann o Dye-test, oggi un po’ meno usato per il fatto che richiede l’impiego di toxoplasmi vivi e pertanto in parte sostituito dalla reazione di immunofluorescenza indiretta.
Mentre il Dye-test è più specifico per la dimostrazione delle IgG (le immunoglobuline – gli anticorpi cioè – che sono responsabili della immunità permanente e che compaiono a partire dalla 3a setti­mana dalla infestazione), il Toxo­test è utile per dimostrare la presenza tanto delle IgG che delle IgM (anche se forse è meno specifico del Dye-test e del test di fluorescenza indiretta). Dal momento che le IgM non attraversano la barriera placentare, Ia loro dimostrazione nel sangue del funicolo dopo il parto dimostra inevitabilmente la loro origine fetale: di qui l’importanza di alcuni tests specifici per le IgM come il test di Remington. In ogni caso sono considerati protetti i soggetti che presentano un titolo anticorpale di almeno 1:64 al Dye-test o al test di emoagglutinazione indiretta.
E’ evidente che le donne gravide che non sono protette nei confronti della Toxoplasmosi debbono essere periodicamente controllate nel corso della gravidanza ed invitate ad usare alcune precauzioni igieniche (mangiare carni ben cotte, verdura ben lavata ecc.) al fine di evitare il contagio. Nei casi in cui invece si verificasse l’infestazione durante la gravidanza, (dopo aver chiarito che si tratta di una primo-infezione) il trattamento medico consiste nel far ricorso ad un antibiotico (la spiramicina) che ha un buon tropismo placentare, raggiunge il feto e non ha effetti tossici rilevanti; in alternativa si possono fare cicli di terapia con sulfamidici unitamente a pirimetamina: è ovvio che tale terapia dovrà essere continuata per tutta la durata della gravidanza al fine di scongiurare le possibili e gravissime conseguenze dell’infezione endouterina.

Fig. 2

 

Valutazione di contrarre la toxoplasmosi in relazione con l’epoca di gravidanza

Epoca gestazionale % di ricìschio
-I° trimestre 20%
-II trimestre 30%
- III° trimestre 50%

 

Fig. 3

 

Toxoplasmosi: rapportotra forme cliniche e lievi ed epoca di gravidanza

Epoca gestionale

forme gravi : forme lievi

-I° trimestre

4 : 1

-II° trimestre

1 : 1

-III° trimestre

0 : 1

 
Dott. Sandro Viglino
Specialista in Ginecologia e Ostetricia
Università di Genova
Pubblicazione del Dicembre 1983

QUANDO UN ECCESSO DI PELI PORTA LA DONNA DAL GINECOLOGO

Bisogna intanto distinguere tra i due termini di ipertricosi e di irsutismo. L’ipertricosi consiste in un eccessivo sviluppo pilifero nelle sedi normali, senza cioè che vi sia una variazione nella caratteristica distribuzione dei peli nel sesso femminile. L’irsutismo, invece, è quella condizione nella quale i peli non solo sono eccessivi ma distribuiti in sedi dove normalmente non si riscontrano (volto, petto, linea ombelico-pubica, ecc.).
Vi sono forme di irsutismo nelle quali non è possibile dimostrare un preciso disordine ormonale: tali forme si definiscono di «irsutismo idiopatico». Si tratta di donne per lo più giovani che non hanno delle manifestazioni cliniche ben definite: talvolta si associano acne, ipersudorazione, disturbi circolatori alle estremità, alterazioni mestruali ed altri sintomi e segni aspecifici. Si ritiene che in questi casi, oltre ad una predisposizione individuale sulla base di una eredità familiare, esista un’abnorme
sensibilità del sistema pilifero agli androgeni (gli ormoni sessuali dai quali dipende principalmente lo sviluppo dei peli).
Altri tipi di irsutismo riconoscono invece precisi fattori causali. Oltre a forme di rara osservazione quali la sindrome di Achard- Thiers o «diabete delle donne barbute» (diabete, obesità, ipertensione e naturalmente irsutismo) oppure quadri morbosi legati a tumori ipofisari (adenoma ipofisario acidofilo e basofilo), le cause più frequenti di irsutismo possono essere di origine surrenalica od ovarica.
Tra le cause surrenaliche si debbono ricordare la iperplasia surrenale congenita e tardiva e i tumori surrenalici virilizzanti. Tali condizioni morbose si caratterizzano clinicamente per i segni legati alla iperattività dei surreni (ipertensione, atrofia muscolare, alterazioni cutanee, segni di virilismo: ipertrofia del clitoride, atrofia mammana, tendenza alla calvizie, modificazione del timbro della voce ecc.) e biologicamente per un aumentato tasso di testosterone plasmatico.
Sebbene anche in queste condizioni la sfera genitale venga direttamente coinvolta, esistono tuttavia delle situazioni in cui il ginecologo è chiamato a svolgere una parte di primo piano. L’ovaio secerne principalmente androstenedione ed in parte testosterone: tale produzione, che in condizioni normali è minima, in alcuni casi può aumentare enormemente. È il caso dei tumori ovarici virilizzanti (ad esempio l’arrenoblastoma) o della sindrome di Stein-Leventhal caratterizzata da un’abnorme produzione di androstenedione e soprattutto di testosterone – prodotto biologicamente più attivo – e sul piano clinico da sterilità, oligomenorrea e poi amenorrea secondaria e ovviamente da irsutismo. Anche in menopausa si osserva un certo grado di ipertricosi associata ad un diradamento o ad una caduta dei peli pubici ed ascellari: questo fenomeno, fra le varie ipotesi, potrebbe essere spiegato dal fatto che, in mancanza del freno esercitato dagli estrogeni sulla produzione di gonadotropine ipofisarie, queste ultime stimolerebbero eccessivamente le cellule ilari dell’ovaio deputate alla produzione degli androgeni ovarici.
Vi è infine un tipo di irsutismo che è andato assumendo un’importanza sempre maggiore: l’irsutismo da farmaci. Vi sono infatti delle categorie di farmaci (androgeni, anabolizzanti e progestinici) che, se somministrati in dosi eccessive o a soggetti particolarmente predisposti, possono indurre quadri di irsutismo e, se assunti in giovanisSima età, addirittura di virilizzazione.
Per quanto riguarda infine le possibilità terapeutiche, va detto che nei casi di irsutismo e virilismo sostenuti da una patologia organica surrenalica od ovarica, la terapia è ovviamente chirurgica. Nei casi di patologia funzionale la terapia può avvalersi anche di presidi farmacologici: a questo proposito è opportuno ricordare il «ciproterone», progestinico dotato di caratteristiche antiandrogene ed anche di una buona azione antigonadotropinica; inoltre associato ad un estrogeno può essere utilizzato anche a scopi contraccettivi. L’azionene dei farmaci va comunque completata con l’ausilio della depilazione elettrica o di altre forme di depilazione e della psicoterapia, nei casi in cui questa problematica situazione estetica crea gravi conflitti emotivi specie nelle pazienti più giovani.

Dott. Sandro Viglino
Ginecologo
Pubblicazione Aprile 1992

PREVENZIONE ALLA PATOLOGIA MAMMARIA

Dal punto di vista diagnostico possiamo affermare che tre sono le tappe principali su cui soffermarsi: l’esame clinico del seno che resta sempre il primo e più importante momento di diagnosi e, a parte tecniche più sofisticate che non è adesso il caso di esaminare, la mammografia (cioè l’esame radiologico al seno) e la termografia (tecnica che
sfrutta l’energia termica che ogni tessuto emana) due tecniche estremamente semplici ed innocue, indolori, e che soprattutto garantiscono una notevole sicurezza diagnostica.
La termografia in particolare permette, con dosi molto basse di radiazioni, di ottenere una mappa colorata molto precisa dell’intera regione mammaria facendo sì che quadri sospetti di patologia del seno vengano svelati al medico in epoca molto precoce il che, evidentemente, è di estrema utilità preventiva.

Termografia
Il principio fisico-chimico su cui si basa la tecnica termografica è rappresentato dai cosiddetti cristalli liquidi colesterici (C.L.C.), sostanze organiche che, nel passare dallo stato solido a quello liquido, assumono uno stadio intermedio comportandosi come liquidi dal punto di vista meccanico pur conservando alcune delle proprietà ottiche dei cristalli. L’utilizzazione medica dei C.L.C. è basata sulla comparsa e sulle modificazioni successive di molteplici risposte cromatiche (cioè di colore) ­dipendenti dalle variazioni della temperatura cutanea – che si realizzano sulla superficie del C.L.C., quando quest’ultimo sia applicato sulla cute del settore corporeo in esame.
Ciò differenzia la Termografia a contatto dalla Teletermografia basata sulla captazione a distanza delle radiazioni infrarosse emesse dalla superficie cutanea.
Ciò che contraddistingue la Termografia a contatto è la sua assoluta innocuità e semplicità di esecuzione. È evidente che occorre rispettare alcune norme affinchè la riuscita dell’esame sia ottimale; tra queste ricorderemo:
a) la scelta della fase mestruale (devono essere preferibilmente scelti i primi dieci giorni del ciclo);
b) le condizioni psicologiche della paziente (infatti una eccessiva emotività determina diffusa vasocostrizione);
c) l’acclimatazione della paziente alla temperatura ambientale (bisogna cioè che si verifichi un lieve raffreddamento dell’area cutanea mammaria).
Osservate queste semplici norme, si può sottoporre la paziente all’esame vero e proprio che prevede una prima fase (termoscopica) in cui si osserva il formarsi dell’immagine sulla placca dopo l’applicazione sulla superficie mammaria e una seconda fase (termografica) in cui si ottiene la registrazione fotografica delle immagini più esplicative.
In questo modo si possono ottenere informazioni utilissime sullo stato delle mammelle e sull’individuazione di una loro eventuale patologia. Ecco perchè la termografia, congiuntamente all’esame clinico e alla mammografia, costituisce uno dei cardini fondamentali della semeiotica mammaria.

Dr. Sandra Viglino
Ginecologo
Pubblicazione Marzo 1982 (n.1)