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I CARCINOMI CUTANEI

A proposito di questi ultimi vorrei citare il “Carcinoma Basocellulare” e quello “Spinocellulare” di gran lunga superiori statisticamente a tutte Ie altre neoplasie ed aggiungo non meno aggressivi: mi riferisco alla varietà “Spinocellulare”.
Questi due tipi di tumore originano dalle cellule che formano l’epidermide. Possono insorgere sulla cute apparentemente sana oppure preceduti per anni da manifestazioni precancerose quali ad esempio Ie “Cheratosi Attiniche”.
Sono lesioni che compaiono principalmente sulle regioni fotoesposte (viso, dorso delle mani … ), ma anche in zone non sottoposte all’insulto dei raggi ultra­violetti. Questo la dice lunga sulla causa principale dell’insorgenza di tali neoplasie: il sole.
Ma non è I’ abbronzatura che facciamo oggi a causarne I’insorgenza, bensì la sommatoria di tutti gli insulti solari di tutta una vita o di molti anni. Non a caso due categorie lavorative ne paiono inconfutabilmente pili esposte: gli agricoltori e i marinai che passano la loro vita esposti, con poche protezioni, ai raggi ultravioletti.
II Carcinoma Basocellulare
La sua malignità è in rapporto, inoltre, alla sede di insorgenza, ad esempio la palpebra, l’ala del naso, perche la neoplasia può approfondirsi e colpire gli organi sottostanti. Esso appare nella sua forma cIassica come un piccolo nodulo roseo, traslucido che si ulcera al centro ricoprendosi spesso di una crosta ematica.
Esistono altre forme oltre a quella nodulare, per esempio Ie forme “piano cicatriziali, i patogetoidi a tipo ulcus rodens, ecc … ” tutte di più difficile interpretazione diagnostica.
Si dice essere con un gioco di parole benigno a malignità locale. Cosa vuol dire tutto questo:
1) che non e un tumore che può dare metastasi ad organi interni se non in via del tutto eccezionale;
2) che la sua malignità deriva dal suo carattere distruttivo sui tessuti sottostanti la cute sino ad invadere l’osso.

II Carcinoma Spinocellulare o Epitelioma Spinocellulare
E’ iI corrispettivo maligno; quindi questa forma può dare metastasi sia polmonari che epatiche ed ossee. Insorge anch’esso principalmente suI volto ed al dorso delle mani. Molto aggressivi per la nostra salute sono quelli del labbro inferiore, dell’orecchio, della lingua (sono colpite spesso anche Ie mucose), del pene e della vulva. Tutte zone particolarmente ricche di vasi sanguigni e vasi linfatici ed e per questo che da tali sedi possono insorgere più facilmente metastasi a distanza. II tumore appare quasi sempre di colore roseo-grigiastro ulcerato in una sua parte dove si ricopre di croste siero ematiche. La consistenza alla palpazione appare dura e talora gia aderente ai piani sottostanti la cute, per la sua spiccata tendenza all’invasività.
La diagnosi deve essere la più precoce possibile, come abbiamo già detto, per la sua malignità ed aggressività. La terapia è essenzialmente chirurgica, con exeresi allargate che molto spesso necessitano di plastiche cutanee con lembi cutanei liberi o girati dalle zone di vicinanza.
Sono interventi che nonostante una certa difficoltà si tende sempre più ad eseguire in regime di Day Surgery, anche se il paziente nei giorni seguenti, deve essere sottoposto a numerosi controlli clinici.
Cosa si può fare per cercare di ridurre la percentuale di insorgenza di tali forme? Innanzitutto ridurre drasticamente I’ uso dell’ abbronzature artificiale, non esporsi selvaggiamente e nelle ore centrali della giornata al sole, usare filtri solari ad alta protezione nei primi giorni della “tintarella” riducendo poi la percentuale delle sostanze filtro man mano che ci si abbronza. Tali filtri è meglio siano consigliati da un dermatologo che potrà valutare, innanzitutto, il fototipo di appartenenza del soggetto che deve esporsi, lo stato di idratazione cutanea, ecc …
Usare sempre latti dopo sole come reidratanti, o creme fortemente reidratanti e ripristinanti il film idrolipidico. Non prolungare per molti mesi artificialmente la “tintarella” e nei periodi di riposo usare creme contenenti acido glicolico per il suo effetto terapeutico ed antiinvecchiamento.
Ed intine per preservare la nostra pelle da pericoli e dall’insulto degli UVA, anche la dieta deve essere ricca di sostanze antiossidanti foto protettrici, quali carotenoidi e vitamine; quindi deve essere ricca di verdure, in special modo carote e sedani (ricchi di psoroleni, sostanze favorenti I’abbronzatura), Vit. E, C, in generale bere anche molta acqua durante I’ esposizione al sole in modo da ridurre la perdita di liquidi da parte della nostra pelle.
E’ necessario quindi ricordare che durante I’estate e bene non ricorrere aI solito “fai da te” che molti danni puo causare alIa nostra epidermide, ma sentire il parere di uno specialista, facendosi giustamente consigliare schermanti, latti dopo solo, creme idratanti ecc …

Giovanni NEGRI
Specialista Dermatologo
Casale Monferrato
Pubblicazione Febbraio 2003

IL PROGETTO NAZIONALE PER IL CARCINOMA DELLA PROSTATA

Bisogna tuttavia considerare che il tasso riportato e verosimilmente sottostimato, sia per la mancanza di un «Registro tumori nazionale», sia per la scarsa adeguatezza dei mezzi di rilevamento. In linea generale si può stimare che ogni anno si verificano 19.000 nuovi casi e circa 4.000 decessi per questa malattia.
Anche nel nostro Paese I’incidenza, è conseguentemente la mortalità, aumentando con I’età, quando si consideri che la malattia, la terza causa di morte per neoplasia tra i 55 e i 75 anni, diventa la prima, in senso assoluto, dopo i 75 anni.
Esistono inoItre zone a diversa incidenza, con punte massime in alcune regioni del Centro – Nord e punte minime localizzate nelle regioni meridionali.
Diversi fattori sembrano essere correlati alla insorgenza del carcinoma prostatico, ma per nessuno di essi e stata mai riconosciuta una chiara connessione di tipo causa­effetto.
La differente distribuzione geografica e razziale ha spesso richiamato I’attenzione su possibili fattori genetici. Basti considerare, ad esempio, come I’incidenza della malattia tra Ie popolazioni di colore negli USA sia maggiore del 65% rispetto all’incidenza della popolazione bianca.
Tuttavia gIi studi condotti sui migranti rendono tale ipotesi poco verosimile, indicando invece che fattori ambientali e abitudiari (sessuaIi) possono più probabilmente entrare in gioco. Infatti i Giapponesi, che hanno uno dei tassi più bassi di mortalità per tale malattia, dopo la migrazione negli USA presentano, a partire dalla seconda generazione, un tasso di mortalità non diverso da quello della popolazione americana.
E’ stato dimostrato inoItre come contaminati chimici, a esempio il cadmio e suoi derivati, possono svolgere un’azione cancerogena, come è evidenziato dalla maggiore incidenza di tumori prostaci tra i lavoratori della gomma.
Più controverso e il ruolo dei fattori abitudinari e soprattutto dei costumi sessuali, quando si consideri che un aumento dell’incidenza è stato contemporaneamente correlato con una scarsa, oppure con una intesa attività sessuale (determinata quest’uItima da insoddisfazione psicologica).
II ruolo della ipertrofia prostatica benigna, quale possibile precursore del cancro della prostata, è tuttora controverso. Gli unici due studi prospettici che corrispondono al requisito di un disegno corretto sono giunti a conclusioni del tutto opposte in proposito.
II problema è ancora più complesso quando vengano esaminati i possibili fattori ormonali che possono costituire la base comune tanto per lo sviluppo dell’ipertrofia prostatica benigna quando del carcinoma.
AIcuni Autori hanno riferito di aver osservato particelle simil­virali, tipo Citomegalovirus ed Herpes, nel liquido seminale o nel liquido prostatico in pazienti affetti da cancro delia prostata; e altri Autori ancora di aver isolato particelle similvirali in tessuto prostatico carinomatoso. Per quanto suggestiva, I’ipotesi virale appare tuttavia improbabile, sia alla luce del possibile significato contaminante di alcuni virus, sia della mancata trasformazione virale di colture tissutali dalla ghiandola prostatica umana.
Infine I’elevata incidenza di focolai occuIti di carcinoma in sede autoptica e la variabilità del comportamento clinico del nodulo prostatico, lasciano supporre che il sistema immunitario possa giocare un molo peculiare nel condizionare I’insorgenza e la quiescenza del carcinoma prostatico. In particolare è stato supposto, anche se non convincentemente provato, che il tessuto prostatico può rappresentare un sito immunologicamente privilegiato, analogamente alla camera anteriore dell’occhio e del testicolo. In questa ottica I’elevata incidenza di cancri occulti potrebbe spiegarsi come una svista da parte del sistema di immunosorveglianza.
AlIa luce di tali considerazioni, e in assenza di conoscenze precise sull’insorgenza delIa malattia e pertanto nell’impossibilita di attuare una prevenzione primaria (eliminazione dell’ambiente esterno e interno dei fattori causali), è chiaro che un miglioramento delle situazioni, per quanto concerne il carcinoma prostatico, è conseguibile con la prevenzione secondaria e terziaria e il miglioramento dei mezzi di cura e riabilitazione.
La previsione secondaria e terziaria consistono, da un lato, nell’identificazione e trattamento delle situazioni clinico – patologiche di significato «precanceroso», dall’altro nelle diagnosi precoci dirette al riconoscimento di focolai neolastici allo stato latente (carcinoma occulto) .
E’ indubbio che quanto più precoce sarà la diagnosi, tanto più la malattia potrà essere suscettibile di trattamento radicale.
Alcuni recenti contributi della letteratura hanno ribadito I’importanza della visita effettuata dal medico esplorando il retto con il dito. Se e vero che normalmente soltanto un terzo delle neoplasie scoperte attualmente con l’esplorazione rettale e in stadio veramente precoce e pertanto suscettibile di cura, e però altrettanto vero che l’impiego dell’esplorazione rettale nel soggetto asintomatico, fatta in occasione di una visita anche per una malattia di altra natura, e ancora estremamente limitato ovunque e non solo nel nostro Paese.
Ciò è sicuramente dovuto, almeno in parte, alIa mancanza di un’adeguata sensibilizzazione del pubblico, ma anche degli operatori sanitari, verso i problemi della sfera genitale maschile e ai pregiudizi verso questa semplice metodica, che la disinformazione viene a creare. E’ pertanto realisticamente ipotizzabile che anche soltanto la semplice applicazione di questa metodica possa contribuire ad aumentare l’efficacia, cioè ad aumentare la percentuale dei casi diagnosticati in uno stadio precoce. La presenza di un nodo duro e di un’area sospetta all’indagine digitale delIa prostata e il presupposto per ulteriori accertamenti, che consentano di escludere o di confermare il sospetto di tumore maligno. L’indagine che permette comunque di formulare una diagnosi istologica di certezza e I’ agobiopsia transrettale.
La tecnica consente di arrivare direttamente nel nodo con la punta dell’ago, in quanto questo può essere giudicato nel retto con il dito e fatto avanzare perpendicolarmente nella zona sospetta.
La preparazione del paziente all’esame è molto semplice e consiste nella prescrizione di una terapia antibiotica generale e in un clistere che viene eseguito qualche ora prima della procedura diagnostica. Tale metodica con una singola puntura consente di prelevare 1 – 2 frammenti di tessuto sospetto, che sarà esaminato al microscopio. La manovra viene generalmente eseguita ambulatorialmente e senza anestesia generale, considerata la relativa atraumaticità e la rapidità di esecuzione. Una metodica strumentale, impiegata per lo studio delle malattie della ghiandola prostatica e rappresentata dalla ecotomografia transrettale mediante ultrasuoni, che consiste nell’inserimento di una sonda nel retto in grado di rilevare deformita del contomo, della dimensione e delil consistenza dell’organo, con l’uso di ultrasuoni e quindi senza provocare dolore.
In conclusione l’esplorazione digitale rettale resta il cardine cui affiancare metodiche complementari, quali l’ultrasonografia, l’ago­biopsia per i noduli sospetti, il dosaggio della fostatasi acida prostatica, ecc. Tale metodica, se appplicata sistematicamente, può contribuire inoltre ad aumentare la percentuale di casi identificabili in uno stadio precoce e curabile. Perchè ciò sia possibile sarà necessario pertanto realizzare campagne di educazione sanitaria rivolte al pubblico e ai medici al fine di sensibilizzare la popolazione sull’importanza di sottoporsi a un esame digitale periodico (annuale) al di sopra dei 40 anni, considerata, I’alta incidenza di tale malattia.
Uno dei problemi maggiori connessi con la diagnosi precoce di massa è rappresentato dai costi in relazione all’effettivo beneficio. Le esperienze al riguardo sono contrastanti e i recenti risultati di un programma di screening effettuato in Canada sono incerti.
E’ pertanto possibile che gli sforzi debbano essere concentrati sulla identificazione di soggetti a maggior rischio, sui quali mirare gli interventi diagnostici.
E’ questo uno degli obiettivi prioritari del «Progetto Nazionale per il Carcinoma della Prostata», che e stato attivato con l’inizio dell’anno sotto la guida dell’ Istituto Scientifico per lo studio e la cura dei tumori di Genova e che riunisce i maggiori esperti in campo nazionale.

Francesco Boccardo
Segretario della PONCAP
da SALUTE 2000
Pubblicazione Settembre 1883

LYCOPODIUM E LA DISPEPSIA

Flatulenza irresistibile.

Sensibilità del fegato al tatto.

Peggiorano il pomeriggi e migliorano con il movimento lento.

Tipologia caratteriale: presentano una intelligenza rapida in contrasto con l’insufficienza fisica. Irritabili fino alla collera, si svegliano la mattina di cattivo umore. Sono anche molto emotivi, si commuovono per la gentilezza o una manifestazione di affetto.

Temono la responsabilità, mancano di fiducia in se stessi.

Dosi consigliate nella dispepsia: Licopodium 30 CH, tre granuli la sera, lontano dal pasto.

Antonio Abbate -omeopata
pubblicazione del 2000

L’EQUILIBRIO DEL CORPO DIPENDE ANCHE DAI DENTI

Conosci la tua postura?
Definita come “l’atteggiamento che il nostro corpo assume abitualmente”, la postura riveste un’importanza basilare per l’equilibrio dell’intero organismo.
Nella struttura del corpo umano esistono, infatti, diversi “allineamenti paralleli” che hanno la funzione di sensori di controllo e permettono di mantenere una buona armonia fisica. Questi “piani paralleli” includono il piano orecchi e quello oculare, il piano spalle, quello dei gomiti, il piano pelvico, le ginocchia e, infine quello dei piedi. Quando il parallelismo tra questi piani viene meno, sopravviene uno squilibrio fisico con sintomi debilitativi che possono manifestarsi in varie parti del corpo.

La salute parte dalla bocca
Il Dr. Carlson, una figura autorevole nella medicina, ha osservato clinicamente che pazienti che non rispondono a terapie tradizionali per la cura di malattie croniche quali cefalee, cervicale, dolori della parte inferiore della colonnna vertebrale o problemi alle gambe, spesso presentano distorsioni nell’allineamento parallelo delle loro parti superiori.
Prendiamo in considerazone la bocca: due file di bei denti allineati che combaciano perfettamente, non corrispondono solo ad un bel sorriro, ma indicano soprattutto un giusto rapporto funzionale tra le varie parti dell’apparato stomatognatico (ossa, articolazione temporo-mandibolare, muscoli masticatori, denti). A sua volta, l’armonia di questo apparato è in stretta relazione con lo stato di salute dell’intero orgsanismo. Basta pensare alla posizione della mandibola e al suo ruolo nel bilanciamento della postura cranio-vertrebale.

Mal di testa, vertigini, torcicollo?
La colpa può essere dei denti

Può sembrare incredibile, ma è stato accertato che alcuni disturbi quali vertigini, mali di testa, torcicollo, disturbi alla vista, dolori alla colanna e agli arti che sembrano avere cause inspiegabili e che spesso non sono neppure riscontrabili dagli esami di laboratorio o strumentali, possono dipendere da una malaocclusione dentale, cioè da un cattivo allineamento e combaciamento dei denti.
Tra le patologie più importanti derivanti da una malocclusione dentale, segnalo:
- patologie dell’articolazione temporo-mandibolare (lussazioni riducibili e non riducibili del menisco): si manifestano con scrosci articolari, dolori nella regione pre-auricolare, limitazione nell’apertura della bocca, deviazione nel tragitto di apertura e chiusura della mandibola;
- cefalea muscolo-tensiva: è dovuta allo spasmo dei muscoli masticatori, causato da una malposizione mandibolare: Il dolore è a carattere intenso, continuo e a localizzazione prevalentemente facciale, temporale e/o nucale. I muscoli della colonna cervicale si contraggono per compensare la posizione alterata della mandibola;
- otalgia: la retrusione e la deviazione mandibolare possono provocare continui traumi a carico dell’orecchio. Questo stimolo negativo che si ripropone ogni volta che la persona mastica, deglutisce o chiude la bocca, predispone col tempo ad una super-infezione e quindi alla comparsa di otiti ricorrenti e croniche;
- alterazioni della postura e dolore vertebrale: quando la mandibola assume una posizione scorretta (sia in condizione di riposo che durante l’attività funzionale), la postura cervicale si può alterare per compensare tale posizione. Questo atteggiamento compensatorio della colonna comporta però un’attività molto accentuata dei muscoli della schiena e una “malposizione” delle vertebre con la comparsa di dolore a livello del rachide. Se poi la postura della colonna rimane alterata nel tempo, si può addirittura andare incontro a patologie più gravi, degenerative e compressive.

Gli esami per valutare funzione e postura
La ricerca dentale è oggi avanzatissima e si rivela di grande auito nel risolvere problemi posturali.
Attraverso una serie di sofisticati esami che effettuo nei miei studi di Milano e Francoforte, riesco a valutare tutti i fattori di una postura e, di conseguenza a individuare la terapia più adatta.
Inizio sempre da un esame clinico poi, secondo la necessità eseguo:
- l’esame stabilometrico (su una pedana baropodometrica posturale). Diviso in tre fasi, l’esame stabilisce la funzionalità dell’apparato stomatognatico;
- l’esame elettromiografico (si tratta di un esame dei muscoli eseguito con un elettromiografo, in cinque fasi;
- l’esame kinesiografico. Eseguo l’esamecon un kinesiografo che, in sette fasi, valuta i movimenti mandibolari;
- l’ esame con l’elettrostimolatore TENS, con il quale effettuo stimolazioni a diverse frequenze per il rilassamento de muscoli interessati. Regolo la frequenza in base al livello di tensione del muscolo.

La terapia
Al termine degli esmi , dopo un’ accurata valutazione di tutti i fattori della postura, la terapia che applico consiste nel ripristino totale dell’occlusione dento-scheletrica. Per raggiungere questo obiettivo, cerco di riportare l’armonia tra la posizione temporo-mandibolare e le cuspidi dei denti laterali nelle fosse dei denti antagonisti. Questo avviene quando, in posizione centrale, ottengo una occlusione non disturbata. Tra le metologie che utilizzo segnalo:
- le placche masticatorie indivuduali di rilassamento;
- la terapia ortodontica (quandi i denti sono sani, ma malposizionati);
- il ripristin0 con capsule in zircone o ceramica con cui posso regolare una masticazione perfetta.

Dr. Barhi ADIS
Specialista in Implantologia e
Paradontologia
Milano
Tel : 02.58303737
Pubblicazione Dicembre 2005

PICCOLI INTERVENTI PER GRANDI RISULTATI: LA CHIRURGIA MICROINASIVA

Poichè i modelli Proposti con l’evoluzione della moda tendono a essere standardizzati, gli sforzi spesso contraddittori di identificarsi in essi producono risultati banali, stereotipati e deludenti specie quando ciò cui si tende contraddice palesemente le condizioni estetiche di base del soggetto. Per trovare una soluzione accettabile e non illusoria è quindi necessario procedere in termini di “armonia” piuttosto che di rigidi canoni estetici, convincendosi che essere affascinanti non significa avere
i lineamenti perfetti. La bellezza infatti è condizionata da elementi soggettivi, culturali, emotivi, storici, biologici e via dicendo, al punto da avere dei canoni che nel tempo si sono modificati profondamente. ” saper creare quell’armonia che dona alla persona un aspetto luminoso e attraente deve essere al centro dell’interesse di chiunque operi nel settore dell’ estetica e a maggior ragione di chi e impegnato nel migliorare l’aspetto del viso.
Per incoraggiare coloro che, pur desiderando migliorare il proprio aspetto, esprimono timori per le caratteristiche degli interventi, va presentata l’odontoiatria microinvasiva. In odontoiatria, come in qualsiasi altra disciplina medica, meno invasivo è il trattamento terapeutico e più benefici ne trae il paziente.
Mantenere quindi la struttura biologica e anatomica deve essere la preoccupazione primaria di ogni medico durante lo studio del piano di trattamento. Quando si interviene si è spesso costretti a sacrificare ulteriore tessuto biologico e di conseguenza sono preferibili trattamenti che siano non solo risolutivi ma anche più duraturi possibile. L’obiettivo primario e quindi la conservazione del patrimonio biologico anatomico naturale che è programmato per durare tutta la vita. II miglior metodo per ottenere questo risultato è naturalmente la cura quotidiana dei denti (spazzolini, fili interdentali, dentifrici, collutori, fluoroprofilassi, ecc.). E infatti un luogo comune e completamente erroneo pensare che il decorso odontoiatrico naturale di un individuo sia quello di arrivare a dover portare una protesi mobile (dentiera). La vita di un dente si può dividere per fasi:
fase 1, dente sano vergine;
fase 2, dente con piccola otturazione;
fase 3, dente con grossa otturazione;
fase 4, dente con intarsio (ricopertura parziale);
fase 5, dente con corona (ricopertura totale);
fase 6, dente devitalizzato con corona;
fase 7, dente devitalizzato con perno e corona;
fase 8, estrazione (perdita dell’elemento dentale).
E’ ovvio che più lento è questa percorso e più l’elemento dentale è destinato a durare nel tempo. Ancor meglio sarebbe mani tenere i denti in salute liberi da qualsiasi tipo di restauro, cosa oggi facilmente ottenibile con un buon programma di prevenzione.
Per quanta riguarda l ricostruzioni e i restauri, che hanno solo una funzione estetica, e ancor più ero il principio di conservare quanto più possibile la struttura anatomica, perchè spesso stiamo lavorando su parti di dente sano.
Proprio in questa ambito entra di competenza l’odontoiatria micro o completamente non invasiva.
Della categoria dei restauri fanno parte le “faccette” (ricopertura parziale solo del lato esterno del dente con limatura di circa 3 decimi di millimetro dello smalto) e anche le “additional veneers” (aggiunta di piccole parti di ceramica senza nessun tipo di limatura). Queste ultime, quando possibile, sono da preferirsi in quanto non si sacrifica nessuna struttura anatomica. II sorriso è responsabile per il 60 – 70% dell’aspetto viso e a volte piccole correzioni possono fare grandi differenze. Buon sorriso a tutti.

Autore: Dr. Luca Lorenzo DALLOCA
Oral Design
Via Gilera 12, 20043 Arcore (MB)
tel. 039.6013004
Via Montenapoleone 5, 20121 Milano
tel. 02.76008627
info@oraldesign.it www.oraldesign.it
Pubblicazione maggio 2010

SPECIALE OCCHI (SECONDA PARTE)

Per effettuare questo tipo di correzione il laser ad eccimeri può essere utilizzato mediante due tecniche chirurgiche: la cheratectomia refrattiva con laser ad eccimeri (PRK) e la cheratomileusi intrastromale con laser ad eccimeri (LASIK). Vediamo ora le caratteristiche fondamentali di ciascun intervento.

PRK
La cheratectomia fotorefrattiva (PRK) è una procedura laser frequentemente utilizzata perchè consente la correzione dei difetti refrattivi in modo efficace grazie ad una chirurgia semplice. Per quanto concerne l’intervento, si procede inizialmente effettuando l’anestesia superficiale dell’occhio mediante alcune gocce di collirio anestetico. Grazie all’inserimento di uno strumento che tiene ferme le palpebre (blefarostato) il paziente non rischia di chiudere l’occhio e il chirurgo può procedere. Si rimuove lo strato superficiale della cornea, l’epitelio, nella porzione centrale, dove verrà centrato il laser. Il laser viene attivato dal chirurgo e agisce per un tempo variabile tra i 30 e i 60 secondi effettuando la correzione in base ai dati precedentemente inseriti nel computer del laser. In questa fase, come abbiamo già spiegato, il paziente non deve temere di muovere l’occhio inavvertitamente perchè il laser lo “insegue” grazie al sistema “eye-tracker”. Terminata l’esposizione al laser si procede con la prima medicazione, mediante un collirio antibiotico, e si applica una lente a contatto terapeutica. Dopo pochi minuti il paziente è libero di andare utilizzando come unica protezione l’occhiaie da sole: l’intervento è infatti ambulatoriale e la terapia da eseguire consiste unicamente nell’applicazione di colliri antibiotici e antidolorifici, eventualmente questi ultimi somministrati anche per bocca. L’intera procedura è indolore e non dura più di 10 minuti. Molto più lungo è invece il recupero visivo, dovuto al fatto che l’epitelio corneale per riformarsi completamente necessita di almeno 4-5 giorni, questo fenomeno è anche responsabile dei disturbi avvertiti dal paziente, questi si manifestano soprattutto nelle prime 24-48 ore e tendono poi ad attenuarsi e consistono in fastidio, dolorabilità, lacrimazione e sensazione di corpo estraneo. Questa prima fase di guarigione anatomica termina quando la rigenerazione dell’ epitelio è completa e con la rimozione della lente a contatto terapeutica. Il processo completo di guarigione e stabilizzazione del risultato visivo si ha in alcuni mesi, ma il recupero visivo adeguato per poter tornare a lavorare o riprendere la propria normale attività è comunque limitato ad alcuni giorni. I difetti refrattivi che meglio si avvalgono di questo tipo di correzione chirurgica sono: la miopia lieve, compresa tra 1e 3 diottrie, l’astigmatismo tra 1 e 2 diottrie e l’ipermetropia lieve tra 1 e 2 diottrie. I risultati sono ottimi nella miopi a lieve, buoni per l’ipermetropia e l’astigmatismo. La precisione è migliore nei difetti singoli: o solo miopia o solo astigmatismo. Qualora il risultato non sia pienamente soddisfacente si può comunque procedere con un ritocco: si riapplica cioè la medesima procedura operatoria per corregere l’eventuale e minimo difetto residuato dalla prima procedura. Questa necessità è comunque una evenienza rara ed eseguibile solo parecchi mesi dopo la prima procedura: è infatti necessa­rio attendere la stabilizzazione del primo intervento. Tra gli inconvenienti propri di questa chirurgia dobbiamo tenere presente il rischio che la correzione non sia perfetta con il manifestarsi di sovra o sottocorrezioni, da cui la necessità del ritocco. Si possono poi avere lievi cicatrici a livello corneale, non visibili ad occhio nudo ma solo nel corso di una visita oculistica, che possono determinare riduzioni dell’ acuità visiva e aloni o fastidi alla luce. Ancora più rari sono i ritardi di guarigione dell’ epitelio corneale, che obbligano il protrarsi dell’uso della lente a contatto terapeutica e della terapia mediante colliri e le infezioni gravi. Queste hanno una frequenza di 1 caso ogni 3000-4000 casi, e comportano la necessità di terapie antibiotiche e più frequenti controlli oculistici.

LASIK
La cheratomileusi intrastromale (LASIK) con laser ad eccimeri è la tecnica chirurgica più utilizzata a livello internazionale nella correzione dei difetti refrattivi. Rispetto alla PRK la metodica chirurgica è più complessa, ma come vedremo la maggior complessità chirurgica comporta una più facile e veloce risoluzione del recupero post-operatorio. Come per la PRK l’intervento incomincia con la somministrazione di alcune gocce di collirio anestetico. Dopo l’applicazione del blefarostato le due metodiche, LASIK e PRK si differenziano in modo essenziale; infatti la LASIK preserva l’integrità dello strato epiteliale perchè la radiazione laser rimodella la cornea al suo interno e non dalla superficie esterna. Per fare questo si deve applicare uno strumento detto microcheratomo, capace di tagliare un sottile strato di tessuto corneale (poco più dì un decimo di millimetro), il lembo tagliato viene poi sollevato come la pagina di un libro, infatti il taglio iniziale è inconcompleto in modo tale che resti una porzione integra detta cerniera che consentirà poi il perfetto riaccollamento del lembo una volta terminato l’intervento. Per quanto concerne l’esposizione al laser questa è identica alla metodica PRK. L’intervento per quanto sia più complesso e richieda maggior pratica ed esperienza chirurgica è ambulatoriale, dura complessivamente una decina di minuti e termina con la somministrazione del collirio antibiotico. La cornea operata non necessita di alcuna sutura perchè è la coesione stessa dei tessuti corneali e la presenza della cerniera integra a permettere il perfetto riaccollamento del lembo sulla cornea sottostante. Il paziente viene quindi dimesso con una terapia antibiotica e anti-infiammatoria, senza bende e con l’occhio protetto dall’occhiale da sole. Sia l’intervento che il decorso post-operatorio sono indolori. In poche ore avviene la guarigione anatomica del bulbo: in questo caso infatti non si deve attendere la rigenerazione dell’epitelio corneale e parallelamente quasi nulli sono anche i disturbi post-operatori. Tutto ciò influisce positivamente sia sulla visione, che è già buona 4-5 ore dopo l’intervento, sia sulla guarigione che è completa nel giro di poche settimane. Vediamo quindi i numerosi vantaggi che offre il rimodellamento della cornea eseguito al suo interno: sicuramente il più importante è di natura anatomica. A questo punto può essere utile qualche informazione sulla struttura della cornea. La cornea è una lente trasparente formata da cinque strati: il più esterno è l’epitelio, questo è un rivestimento di cellule in grado di riformarsi continuamente sia in modo spontaneo sia in conseguenza a traumi; l’epitelio è separato dallo stroma corneale dalla membrana di Bowmann, che si è dimostrato non riformarsi se viene asportata. Lo stroma corneale è un tessuto connettivale, particolarmente ricco di fibre e povero di cellule, è la porzione più spessa della cornea e si può considerare un pò come la sua impalcatura portante. La superficie interna della cornea è l’endotelio, questo è separato dallo stroma da un’ altra membrana detta di Descemet. L’endotelio è uno strato di cellule fondamentale per il metabolismo ed il mantenimento della regolare e trasparente struttura corneale. All’interno dello stroma è presente il nervo trigemino, le cui terminazioni arrivano fino all’epitelio corneale, questo è il responsabile di tutti i disturbi che si avvertono conseguentemente ad interventi o traumi corneali. Il vantaggio anatomico quindi nell’eseguire una LASIK è che la cornea viene assottigliata di pochi millesimi di millimetro nella sua porzione stromale interna ma non perde nessuno strato di cui è formata, mentre con la PRK procedendo dall’esterno della superficie epiteliale il laser asporta la membrana di Bowmann che poi al contrario dell’epitelio non si riformerà. L’altro aspetto cruciale è determinato dal fatto che il rimodellamento interno della LASIK comporta una minor asportazione di tessuto permettendo così di poter operare difetti refrattivi di maggiore entità. La miopia è operabile fino a 10 diottrie, l’ipermetropia e l’astigmatismo sono operabili fino a 6 diottrie. I risultati sono ottimi per i difetti lievi e medi, sia miopici, ipermetropici che astigmatici. Ottimi anche nella miopia elevata. Sono invece buoni per le ipermetropie ed astigmatismi elevati. Il risultato nei difetti singoli è sempre migliore, mentre è più probabile che nei difetti misti (miopia con astigmatismo o ipermetropia con astigmatismo) si possa avere un residuo. In questo caso si può eventualmente eseguire un ritocco, con il vantaggio che non è necessario attendere molti mesi perchè la stabilità in questo intervento è più rapida. Chirurgicamente il ritocco è più semplice perchè entro un certo periodo il lembo creato con la LASIK è risollevabile senza dover riapplicare il microcheratomo. I rischi di questa chirurgia sono sovrapponibili a quelli della PRK, per quanto riguarda il rischio di infezioni o emorragie gravi è però pari ad l caso ogni 4000-5000 casi circa.

PRK O LASIK?
Considerati gli enormi vantaggi che offrono le due metodiche può apparire difficile capire come ci si orienta tra l’una e l’altra. Due motivazioni fondamentali sono già emerse: è evidente che se si cerca un recupero rapido, poco disturbato e poco doloroso la LASIK è l’intervento che fa per noi. Poca scelta abbiamo poi se dobbiamo operare un difetto elevato. Anche in questo caso la LASIK fa la differenza. La LASIK attualmente è l’intervento più utilizzato a livello internazionale soprattutto per le caratteristiche della risposta tissutale che si determina a livello corneale. La procedura laser mediante PRK, effettuata in superficie per i difetti refrattivi lievi, comporta la rimozione di infinitesime quantità di materiale per cui la reazione dei tessuti stessi al trattamento è minima e quindi la precisione del risultato e la sua stabilità è elevata perchè manca una risposta cicatriziale, ma solo nel caso in cui si operino difetti refrattivi lievi che comportino una minima asportazione di tessuto corneale. Se il trattamento di superficie viene effettuato invece per correggere un difetto refrattivo elevato comporta la rimozione di maggior tessuto ed una risposta tissutale più vivace e prolungata; ciò comporta il rischio di instabilità e regressione del risultato. Questo non accade quando la procedura viene effettuata all’interno della cornea grazie alla LASIK: il tessuto in questa sede è poco reattivo ed ha una risposta cicatriziale modesta anche in caso di trattamenti per difetti elevati, in pratica il risultato anatomico, refrattivo e visivo è sicuramente stabile per i difetti lievi e medi, ma lo è anche in caso di trattamenti elevati. Un altro vantaggio della LASIK rispetto alla PRK è la possibilità di poter operare entrambi gli occhi contemporaneamente con maggior sicurezza. Questo è infatti facilitato dal fatto che la LASIK ha un recupero visivo e una guarigione più rapida rispetto alla PRK e il rischio di avere infezioni post-operatorie, il vero deterrente ad effettuare gli interventi laser bilateralmente, è inferiore per la LASIK. La PRK resta comunque una valida alternativa alla LASIK in quei casi in cui la struttura oculare non ne consenta l’esecuzione. E’ ad esempio il caso in cui la cornea non presenti uno spessore adeguato per poter creare il lembo sollevabile della LASIK, che sommato allo spessore asportato dal laser per la correzione potrebbe non essere sufficiente. Esistono infatti dei margini di sicurezza per quanto riguarda la quantità di tessuto corneale sottostante che deve rimanere integro per garantire la sicurezza strutturale della cornea. Nei casi in cui l’entità del difetto da operare sia tale da far temere importanti effetti collaterali anche con la PRK, ci si deve orientare verso altre metodiche di chirurgia refrattiva non con laser ad eccimeri. Nella tabella si possono confrontare punto per punto le due metodiche chirurgiche.

però l’occhio è spesso dolente, è lento a guarire e il recupero visivo si fa attendere vista.

 

DIFFERENZA FRA PRK E LASIK

PRK per la correzione dei difetti lievi

LASIK per la correzione dei difetti lievi, medi, ed elevati

- 1. E una procedura laser. -1. E’ una procedura mista chirurgica e laser.
-2. Fornisce i miglior risultati nella miopia lieve, scarsi in quella media o elevata. -2. Fornisce risultati molto buoni nella miopia media e forte, ma anche in quella lieve.
-3. L’occhio da trattare viene anestetizzato con alcune gocce di collirio anestetico -3. L’occhio da trattare viene anestetizzzato con alcune gocce di collorio anestetico.
-4. Vengono inserite nel computer del laser le informazioni necessarie a corregere il difetto del paziente. -4. Vengono inserite nel computer del laser le informazioni necessarie a coreggere il difetto del paziente.
-5. L’oculista “raschia” la cornea in superficie sulla zona in cui verrà eseguito il trattamento laser (rimuove cioè l’epitelio, lostrato di cellule che riveste la cornea). Dopo l’intervento poi l’epitelio impiega 4-5 giorni per riformarsi completamente e quindi anche il recuppero visivo si fa attendere. -5. L’oculista applica sull’occhio il “microcheratomo” cioè l’apparecchio che consente di tagliare un sottile strato di tessuto corneale (poco più di un decimo di millimetro); il lembo tagliato viene poi aperto e sollevato come fosse la pagina di un libro.
-6. Il laser viene centrato esattamente sulla superficie anteriore della cornea corrispondente al centro della pupilla; esso viene poi attivato dal chirurgo ed esegue il trattamento previsto in u tempo che varia fra i 30 ed i 60 secondi. -6. il trattamento laser viene eseguito sulla parte interna della cornea esposta durante la fase precedente. Come per la procedura di superfice, ogni colpo di laser asporta un quarto di micron cioè un quarto di millesimo di millimetro.
-7. L’occhio viene poi protetto con una speciale lente a contatto terapeutica. -7.Il “libro” viene chiuso, cioè la porzione di cornea sollevata per il trattamento laser, viene riposizionata senza necessità di sutura e l’occhio rimane sbendato.
-8. L’intera procedura dura poco meno di dieci minuti e può essere utilizzata anche per correggere l’astigmatismo leggereo e l’ipermetropia leggera. -8. L’intera procedura dura meno di dieci minuti, essa può essere utilizzata anche per la correzione di astigmatismi e ipermetropie lievi, medie ed elevate.
-9. Il paziente viene medicato con un collirio antibiotico e dopo pochi minuti viene dimesso con l’occhi protetto da un occhiale da sole. -9. Il paziente viene medicato con un collirio antibiotico e viene dimesso con l’occhio protetto da un paio di occhiali da sole.
-10. Il trattamento in se stesso è completamente indolore L’occhio è fastidioso e dolente nelle prime 24 ore. I fastidi persistono per 4-5 giorni cioè fino a quando le cellule rimosse con la “raschiatura” iniziale non saranno in parte riprodotte. L’epitelio si riforma tanto più lentamente, tanto più l’età del paziente aumenta. - 10. L’intervento ed il decorso postoperatorio sono indolori. Dopo l’intervento è presente solo una modesta sensazione di corpo estraneo che dura solo qualche ora. Il bulbo oculare non è dolente anche perchè la ferita chirurgica si chiude in poche ore.
-11. L’occhio comincia a vedere dopo 4-5 giorni ed il completo processo di guarigione richiede alcuni mesi. -11. L’occhio comincia a vedere già alcune ore dopo l’intervento; il processo di guarigione si completa poi nel giro di qualche settimana.
-12. Per eseguie eventuali ritocchi è preferibile attendere almeno un anno dal primo intervento. -12. Fare un eventuale ritocco èpossibile dopo 6-12 (e preferibilmente non oltre 16) settimane dall’intervento.
-13. Si opera quasi sempre un occhi per volta. -13. Si possono operare anche ambedue gli occhi insieme.
-In conclusione la PRK è il più semlice da eseguire; dopo l’intervento però l’occhio è spesso dolente, è lento a guarire ed il recupero visivo si fa attendere. -In conclusionela LASIK è un poco più difficile da eseguire; dopo l’intervento però il paziente non soffre e recupera rapidamente la vista.

LA SUPERVISIONE
Vederci più di prima meglio di prima! Questa è la possibilità offerta dalla chirurgia più avveniristica con il laser ad eccimeri. Per una convenzione del mondo medico-scientifico si dice che un occhio sano, che vede bene, vede dieci decimi. I decimi vengono misurati nel corso di una visita oculistica facendo riferimento a quante righe vengono lette da ognuno di noi sul tabellone con le lettere o i numeri (tabellone detto ottotipo). La maggior parte di noi si sarà però accorta che magari pur vedendoci bene rimangono sempre delle letterine molto piccole in fondo al tabellone che pochi o pochissimi riescono a leggere. Infatti i dieci decimi sono da intendersi come un valore medio, rilevato nella popolazione con una vista sana e ottimale. E’ un pò come parlare della statura media, se questa in una popolazione maschile è pari ad esempio a 1,75 metri, non vuole dire che non esistano i giocatori di pallacanestro! Così è per la vista, alcune persone vedono più di dieci decimi e leggono le lettere più piccole dell’ottotipo. Questo però non accade per tutti gli occhi anche se sono sani. L’occhio umano è infatti un sistema ottico buono, ma spesso non perfetto. Queste imperfezioni, assolutamente compatibili con un perfetto stato di salute, vengono chiamate “aberrazioni ottiche”. Per effetto di queste aberrazioni un oggetto non viene visto come è realmente, ma in modo leggermente modificato: ad esempio un punto luminoso sferico può apparire come una macchiolina più o meno ovale o come una stellina. Raramente queste imperfezioni visive vengono percepite dalla persona, ognuno di noi è infatti abituato a vedere in un certo modo e a ritenere che questa visione sia quella normale, possiamo notare dei cambiamenti o dei peggioramenti ma ad esempio non potremo mai sapere come vede un’altra persona. La vista è una percezione totalmente soggettiva! La moderna tecnologia ci permette ora per la prima volta di misurare la vista non solo quantitativamente con i decimi ma anche valutarne la qualità e quindi la presenza di eventuali aberrazioni grazie allo strumento detto aberrometro. Mediante un sistema a raggi infrarossi inviati all’interno dell’ occhio si valuta ogni struttura oculare in base a come e di quanto vengano deformati nel loro tragitto parallelo e regolare. Questi raggi vengono poi raccolti e letti dallo strumento che in base all’entità delle deviazioni subite ci dice quale sia il grado di aberrazione proprio di quell’occhio. L’elaborazione dei dati forniti dall’aberrometria con tutti gli altri dati ottenuti sulla situazione visiva di un occhio permette, con alcuni laser ad eccimeri di ultima generazione, di rimodellare la curvatura corneale nel corso di un intervento LASIK, personalizzandola sulle necessità visive di quell’occhio e correggendo quindi non solo il difetto di vista ma anche le aberrazioni proprie di quel sistema visivo.

Conclusioni
Gli interventi eseguiti con il laser ad eccimeri, LASIK e PRK, sono interventi collaudati, che forniscono risultati molto buoni. Non sono però sempre in grado di ottenere come risultato la visione perfetta, perchè pur potendo garantire l’elevata precisione dei laser e dei computer, nonchè l’estrema provessionalità del chirurgo, non si può fare altrettanto con la risposta biologica dei tessuti umani corneali, che al momento attuale resta l’unico vero limite. Comunque, anche se talvolta questi interventi comportano un lieve difetto residuo, sono da consigliare, non solo nella miopia, ma in ogni difetto di refrazione, soprattutto quando l’occhiale o la lente a contatto non riescono a dare una visione sufficiente o quando queste protesi, per varie ragioni, non vengono tollerate o semplicemente quando il paziente è desideroso di eliminarli e migliorare la qualità della propria vita.

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Pubblicazione Dicembre 2002

CATARATTA: A CIASCUNO IL SUO CRISTALLINO

Occorre poi sapere che alcuni cristallini necessitano di una ampia incisione per essere introdotti (cristallini rigidi) ma che ci sono cristallini morbidi, in grado di entrare “piegati” o “arrotolati” nell’occhio e, quindi, attraverso una incisione piccolissima che non richiede suture e che guarisce più rapidamente. I cristallini pieghevoli poi possono essere prodotti in vari materiali tra cui silicone, acrilico idrofobo, acrilico idrofilo, ecc. possono essere monofocali, multifocali, accomodativi, torici, fotocromatici quindi per il chirurgo e soprattutto per il paziente c’e grande possibilità di scelta e quindi di “personalizzare” ogni intervento chirurgico.

Lenti Intraoculari Toriche
In generale l’astigmatismo corneale viene corretto utilizzando una procedura laser (PRK 0 Lasik); se però il paziente esegue l’intervento di cataratta la correzione dell’astigmatismo può avvenire anche con altre due metodiche e cioè eseguendo delle incisioni sulla cornea (effettuate per lo più con bisturi in diamante) oppure utilizzando un cristallino che oltre ad avere nella sua ottica la correzione sferica abbia anche quella astigmatica. Quindi nei soggetti con astigmatismo preoperatorio è indicato l’impianto di IOL torica per migliorare il visus naturale posto­peratorio ed evitare o ridurre l’uso della correzione astigmatica sull’occhiale o sulla lente a contatto. Questo metodo di correzione dell’astigmatismo è certamente più precise e più stabile delle tecniche incisionali corneali.

I cristallini artificiali gialli
Negli ultimi anni è stata sempre più attribuita una maggiore importanza al ruolo della luce blu come potenziale rischio per la vista, in una prospettiva di lungo termine. E’ così nata l’esigenza di una lente con filtro per la luce blu per la protezione della retina, dopo intervento di cataratta.
Questo tipo di cristallino può essere di aiuto per limitare l’insorgenza della Degenerazione Maculare Senile, una alterazione della retina che impedisce a tantissimi anziani di leggere, scrivere ed altre cose.

Lenti intraoculari accomodative
L’impianto di questa tipo di IOL ha l’obiettivo di ridurre la dipendenza del paziente operato di cataratta dall’uso di occhiali sia per lontano che per vicino. Queste lenti sfruttano dei meccanismi caratteristici dell’occhio per attivare microspostamenti dell’ottica della lente. La lente è cioè costruita in modo tale che il suo disco ottico si
può spostare avanti o indietro; ciò consente di poter mettere a fuoco differenti distanze.

I cristallini artificiali multifocali
Le lenti multifocali intraoculari o cristallini artificiali multifocali sono lenti di nuova generazione che permettono, come e lenti multifocali degli occhiali (che però hanno una modalità di costruzione e funzionamento diversa), di avere visione sia per lontanoa che per vicino.
La differenza principale, rispetto ad una lente standard, sta nel fatto che la parte ottica di questo cristallino ha diversi anelli concentrici di diverso potere che consentono la funzione visiva a distanze diverse; in pratica ècome se ogni lente fosse un “insieme” di lenti per permettere la visione a diverse distanze.
Con queste lenti si può offrire cosi una prestazione che consente di svolgere gran parte delle attività quotidiane senza dipendere dall’occhiale per lontano e per vicino, o addirittura permette l’eliminazione completa dell’occhiale; il risultato è migliore quando sono impiantati i due occhi.

A ciascuno il proprio cristallino o IOL ) (Intra Ocular Lens)
Le opzioni oggi disponibili per i pazienti sono molteplici.
Per quanto riguarda i materiali:
- IOL rigide in PMMA
- IOL morbide in vario materiale: acrilico idrofobo, acrilico idrofilo, collamero, silicone ed altro … Quelle maggiormente utilizzate sono le acriliche.
Per quanta si riferisce all’ottica delle lenti, ci sono:
- IOL tradizionali monofocali
- IOL monofocali asferiche: per migliorare la qualità visiva , specialmente notturna, del paziente operato di cataratta.
- IOL gialle: queste, oltre che far ricuperare la vista all’operato di cataratta consentono di effettuare la protezione della macula dalle radiazioni blu, che sono potenzialmente tossiche (la maculopatia senile è la principale causa di cecità legale nei paesi industrializzati).
- IOL toriche: offrono la possibilità non solo di ristabilire la vista in seguito alla rimozione della cataratta ma anche di correggere l’ eventuale astigmatismo preesistente.
- IOL accomodative: per fornire una buona visione da lontano ed a distanza intermedia senza interferenze con la qualità visiva.
- IOL multifocali: per la visione da lontano e da vicino; essi consentono una vita non più dipendente dagli occhiali per i pazienti affetti da cataratta.
- IOL multifocali, toriche, asferiche, gialle: saranno utilizzabili a breve anche lenti che possono avere tutte le caratteristiche suddette incluse in una unica lente!
Un altro passo avanti per una vista sempre migliore!

Autore: Dott. Lucio BURATTO
Presidente della Società Oftalmologica Italiana e Direttore del Centro Ambrosiano Microchirurgia Oculare
P.zza delia Repubblica 21
20124 Milano
Tel: 02/6361191
Fax: 02/6598875
e-mail: office@buratto.com

Cattivi ragazzi: i percorsi dell’aggressività

LE TEORIE A BASE ORGANICA Nel 1870, Cesare Lombroso, medico e antropologo italiano, studiando il cranio di un delinquente allora famoso, il “brigante” Vilella, notò che, nella conformazione delle ossa, al posto della cresta occipitale, si rilevava una fossetta simile a quella delle scimmie. A partire da questa osservazione, Lombroso elaborò la teoria “positivista”, sostenendo che le cause della delinquenza risiedono in fattori di natura organica e genetica. In pratica questo significa che: – si nasce già delinquenti, non lo si diventa in seguito, nel corso della vita; – il delinquente é identificabile da certe caratteristiche fisiche che possono essere riscontrate nella conformazione del suo corpo ed in particolare del cranio e del viso – questo avviene a causa di una “degenerazione della specie”, ovvero di “atavismo”, il che significa la nascita, in epoca attuale, di esseri umani con una costituzione, psicologica e fisica, primitiva, appartenente ad un’ epoca storica precedente. Queste idee ebbero in seguito una evoluzione attraverso le opere di F. Curtius, K. Jaspers, E. Kretschmer con l’elaborazione della “fisiognomica”, la teoria in base alla quale sarebbe possibile conoscere ed individuare il carattere psicologico e morale di un individuo, in base alle caratteristiche del suo aspetto fisico e alle espressioni del suo volto. Queste teorie sulla base organica e genetica della delinquenza, e sulla corrispondenza tra criminalità e configurazione facciale, ebbero un seguito fino al dopoguerra, influenzando pesantemente sia medici e psicologi che studiavano il fenomeno, sia il gergo comune del parlare (espressioni in uso in Italia fino agli anni ’50 come “delinquente nato”, “belva umana”, “pazzo morale” sono tratte dai libri di Lombroso; alla stessa mentalità vanno attribuiti detti e proverbi che invitano a diffidare di chi non ha un aspetto fisico normale: “Guardati dai segnati da Dio”). Le ricerche e gli studi svolti negli anni successivi, hanno completamente smentito queste teorie, dimostrando che non vi é alcuna corrispondenza costante tra le caratteristiche del fisico e la costituzione psicologica di una persona. L’unica corrente del pensiero medico attuale, che risente ancora oggi di questo influsso, é rappresentata dagli scienziati che, con metodi di ricerca molto sofisticati, cercano di dimostrare le idee di Lombroso, spostando però il campo d’azione nella osservazione dei cromosomi, del DNA, di specifiche caratteristiche dei neuroni, o nel funzionamento dei neurotrasmettitori. LE TEORIE A BASE PSICOLOGICA Delinquenti non si nasce, ma si diventa. Questo avviene principalmente per l’influsso dell’ambiente familiare e di quello sociale. A livello familiare giocano un ruolo importante situazioni come frustrazioni, carenze o eccessi affettivi subiti, fin dalla più tenera età. Rientrano nel quadro delle carenze o eccessi affettivi: – il ricovero in brefotrofi ed istituti simili; – l’affidamento costante dei bambini a parenti mal disposti ad accettarli; – gravi perturbazioni dell’ordine familiare; – genitori assenti o indifferenti; – famiglie nelle quali sono in vigore valori antisociali con la conseguenza di &pagina2=dare ai figli cattivo esempio o nessun esempio – famiglie troppo numerose o che abitano in condizioni di sovraffollamento; – genitori pesantemente disturbati a livello psicologico; – genitori alcolisti o tossicomani; – genitori ostili verso i figli; – genitori che non vogliono prendersi la responsabilità; – genitori che hanno comportamenti educativi imprevedibili che vanno dalle gravi punizioni ad un estremo lassismo; – genitori iperprotettivi che trasmettono ai figli un costante senso di sfiducia nelle loro capacità; – genitori che, per proprie problematiche, non riescono a costituire un solido rapporto affettivo coi figli; – genitori delinquenti o comunque immersi in una subcultura di tipo mafioso o criminale. Un altro elemento importante nella formazione dell’individuo all’interno della famiglia, é costituito dalle frustrazioni subite fin dall’infanzia. Secondo lo psicanalista francese P. Racamier sono particolarmente rilevanti le frustrazioni derivanti da particolari comportamenti dei genitori nei confronti del figlio. Sono comportamenti di: – rifiuto; – compromessi affettivi; – disarmonie affettive. Il comportamento di rifiuto ‚ distinguibile in rifiuto larvato (tenerezza assente, tolleranza indifferente, considerare il bambino un peso, meticolosità fredda e distaccata nel seguire le norme pediatriche ma senza amore, negligenza di cure materiali), oppure rifiuto attivo (ostilità manifesta, rimproveri e punizioni ingiustificati e freddi, rifiuto di contatto col bambino, sostituzione dell’amore e del tempo dedicato al bambino con regali magari costosi e frequenti, eccesso di carezze ed attenzioni ma senza vero interesse, rifiuto a favore di fratelli o sorelle apertamente preferiti). Il compromesso affettivo si articola in forme di amore morboso quali: – amore condizionato, ai risultati che il figlio deve ottenere; – amore perfezionista, che viene ritirato se il figlio non si dimostra abbastanza “perfetto”; – amore possessivo, che non considera il figlio come una persona, ma come una proprietà personale; – amore geloso, che richiede la rinuncia alla indipendenza da parte del figlio; – amore selettivo, che si occupa del figlio solo se ha una certa età o si trova in una certa condizione; – amore interessato che vede nel figlio un mezzo per qualche fine personale; – amore di compensazione attraverso il quale si riversa sul figlio la mancata soddisfazione erotica con un partner. Le disarmonie affettive, sono quelle situazioni in cui si hanno: – intermittenze e variazioni dell’affetto che oscilla tra accettazione e rifiuto; – inversione dei ruoli parentali; – inversione dei ruoli genitori figlio; – iperprotezione. Secondo gli studi effettuati negli anni ’60 da Sh. Glueck, se la vita nell’ambito familiare é adeguata, vi sono solo 3 probabilità su 100 che il ragazzo compia atti antisociali; se invece l’ambiente familiare risente delle situazioni sopra descritte, le probabilità dell’esito antisociale salgono a 98 su 100. In questi casi, il comportamento delinquenziale e ribelle rappresenta, per il ragazzo rifiutato o non amato adeguatamente, il sistema prescelto per attirare &pagina3=l’attenzione su se stesso. L’incontro con la realtà esterna viene vissuto dal ragazzo come una prova alla quale non é stato preparato, e alla quale reagisce o con l’aggressività o con la ricerca di evasione. In molti casi poi i ragazzi cercano la loro identità attraverso l’appartenenza ad un gruppo, e, se si tratta di un gruppo di giovani delinquenti, teppisti, o tossicomani, é quella mentalità che viene assunta dal ragazzo, nel tentativo di medicare le ferite al proprio io e colmare il vuoto di affetti e di valori che la famiglia ha lasciato. Senza dimenticare i reati compiuti dai ragazzi provenienti da famiglie benestanti o ricche, ma prive di valori affettivi e morali, dobbiamo ricordare che la famiglia non vive nel vuoto. Va quindi tenuto ben presente il secondo elemento che può favorire l’antisocialità, e che é rappresentato dal contesto sociale in cui la famiglia vive. Situazioni ambientalmente degradate, economicamente precarie, senza ideali morali, sociali o religiosi, immerse in una subcultura mafiosa o criminale, offrono al ragazzo una falsa idea di realizzazione personale attraverso la messa in atto di comportamenti delinquenziali. In questo contesto, i ragazzi si manifestano con reati contro i beni pubblici, furti “inutili”, lotte, sfide o competizioni pericolose tra gruppi o individui, uso di droghe o alcool, evasione scolastica, furti ad uso di auto o motociclette, scippi, risse nei locali pubblici. Per concludere questa breve ricerca, che non pretende di esaurire l’argomento, ma solo di mettere in luce alcuni tra gli elementi che portano al comportamento antisociale, ricordiamo che la prevenzione alla delinquenza giovanile deve essere attuata, sia attraverso la famiglia, sia attraverso la società . La costituzione e realizzazione di valori affettivi e morali nella famiglia, e di ideali sociali e politici nella comunità, rappresentano lo strumento privilegiato che consente ai giovani di formare e rinforzare la propria personalità nel rispetto delle regole che guidano la comunità in cui vivono.

Omotossicologia

Basi teoriche e applicazioni cliniche dell’omotossicologia

Riassunto
L’Autore presenta i principi dell’Omotossicologia, disciplina sviluppata dall’Omeopatia complessista ad opera dello scienziato tedesco Hans Heinrich Reckeweg alla fine degli anni ‘50, e ne illustra le applicazioni cliniche.

L’Omotossicologia rappresenta un’evoluzione della Omeopatia fondata da Samuel Hahnemann (1755-1843) alla luce delle più recenti acquisizioni nel campo della Biologia, della Medicina e della Fisica, in un’opera di sintesi avviata dal suo ideatore, Hans Heinrich Reckeweg (1905-1985) e, a tutt’oggi, proseguita da quanti operano nell’ambito della sanità interpretando le continue scoperte scientifiche alla luce di una visione olistica della Medicina Biologica ispirata alle teorie di Hahnemann e alle leggi della fisiologia e fisiopatologia bioenergetica della Medicina Tradizionale Cinese e di altre metodiche terapeutiche olistiche.
A Reckeweg va quindi attribuito il merito di aver rinnovato le teorie omeopatiche alla luce delle più recenti scoperte scientifiche in campo medico, biologico, fisico etc.
La nascita dell’Omotossicologia risale all’anno 1952 quando RH. Reckeweg pubblicò sul Munchner Medizinske Magazin un articolo dal nome: “Effetti di vicariazione, omotossine e fasi delle malattie nei tessuti dei tre foglietti blastodermici” nel quale venivano descritti i principi fondamentali dell’Omotossicologia.
I concetti fondamentali introdotti da Reckeweg alla base dell’Omotossicologia sono quelli di Medicina Biologica e di Omotossina.
Con il termine Medicina Biologica, Reckeweg descrive un sistema diagnostico e terapeutico che ha alla base la concezione della Medicina per la quale l’essere umano è un sistema biologico facente parte integrante dell’ambiente che lo circonda, in un rapporto di reciprocità micro-macrocosmica interpretabile alla luce di tutte le acquisizioni della biofisica, delle forze deboli, della medicina quantistica.
Da un punto di vista biofisico, infatti, l’Uomo è un sistema aperto, quindi, dissipativo, secondo i principi della Termodinamica. Un sistema aperto scambia energia e materia con l’ambiente che lo circonda grazie alla realizzazione di un gradiente energetico di flusso. Il nostro organismo, come quello di tutti i sistemi viventi, assume energia e materia dall’esterno, li elabora e, quindi, li emette nuovamente nell’ambiente. Tale flusso è fondamentale per il mantenimento della vita.
Se l’energia, infatti, fosse trattenuta all’interno del sistema si avrebbe un grave aumento del disordine che porterebbe a morte l’organismo.
I sistemi aperti, infatti, rappresentano un’eccezione al Secondo Principio della Termodinamica, il quale afferma che apportando energia ad un sistema chiuso il disordine del sistema aumenta.
Nella materia vivente, però, l’aumento del disordine e, quindi, dell’entropia, porterebbe alla disgregazione e alla morte. Il carattere dissipativo dei sistemi biologici aperti consente, invece, la dispersione dell’entropia all’esterno permettendo, così, all’organismo vivente di assorbire energia dall’ambiente esterno senza subire un aumento catastrofico della propria entropia. Ciò si può realizzare, però, solo se esiste un gradiente di entropia tra l’interno del sistema e l’ambiente circostante; solo l’esistenza di una differente quantità di entropia tra l’interno e l’esterno del sistema consente, infatti, al sistema biologico di dissipare l’entropia nell’ambiente esterno, dove l’entropia è più bassa rispetto all’interno.
Le Leggi della Termodinamica applicate ai sistemi aperti, come quelli biologici, ci ammoniscono a mantenere basso lo stato di entropia, ossia di disordine, dell’ambiente che ci circonda.
Se l’entropia ambientale tende ad aumentare, diventa sempre più difficile, per i sistemi biologici, dissipare quella prodotta al loro interno.
L’aumento del disordine nell’organismo vivente porta ad una disorganizzazione dei sistemi di regolazione e, quindi, alla malattia e alla morte.
In questa maniera la Medicina Biologica diventa anche Medicina Ecologica: l’intero Ecosistema è un essere vivente di cui l’Uomo fa parte nel quale la salute di ogni essere vivente è strettamente legata alla salute dell’Ecosistema da leggi fisiche innegabili.
L’altro concetto fondamentale introdotto da Reckeweg è quello di omotossina intendendo con questo termine qualsiasi sostanza di origine esogena o endogena in grado di produrre direttamente o indirettamente un danno a livello dell’organismo umano. Tali sostanze possono essere introdotte nell’organismo dall’esterno (antigeni, tossici alimentari, ambientali, professionali, inquinanti, farmaci, ecc) o possono essere prodotte dal nostro organismo nel corso del metabolismo (ac. urico, istamina, urea, etc.).
La presenza di queste sostanze all’interno dell’organismo è in grado di aumentare lo stato di disordine del sistema e, pertanto, è fondamentale la loro eliminazione. Poiché le omotossine svolgono un’azione tossica, il sistema difensivo dell’organismo è costantemente impegnato alla loro eliminazione attraverso gli organi emuntori e le escrezioni fisiologiche.
Se il carico omotossinico aumenta per un aumento della produzione o dell’introduzione dall’esterno delle omotossine o per un deficit dei sistemi di depurazione, l’organismo attiva ulteriormente il sistema di difesa attraverso l’infiammazione per incrementare l’eliminazione delle tossine.
Grazie alla flogosi, infatti, si realizza la catabolizzazione delle omotossine, la loro fagocitosi e trasporto a livello degli organi di depurazione per la loro definitiva espulsione dall’organismo.
Se l’organismo non riesce a smaltire le omotossine con l’attivazione dei processi infiammatori, per notevole sovraccarico tossico, per insufficienza dei sistemi difensivi e/o perché l’uso degli antinfiammatori blocca la risposta difensiva stessa, è costretto a depositarle, dapprima nel tessuto connettivo e poi all’interno delle cellule.
Il tessuto connettivo, oltre ad essere la trama di sostegno disposta ubiquitariamente in tutto l’organismo, svolge un ruolo metabolico fondamentale essendo il teatro dove si svolgono tutte le reazioni biochimiche e, quindi, anche quelle legate agli stessi processi infiammatori.
Quando questo tessuto si satura di omotossine queste cominciano ad essere depositate all’interno delle cellule aprendo la strada alle malattie croniche degenerative e, quindi, allo sviluppo delle neoplasie.
Se i sintomi delle cosiddette “malattie” rappresentano il risultato dell’attivazione dei meccanismi difensivi finalizzati alla catabolizzazione delle omotossine, allora le “malattie” non sono altro che l’espressione del tentativo messo in atto dall’organismo per difendersi dall’aggressione dei diversi fattori nocivi.
Sulla base di questo concetto è necessario riconsiderare il valore del termine “malattia” la quale è, secondo Reckeweg, “espressione delle risposte difensive, biologicamente opportune, contro omotossine esogene o endogene, oppure è espressione dei danni tossici subiti che l’organismo cerca di compensare con un riequilibrio funzionale”.
Conseguentemente un atteggiamento terapeutico finalizzato alla repressione dei sintomi risulta nocivo per il nostro organismo essendo responsabile del blocco di quei meccanismi difensivi attivati dal nostro sistema biologico al fine di eliminare le omotossine.
Ne deriva che l’uso degli antinfiammatori e di tutti quei presidi terapeutici finalizzati all’inibizione o repressione della risposta infiammatoria risulta estremamente dannoso. Il blocco della eliminazione delle omotossine, infatti, porta a numerose conseguenze, innanzitutto facilita l’insorgenza delle recidive della malattia, il persistere delle omotossine, infatti, determina una riattivazione dei processi infiammatori al fine di ottenere finalmente l’eliminazione delle stesse.
Lo scopo della terapia medica deve essere quindi, non quello di reprimere la risposta dell’organismo, ma quello di potenziarne le capacità difensive favorendo i meccanismi di auto guarigione che sono strettamente legati alla possibilità di eliminare il sovraccarico omotossinico. E’ proprio in tutto questo che si inserisce il ruolo terapeutico e preventivo dell’omeopatia e dell’omotossicologia.
Mentre il trattamento allopatico agisce, quindi, opponendosi allo sforzo difensivo del sistema biologico, quello omeopatico e quello omotossicologico agiscono nella stessa direzione della risposta difensiva potenziandone gli effetti. 
Tutto ciò ci spiega il fenomeno del cosiddetto aggravamento omeopatico che consiste in un temporaneo peggioramento
dei sintomi lamentati dal paziente che precede la loro definitiva scomparsa e, quindi, la guarigione.
E’ pur vero, comunque, che la risposta infiammatoria può assumere un andamento aggressivo tanto da rischiare di diventare essa stessa causa di danni. Il compito del medico deve essere proprio quello di capire quando un fenomeno infiammatorio, svincolandosi dai fenomeni di autocontrollo, può diventare pericoloso per l’organismo stesso, o quando le capacità difensive dell’organismo sono state completamente sopraffatte tanto da non poter essere più da sole in grado di superare i fattori aggressivi.
Solo e soltanto in questi casi sarà necessario fare ricorso alle terapie allopatiche soppressive per il tempo strettamente necessario affinché quelle biologiche, contemporaneamente avviate, sortiscano gli effetti terapeutici di stimolo della risposta depurativa e difensiva,
I rimedi omotossicologici sono solitamente dei rimedi complessi, ossia delle formulazioni farmaceutiche, disponibili in gocce, in compresse, in fiale, costituite dall’insieme di più rimedi omeopatici che vengono abbinati tra di loro per rafforzarne l’efficacia. Essi non solo possono essere prescritti in base a criteri omeopatici, ma anche in base alla diagnosi della malattia, così come normalmente si fa con i comuni farmaci allopatici.
L’Omotossicologia è quindi una concezione innovativa dell’Omeopatia, con un suo proprio corpus teorico e metodologico e una sua caratteristica strategia terapeutica.
L’etimologia del termine omotossicologia, o omeopatia antiomotossica, significa: “studio degli effetti delle tossine sull’Uomo e relativo trattamento omeopatico”.
Il medico omotossicologo, rifiutando ogni integralismo terapeutico, utilizza tanto le acquisizioni della medicina omeopatica quanto quelle della medicina convenzionale e reinterpreta dati secondo un paradigma coerente che spiega, grazie alla
propria specifica chiave di lettura, il manifestarsi dei fenomeni della salute e della malattia in modo completo.
Per l’Omotossicologia lo stato di salute è perciò interpretato come omeostasi dinamica in cui la malattia è valutata come espressione della lotta fisiologica dell’organismo che tende ad eliminare quelle “omotossine” o endogene ed esogene che hanno superato la soglia di allarme.
La terapia tende, di conseguenza, a stimolare e modulare i meccanismi di autoguarigione propri dell’organismo, incrementando la risposta immunitaria specifica di ciascun soggetto. A tale scopo vengono utilizzati farmaci omeopatici unitari a bassa, media e alta diluizione e complessi derivati sia dell’omeopatia classica che da acquisizioni farmacologiche più recenti, quali i substrati d’organo di suino, i catalizzatori intermedi, i chinoni ed i vari principi immunostimolanti, come i fattori di crescita nervina omeopatizzati.
I vantaggi terapeutici rispetto all’omeopatia classica sono dati dalla possibilità di intervento anche nelle malattie croniche e degenerative e dalla maggiore rapidità di azione nelle patologie acute.
L’Omotossicologia vede i suoi primi lavori scientifici negli anni ’60 e deve, come si è detto, la sua denominazione al genio del medico omeopata tedesco H.H. Reckeweg (19051985) che nel 1952 diede il nome Omotossicologia a questa Disciplina del “complessismo sinergico omeopatico”.
Essa dedica particolare attenzione allo studio dei meccanismi immunitari ed enzimatici attraverso la cui modulazione, ottenuta con l’utilizzo di innovativi principi biologici, si possono stimolare le più appropriate attività disintossicanti fisiologiche e giungere così al ripristino dello stato di salute, ridando al malato un suo personale equilibrio energetico, tessutale, organico e funzionale. Le basi teoriche della terapia complessista furono inizialmente elaborate dallo svizzero E. Burgi, che, nel 1910-32, enunciava il cosiddetto “effetto Burgi” o “regola di Burgi”, che asserisce che rimedi omeopatici unitari diversi, somministrati insieme, producono un “sinergismo farmacologico”.
Veniva comprovato che l’effetto farmacologico molto spesso si concreta mediante la cooperazione attiva conaltri fattori dell’organismo; fattori che variano da persona a persona, essendo molti gli elementi in gioco nella complessità dell’azione farmacologica, in quanto l’uso articolato di vari rimedi dava luogo a effetti additivi e/o moltiplicati, grazie al mutuo effetto di potenziamento, a seconda del punto di attacco farmacologico sui recettori biologici del malato.
Veniva enunciato, così, il principio del “sinergismo farmacologico” in omeopatia clinica.
A sua volta, Reckeweg formulò, genialmente, una serie di farmaci biologici complessi, ben articolati e numerosi, sulla cui esperienza poteva svilupparsi l’Omotossicologia, dandosi il motto “Herba Est Ex Luce”.
Al “complesso dei sintomi”, ricercato da Samuel Hahnemann (1755-1843) fondatore della Omeopatia nel secolo XVIII, epoca in cui la malattia come entità nosologica era quasi sconosciuta per mancanza di conoscenze fisiopatologiche, si sostituivano cognizioni nosologiche precise, ben documentate e aderenti agli sviluppi della scienza medica del Novecento.
L’omotossicologia tedesca, legata alla scala delle diluizioni decimali di Constantin Hering (1800-1880), principale allievo statunitense di Hahnemann, fatta propria dall’omeopatia unicista a indirizzo clinico, e l’omotossicologia italiana, legata alla scala delle diluizioni centesimali di Hahnemann, formano un asse terapeutico irrinunciabile per il malato.
I due indirizzi omotossicologici rappresentano, con le loro forze unite, un costante aggiornamento ai progressi scientifici e tecnologici della medicina convenzionale, con vantaggi reciproci per ogni indirizzo terapeutico e a salvaguardia della salute pubblica, potendo affiancarsi e/o sostituirsi in modo opportuno a quei farmaci allopatici, meglio detti farmaci delle dosi ponderali, che causano, ad esempio, effetti iatrogeni..
Alle potenze o diluizioni decimali va il ruolo di rapidità di azione nella lotta antiomotossicaunitamente a presidi più articolati per curare a fondo il paziente nel suo terreno genetico e ambientale, tenendo presente l’intera sua patobiografia, il gioco delle vicariazioni, l’intera gamma della sintomatologia psichica, cioè la globalità della sua persona, lo “olos”, vale a dire l’intrinseca unità del suo essere; alle potenze o diluizioni centesimali va il ruolo di consolidare il successo iniziale bloccando ogni possibilità di vicariazione progressiva, cioè delle fasi di peggioramento, involuzione e cronicizzazione. Strategicamente, il centro di gravità della diagnosi e della terapia viene dall’Omotossicologia spostato dal livello somatico al livello psichico.
Così può giungere veramente a fondo l’azione delle alte diluizioni, di schietta fattura hahnemanniana, dinamicamente protesa al di là dell’unità molecolare, verso le particelle minime che ruotano intorno all’atomo.
E’ possibile quindi ricostruire un centro di gravità diagnostico-terapeutica che prenda in considerazione olisticamente,
appunto, il piano fisico e mentale perché è su questi livelli incessantemente interagenti che ogni essere umano si autostruttura spiritualmente come un unicum che come tale va interpretato per essere curato.

La terapia in omotossicologia
E’ necessario intervenire con una terapia che: agisca a livelli distinti, non determini importanti peggioramenti, offra
risultati chiari a livello tissutale. Ogni rimedio omotossicologico può essere opportunamente definito come un “farmaco sinergico”: esso agisce infatti sia sul piano orizzontale (è solitamente composto da più rimedi aventi un tropismo comune)
che su quello verticale (per la presenza contemporanea di varie diluizioni dei rimedi).
Esistono farmaci omotossicologici che agiscono a vari livelli, sempre tuttavia estremamente caratterizzati ed anche per questo è sempre necessario individuare con chiarezza e precisione la situazione clinico-anatomopatologica del paziente in ogni suo aspetto.
Man mano che il farmaco diventa più complesso, più ampia e più facilmente individuabile è la sua azione.
Rimedi di Fase: rimedi di stimolo globale e generalizzato sull’organismo (per il loro uso è necessaria l’individuazione della Fase di malattia che sta vivendo il quel momento il malato).
Rimedi di Funzione o di Organo: rimedi più specifici, che servono spesso a rifinire e completare una strategia terapeutica relativa ad un organo o ad una funzione (per il loro uso è necessaria l’individuazione fisiopatologica della situazione del malato).

Classificazione dei Rimedi Omotossicologici
Farmaci Singoli (tutti a diluizione bilanciata):
- Omeopatici Singoli
- Catalizzatori Intermedi
- Allopatici Omeopatizzati
- Nosodi
- Organi di suino

Rimedi composti:
- Composti semplici
- Composti della Patologia Funzionale
- Omotossicologici propriamente detti:
l) Tissutali, 2) Di stimolo di fase aspecifica

Apporto farmacologico dell’Omotossicologia all’Omeopatia
Il farmaco omeopatico è la base di partenza degli studi omotossicologici
Attraverso un:
- Approfondimento teorico omeopatico si ha:
l’introduzione della diluizione bilanciata
- Ampliamento della teoria dei nosodi ed uno studio clinico si ha: l’introduzione dei nuovi nosodi
- Applicazione della teoria organoterapica e degli studi di anatomia comparata si ha:
l’introduzione degli Organi di suino
- Applicazione della conoscenza e della tecnica omeopatica alla farmacologia allopatica si ha:
l’introduzione degli Allopatici Omeopatizzati
- Applicazione dell’Omeopatia agli studi di biochimica cellulare si ha:
l’introduzione dei Catalizzatori intermedi Rimedi omeopatici singoli

Potenza: Diluizione e dinamizzazione delle sostanze omeopatiche di base

Denominazione
Diluizione
Sinonimo
D
decimale l:l0
X
C
centesimale l:100
CH
Q
cinquantamillesimale1:50000
LM
X o K
Korsakoviane l:100
Korsakoviane

Grado di potenza:
- Potenze basse: D1 – D6 / Cl – C3 oppure entro la D6, entro la 6CH, la 200K, la 6/LM o 6/50M
- Potenze medie: D7 – Dl5 / C4 – C6 oppure tra la 7CH e la 9CH, la 100K, la 9/LM o 9/50M
- Potenze alte: D30 / Cl5 oppure tra la 15CH e 200CH, la 10000K, la 30/LM o 30/50M

L’OMOTOSSICOLOGIA in quanto OMEOPATIA BIOCHIMICA utilizza i mediatori biochimici cellulari in forma omeopatica per influenzare le reazioni cellulari L’Omotossicologia agisce nella biochimica cellulare con:
Catalizzatori intermedi del ciclo di Krebs, influenzano la produzione di energia e la sintesi proteica
Chinoni, influenzano la produzione di energia ed i meccanismi di ossido-riduzione cellulare

I farmaci convenzionali causano:
- Soppressione del meccanismo fisiologico dell’infiammazione
- Blocco del ciclo di Krebs per l’utilizzazione dei metaboliti per chelare le tossine
- Danno del DNA: mutazioni e sintesi di errate proteine

Catalizzatori
Sono sostanze biochimiche che inducono, acceleranoo interrompono, reazioni cellulari. Il processo in cui intervengono i catalizzatori è quello della catalisi a livello cellulare.
In particolare con i catalizzatori possiamo influenzare il ciclo di Krebs e determinare a seconda del catalizzatore impiegato accumuli o deplezioni di sostanze enzimatiche.
Un blocco del ciclo di Krebs causa gravi danni cellulari e la cellula è portata ad assumere caratteristiche funzionali anomale: Glicolisi Anaerobica tipica della cellula neoplastica
E’ una via primitiva e antieconomica di produzione di ATP utilizzata da cellule libere (globuli rossi) e da cellule cancerogene.
Catalizzatori intermedi omeopatizzati 
Sono le sostanze biochimiche che, diluite omeopaticamente, influenzano reazioni metaboliche specifiche a livello cellulare
La possibilità di disporre dei catalizzatori intermedi in diverse diluizioni ci permette di influenzare in vario modo il metabolismo cellulare:
Bassa diluizione, stimola una reazione
Alta diluizione, inibisce una reazione
Catalizzatori intermedi del ciclo di Krebs 
Acidum-Ketoglutaricum: Ipofunzione, spasmofilia
Acidum cis-aconitum: Iperreattività,
Ipersensibilità, Allergia
Acidum nitricum: Esaurimento, Ipersensibilità
Acidum fumaricum: Intossicazione, Disordine metabolico
Acidum malicum: Iporeattività, patologie croniche
Acidum succinicum: Esaurimento, Stress, Anemia
Natrium oxalaceticum: Suscettibilità alla malattia, Allergia alimentare
Natrium pyruvicum: Convalescenza, Intossicazione, tendenza cronica
Mg Mn phosphoricum: Perdita di energia
Baryum oxalsuccinico: Insufficienza ormonali
Chinoni
Sostanze, assai diffuse in natura, che hanno in comune il grande tropismo per l’ossigeno.
Sono chinoni gli enzimi, fondamentali per il trasporto elettronico, che si trovano a livello mitocondriale. Hanno un ruolo chiave nell’utilizzazione dell’ossigeno da parte della cellula.
Sostanze tossiche normali in natura correlate al processo di degenerazione e morte di foglie e vegetali in generale.
La colorazione giallo-bruna di funghi e pigmenti vegetali è dovuta proprio ai chinoni.
Sostanze di tipo chinonico si formano fisiologicamente nell’organismo, a vari livelli, nell’ambito dei processi di ossido-riduzione.
In alcune situazioni patologiche, la loro concentrazione tissutale aumenta abnormemente: per assunzione di tossici chimici ambientali, per eccesso di lassativi, per blocchi nel ciclo di Krebs, ecc
La loro presenza viene tipicamente denunciata dall’imbrunimento del tessuto affetto e da alterazioni circolatorie locali Rappresentano dei potenti radicali liberi che, in eccesso a livello tissutale, hanno spiccatissime capacità di ossidazione. Queste stesse sostanze, introdotte nell’organismo in forma omeopatica, spiazzano gli analoghi radicali liberi tossici che bloccano a vari livelli la funzionalità cellulare e la respirazione cellulare e depurano la cellula.
Il chinone omeopatico permette uno sblocco efficace: vengono riattivate le ossidazioni, si innalza la temperatura corporea, compaiono i sintomi legati al ripristino della reattività organica che talora si traducono in una reazione di aggravamento di tipoespulsi vo-infiammatorio.
Nosodi
In base all’eziologia delle patologie originarie, che generano una risposta immunologica insufficiente e, in conseguenza
della loro cronicizzazione, si utilizzano diversi tipi di nosodi:
- Nosodi virali
- Nosodi batterici
- Associazione di nosodi
- Nosodi da organi
- Nosodi costituzionali
Metodo di Prescrizione del Nosodi per:
- Similitudine sintomatica, secondo la legge di similitudine omeopatica
- Similitudine eziologica anamnestica rispetto a una malattia antica apparentemente curata.
- Similitudine eziologica attuale (associato con i rimedi omotossicologici/omeopatici spesso di drenaggio del mesenchima) Al termine di una patologia acuta o immediatamente dopo. Dopo una vaccinazione

Come un qualsiasi rimedio omeopatico:
Prescrivere dopo un inquadramento clinico globale o dopo la selezione di un gruppo di sintomi di valore massimo che si incontrano nel paziente, indipendentemente dalla sua patologia.
Per considerazioni eziologiche: si considera la malattia che è alla base dei disturbi del paziente, studiandone i dati clinici di laboratorio o i sintomi attuali del paziente.
Nosode specifico per la malattia che ha portato il paziente all’attuale situazione patologica.

Nosodi di Causa
Dopo una patologia acuta
I nosodi inducono più rapidamente l’eliminazione delle tossine depositate nel mesenchima (vicariazione regressiva). In tal modo si eliminano gli agenti eziologici, i depositi residui di patogeni (foci patogeni latenti) e le colonie di agenti che non sono patogeni (escrezione permanente). Utile dopo una malattia infettiva (rosolia, influenza..).
Azione a livello del mesenchima con un meccanismo di tipo immunologico, riduce la iper-risposta immunoglobulinica. Nosodi costituzionali
Azione sulla costituzione e sul temperamento: Nosodi costituzionali
Azione sugli organi e tessuti: Nosodi Costituzionali (patologie croniche e degenerative).
Nosodi: alte diluizioni: agiscono a livello generale informando il sistema immunologico
basse diluizioni: agiscono a livello tissutale stimolando il sistema immunologico
Prescrizione del Nosode
Nelle fasi cellulari delle malattie
Nei blocchi
Nelle patologie autoimmuni
Nelle allergopatie
In fasi umorali reattive, quando c’è una componente discrasica tissutale.

Rimedi Organo Terapici
Rimedi che si elaborano a partire da organi di animali, parti di organi, cellule, organuli e compartimenti cellulari, liquidi cellulari o extracellulari

Azione dei rimedi organoterapici
a) Influenza sulla funzione dell’organo:
riduzione della funzione
stabilizzazione
stimolazione
b) Influenza sulla struttura dell’organo:
Induce una reazione di tipo anticorporale
Reazioni maggiori se minori e più ponderali sono le diluizioni

Organo terapici:
alte diluizioni: moderano l’attività dell’organo corrispondente
basse diluizioni: stimolano l’attività dell’organo corrispondente
Tappe della prescrizione
1. Individuare l’organo danneggiato e gli organi che ne risentono secondariamente
Analisi di laboratorio, Iridologia, Repertorio Omotossicologico, Diagnostica cinese
2. Individuare il tipo di disfunzione
Iperfunzione – Infiammazione
Squilibrio funzionale
Ipofunzione – Atrofia
Organo in iperfunzione
Alte diluizioni somministrate in lunghi intervalli di tempo
Via endovenosa
Organo in disfunzione
Cocktail di diluizioni somministrato a medi intervalli
Via intramuscolare
Organo in ipofunzione
Basse diluizioni somministrate frequentemente
Via subcutanea locale

Fasi di azione

1. Fase preliminare
Utilizzo del rimedio corrispondente all’organo danneggiato associato con altri organoterapici funzionalmente complementari, per attivare anche questi organi e permettere così che canalizzino le eventuali tossine che l’organo più compromesso può espellere nell’ambito di una buona reazione difensiva.
2. Fase di stimolo reattivo
Utilizzo del rimedio corrispondente all’organo danneggiato in diluizione più bassa rispetto alla prima fase, spesso mescolato con rimedi omeopatici con azione specifica sull’organo e che considerano l’eziologia della lesione.
Spesso, in questa seconda fase, si utilizza l’autoemoterapia che potenzia la reattività immunologica dell’organismo.
Ci sono maggiori reazioni di aggravamento, come infiammazione, se la situazione clinica è grave e se si utilizzano basse diluizioni, però questo effetto si riduce se si utilizzano sempre contemporaneamente rimedi di drenaggio a livello dei diversi organi implicati nella risposta organica.
Importanza di individuare il tropismo organico della malattia organo-terapico specifico
L’impiego di organi di suino induce un’attivazione delle funzioni organiche, un risveglio generale della reattività e cosìuna maggior sensibilità e capacità di risposta dell’organismo alla terapia seguente.
Il loro impiego è fondamentale nella terapia delle malattie croniche
A cura del Dr. Paolo Roberti

BIBLIOGRAFIA
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Antihomotoxica et Materia Medica, Biologische Heilmittel Heel GmbH, BadenBaden, VIII edizione, versione italiana, Milano, 1998
2) Bianchi I.: Repertorio OmeopaticoOmotossicologico. Guna Editore srl, Milano, 1993
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4) Reckeweg H.H.: Omotossicologia. Prospettive per una sintesi della medicina, Guna Editore srl, Milano, 1988
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7) Roberti P.: Uso di farmaci omotossicologici in un Centro di Salute Mentale del Servizio Sanitario Nazionale: studio aperto in un gruppo di area diagnostica omogenea. La Medicina Biologica, 3:15-21,2003
8) Roberti P.: Lo status giuridico delle Medicine Non Convenzionali in Italia e in altre nazioni occidentali. Anthropos & Iatria, 2:72-87, 2003

LE EMORROIDI: UN PROBLEMA SEMPRE ATTUALE

Questa distinzione è importante sia da un punto di vista etiopatogenetico che terapeutico poichè il flusso venoso del plesso superiore si immette nel sistema venoso portale, mentre gli altri due affluiscono nel sistema della vena cava inferiore. Ricordiamo infine che i tre plessi sopra descritti sono in comunicazione tra loro per mezzo di piccole vene che collegano il flusso sanguigno.
Comunque, quando comunemente si parla di emorroidi, si intende una più o meno accentuata dilatazione di questi plessi venosi (superiore – medio – inferiore). La loro frequenza nella popolazione è di difficile valutazione, ma si ritiene che almeno il 50% delle persone al di sopra dei 50 anni soffra di emorroidi senza particolare preferenza per l’uno o l’altro sesso.
Questa alta frequenza suscita una immediata domanda: quali sono le cause delle emorroidi?
Le cause sono molte e la più frequente è la predisposizione familiare ereditaria: può capitare infatti che più persone nella stessa famiglia soffrano di questa malattia o, più in generale, di generiche malattie delle vene come le varici degli arti inferiori. Pare infatti che non si ereditino le emorroidi o le varici, ma una certa debolezza della parete venosa.
Un’altra causa molto frequente di emorroidi è la costipazione cronica o stipsi perchè provoca, durante la defecazione, violenti premiti i quali a loro volta aumentano la forza di gravità della colonna di sangue che grava sui plessi emorroidali.
Inoltre il cilindro fecale duro provoca un trauma sui plessi venosi durante il suo passaggio attraverso il canale anale.
D’altra parte anche la diarrea, che determina tenesmo rettale (sensazione di fastidio), può evocare violente contrazioni degli sfinteri anali con conseguente aumento di pressione all’interno dei plessi emorroidali.
Possono essere ancora cause primitive di emorroidi, non derivanti cioè da altre malattie, la dieta priva di scorie e di fibre vegetali e alterazioni dello sfintere anale.
Hanno inoltre grande importanza le cause secondarie: ovvero quando le emorroidi sono manifestazioni di altre lesioni o stati fisici particolari. Ricordiamo la cirrosi epatica con ipertensione portale, la trombosi della vena porta, tumori addominali che comprimono la vena cava inferiore e la gravidanza.
È ovvio che in questi casi elencati non saranno certamente le emorroidi a portare il paziente dal medico. Infatti, per esempio, la cirrosi epatica con ipertensione portale (che determina la dilatazione dei plessi emorroidari superiore e medio perchè, come già detto questi plessi emorroidali superiore e medi sfociano direttamente nel distretto della vena porta) si manifesta con sintomi ben più gravi che un prurito anale od una piccola emorragia dopo la defecazione.
Lo stesso dicasi per un tumore addominale che comprime la vena cava (rarissimo).
Infine che la gravidanza e il parto siano una causa favorente le emorroidi è noto a tutti ed i motivi sono facilmente intuibili e già precedentemente analizzati.
Ed eccoci giunti ai sintomi ovvero ai motivi che spingono il paziente a recarsi dal medico. Nel 70% dei casi il sintomo sentinella è il sanguinamento le cui caratteristiche sono di presentarsi alla fine della defecazione con sgocciolamento oppure lo sporcare la carta igienica di colore rosso vivo; raramente si giunge all’anemia.
Il restante 30% dei sintomi che spingono il paziente dal medico, è variamente diviso fraprurito, irritazione e dal fatto che il soggetto palpa a livello anale: “qualcosa” o “una escrescenza”.
Si tratta cioè del prolasso dei gavoccioli emorroidari attraverso l’ano che di solito avviene alla fine della defecazione e che, nella maggioranza dei casi, si risolve spontaneamente. Se ciò non avviene allora si tratta già di complicanze delle emorroidi che sono appunto il prolasso e la trombosi.
Rarissimamente la trombosi interviene in plessi emorroidali non prolassati o per dirla in altre parole, il prolasso è la causa favorente la trombosi.
E’ ovvio che queste ultime due condizioni, volgarmente dette “attacco di emorroidi” conducono il paziente dal medico con una certa urgenza o addirittura in Pronto Soccorso.
Il medico a sua volta ad ogni caso di emorroidi che gli si presenta, sia semplice che più complesso, provvederà ad un attento esame che comprende la ispezione della regione anale, la palpazione e l’esplorazione rettale e infine eseguirà la rettoscopia che permette, con uno strumento adatto (il rettoscopio) di esplorare visivamente il canale anale almeno fino a 20 cm. dall’ano.
A questo punto la diagnosi è quasi completa e si parla di emorroidi di primo, secondo e terzo grado. Per emorroidi di primo grado si intendono quelle interne appena visibili; di secondo grado quelle con prolasso alla fine della defecazione che regredisce spontaneamente e diterzo grado quando il prolasso è permanente.
Quando il prolasso è irriducibile anche manualmente allora si parla addirittura di emorroidi diquarto grado, ma in questo caso, come già detto si tratta di complicanze.
Lo studio di un paziente con emorroidi va completato con l’esecuzione del clisma opaco se possibile a doppio contrasto per esaminare tutto il colon cioè il tratto terminale dell’intestino. Questo perchè bisogna escludere molte altre malattie (colite ulcerosa, morbo di Crohn, tumori benigni e maligni) che si possono manifestare con sintomi simile alle emorroidi, quali il sanguinamento.
Purtroppo infatti può accadere che un sanguinamento attraverso l’ano sia interpretato come la manifestazione di emorroidi quando invece è il sintomo di altre lesioni più gravi.
Fatta quindi la diagnosi con più precisione è giunto il momento del trattamento che può dividersi in quattro forme:
- terapia medica
- iniezioni sclerosanti
- terapia criochirurgica
- terapia chirurgica
La terapia medica contempla determinate regole igieniche e dietetiche quali i semicupi con acqua fredda, assunzione di cibi ricchi di scorie, e di emollienti delle feci corredati da terapia antiinfiammatoria e pomate locali.
Tale trattamento ha una buona percentuale di successo, almeno sintomatico nei primi due stadi di emorroidi.
Le iniezioni sclerosanti, attual­mente in disuso, si attuano infiltrando i gavoccioli emorroidari con agenti sclerosanti (fenolo al 5% in olio vegetale) che causano la sclerosi delle sottomucose. Questa tecnica è imprecisa ed alcune volte complicata da reazioni infiammatorie locali di discreta entità, da prostatiti. È inoltre eseguibile solo nei primi due stadi dove ha un discreto successo anche la terapia palliativa.
La criochirurgia si avvale dell’uso di sonde che utilizzano anidride carbonica o azoto liquido per produrre temperature molto basse (da -70°C a -180°C).
Queste sonde, poste a contatto delle emorroidi, ne provocano la necrosi in modo indolore e quindi senza anestesia. Questa metodica, dopo un iniziale successo attorno agli anni ’70 è attualmente al centro di varie critiche poichè i risultati sia a breve sia a lungo termine non sono brillanti, con possibilità anche di gravi complicanze.
Il trattamento chirurgico definitivo consiste nella legatura e nella escissione dei gavoccioli emorroidari. Si tratta di un intervento chirurgico tecnicamente facile che comunque richiede la anestesia generale tranne casi particolari di pazienti in condizioni generali pessime per cardiopatie o pneumopatie in cui si deve eseguire in anestesia locale. Richiede dai tre ai cinque giorni di degenza ospedaliera e può presentare, in basse percentuali, alcuni inconvenienti quali il dolore, l’emorragia, la ritenzione urinaria.
Complicanze che sono comunque facilmente controllabili con analgesici, emocoagulanti e nel caso di ritenzione col cateterismo vescicale.
L’intervento chirurgico di legatura ed escissione delle emorroidi è d’obbligo nei casi di emorroidi di terzo e quarto tipo dopo adeguato periodo di preparazione preoperatoria, ed infine quando le emorroidi sono causa di anemia.
Concludendo si può affermare che le emorroidi sono una malattia frequente dell’età adulta che si presentano progressivamente sotto diverse forme.

BIBLIOGRAFIA GENERALE
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Parodi Antonio Giacomo Parodi chirurgo
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