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COLERA

Caratteristiche del vaccino: è costituito da una sospensione di vibrioni (microorganismi spiraliformi) del colera uccisi e preservati con acido fenico .
Modo d’uso: una singola dose di 0,5 ml è sufficiente per ottenere il certificato intemazionale di vaccinazione ove ancora richiesto.
Durata dell’ immunizzazione : la vaccinazione parenterale, con vaccino ucciso, produce una resistenza di breve durata (3-6 mesi). Le rivaccinazioni (richiami) sono indicate ogni 6 mesi.
Reazioni e complicanze: il vaccino raramente provoca reazioni locali o generali (febbre, cefalea, malessere).
Attualmente l’ OMS considera scarsamente efficace il vaccino e lo indica utile solo per le persone con meccanismi di difesa gastrica compromessa.

EPATITE A

I primi destinatari di questo vaccino sono:
- i viaggiatori diretti ad aree endemiche
- gli addetti ad alcuni servizi (ad esempio gli alimentaristi)
- i ricoverati ed i componenti di istituti e collettività
Tuttavia non si può escludere che in futuro anche la vaccinazione contro l’epatite A entri a far parte dei programmi di vaccinazione sistematica dell’ infanzia.

Caratteristiche del vaccino: è formato da un virus coltivato in cellule diploidi umane, trattato con formolo e adsorbito su idrossido di alluminio.

Modo d ‘USO: è somministrato per via intramuscolare nella regione deltoidea in tre dosi.
II ciclo di vaccinazione primaria è costituito da due dosi inoculate ad un mese di distanza una dall’ altra.
La terza dose, inoculata 6-12 mesi dopo la prima, funge da richiamo.
Solo in casi di emergenza l’intervallo tra Ie prime due dosi può essere ridotto a 15 giomi.

Età : a partire dal III mese di vita.

 

Hepatitis viruses

Meccanismo e durata delI’immunita: il virus penetra nell’ organismo per via orale e dal-
l’ interno raggiunge il fegato, attraverso iI sangue (vena porta).
II virus viene bloccato dagli anticorpi prodotti dal vaccino durante questa fase ematica.
L’immunizzazione da vaccino dura almeno un anno dopo la somministrazione delle prime due dosi e probabilmente una decina di anni dopo la terza (dose di richiamo).
Non sono previste rivaccinazioni

Reazioni e complicanze: reazioni locali nella sede dell’iniezione (rossore) sono rare e reazioni generali di modesta entità sono state osservate in meno del 10% dei vaccinati.

TUMORE ALLA PROSTATA

Woman holding man's underwear

 

Il carcinoma prostatico rappresenta una delle tre cause principali di morte per neoplasia dopo i 60 anni e la principale dopo i 75 anni. In America, ogni anno, vengono diagnosticati 317.000 nuovi casi di tumore della prostata mentre nei paesi della Comunità Europea circa 85.000, con una mortalità rispettivamente di 41.000 e 35.000 pazienti. Fra i Paesi sviluppati il tasso di incidenza più elevato è stato osservato in Svizzera e poi in Scandinavia; solo il Giappone presenta una bassa percentuale di tumore prostatico; il suo tasso di incidenza sarebbe infatti pari ad un decimo di quello registrato nel Nord America. Dati recenti però, probabilmente a causai dell’occidentalizzazione dello stile di vita, dimostrano come l’incidenza del carcinoma prostatico sia in rapido aumento anche in questo Paese. Le Bermuda hanno il più alto tasso di mortalità per tumore prostatico: 29 decessi per 100.000 abitanti contro i 20 decessi della popolazione USA e Scandinava. In Italia, vengono registrati 15-20 decessi per 100.000 persone. Nella provincia di Genova, nel biennio 1980-81, il tasso di mortalità è stato molto elevato, raggiungendo quasi 26 decessi per 100.000 abitanti.

Patogenesi del tumore prostatico
L’origine del tumore della prostata è ancora molto controversa e non del tutto chiarita: già da molti anni, studi epidemiologici hanno permesso di identificare vari fattori predisponenti al carcinoma prostatico. Fra questi bisogna considerare i fattori dietetici, i fattori sociali e religiosi, i fattori razziali, i fattori ambientali, i fattori ormonali.

- fattori dietetici: numerosi studi hanno riportato un’associazione tra tumore della prostata e la dieta di tipo occidentale; in particolare sono state chiamate in causa le diete ad alto contenuto calorico, ricche di grassi e proteine animali. Nessuna apparente correlazione è stata invece riscontrata con il consumo di alcolici e l’abitudine al fumo
- fattori sessuali: alcuni autori hanno osservato che i pazienti con carcinoma prostatico, probabilmente per l’elevato livello di testosterone, abbiano avuto una attività sessuale più intensa e più precoce rispetto ad altri soggetti 
Una correlazione è stata trovata anche con le malattie veneree ed in particolare con la gonorrea: questo rapporto potrebbe essere spiegato ipotizzando che la gonorrea favorisca l’impianto di qualche virus oncogeno.
- fattori sociali e religione: studi condotti in USA hanno riportato tassi più elevati di carcinoma prostatico tra i Protestanti e i Mormoni, tassi più bassi per gli Ebrei ed intermedi per i Cattolici. Nessuna differenza di incidenza del carcinoma prostatico è stata registrata tra i diversi strati sociali della popolazione.
- fattori razziali: in alcune aree degli Stati Uniti, l’incidenza del carcinoma prostatico nella popolazione di colore è circa 80 volte più elevata rispetto ai bianchi.
- fattori ambientali: la prova più convincente della loro importanza proviene da studi sulle popolazioni immigrate; alcuni importanti studi hanno dimostrato come fra gli immigrati da regioni a basso rischio in quelle ad alto rischio vi sia un aumento 
dell’incidenza di carcinoma prostatico nelle generazioni successive.
- fattore ormonale:è sicuramente quello più importante; è ormai accertato che alti livelli serici di testosterone siano da considerare come i maggiori responsabili della crescita neoplastica della prostata: è stato dimostrato infatti che la somministrazione cronica di testosterone aumenta l’incidenza del tumore (Noble 1977) e, nell’80% dei casi, è stata documentata anche una elevata sensibilità ormonale (Sica 1979). 

Diagnosi del Cancro prostatico

a) quadri clinici

Il cancro della prostata, allo stadio iniziale, è spesso asintomatico e, nella maggior parte dei casi, i pazienti sono in buone condizioni generali. Da un punto di vista clinico il tumore della prostata può essere distinto in latente, incidentale, manifesto ed occulto. Il carcinoma latente viene scoperto casualmente in corso di autopsie ma per tutta la vita non ha mai dato alcun segno di sé: si pensa che esso sia 100 volte più frequente del tumore manifesto; il carcinoma prostatico incidentale (6% circa) viene diagnosticato dopo intervento di adenomectomia o resezione della prostata (TURP) per ipertrofia prostatica benigna oppure accertato con la biopsia prostatica (pTlc); il carcinoma manifesto è sempre evidenziabile e dà luogo a manifestazioni cliniche della malattia; infine quello occulto viene svelato dalla presenza di metastasi a distanza con obiettività prostatica negativa. Solo il 20% dei pazienti richiede una visita specialistica urologica per dolore osseo, pelvico o perineale, a causa della presenza della malattia metastatica. La maggior parte dei pazienti presenta una ostruzione prostatica di grado variabile che viene distinta in tre fasi.Nella prima fase è presente soprattutto uno stadio irritativo: la prostata è discretamente aumentata di volume, e il paziente riferisce una minzione difficoltosa con mitto debole. Nella seconda fase predominano i sintomi di ostruzione: il paziente è incapace di svuotare la vescica completamente, per cui ad ogni atto minzionale si verifica una sensazione continua di stimolo urgente alla minzione; in questo stadio sono frequenti infezioni e spesso insorgono sintomi aggiuntivi come aumento delle frequenze minzionali (pollachiuria) e presenza di sangue nelle urine (ematuria). La terza fase si instaura quando il paziente presenta una ritenzione completa di urina. La diagnosi di carcinoma prostatico viene effettuata mediante l’esplorazione rettale, la determinazione serica dell’Antigene Prostatico Specifico (PSA), l’Ecografia prostatica transrettale e dalla biopsia prostatica effettuata per vie transperineale oppure transrettale.

 

b) indagini diagnostiche

Indagini di Laboratorio
Possono confermare la diagnosi clinica di carcinoma della prostata.
Attualmente il parametro più importante da considerare è il dosaggio nel siero del PSA (prostate pecific antigen) della fosfatasi alcalina e fosfatasi acida prostatica. Il PSA è un enzima (protesasi) che viene secreto quasi esclusivamente dalla prostata; il suo dosaggio plasmatico costituisce un indicatore molto affidabile della presenza del carcinoma prostatico. I valori di PSA evidenziano una buona correlazione con il volume e lo stadio del tumore. Vengono considerati normali i valori di PSA compresi tra 0 e 4 ng/ml pensando anche che vi sono casi di tumore prostatico con un PSA inferiore a 4. Benché molto sensibile, il PSA manca però di specificità poiché un aumento delle sue concentrazioni seriche può essere riscontrato anche in pazienti affetti da ipertrofia prostatica benigna o da infezioni della prostata. Comunque livelli di PSA superiori a 10ng/ml, in assenza di prostatite o di manovre endoscopiche recenti, devono sempre far sospettare il cancro della prostata. 
Secondo gli orientamenti più recenti, il PSA viene considerato un indicatore dell’attività tumorale più sensibile della scintigrafia ossea e, per questo, più affidabile per monitorare la progressione del carcinoma prostatico nei pazienti con metastasi ossee.

 

Esplorazione rettale
L’esplorazione rettale rappresenta tuttora una metodica molto sensibile nella diagnosi di neoplasia prostatica, sviluppandosi questa, nella maggior parte dei casi, nella zona periferica della ghiandola. Il tumore sarà apprezzato come un nodulo circoscritto o diffuso (a secondo dello stadio della malattia) con una consistenza maggiore rispetto al restante tessuto prostatico: bisogna però tenere presente che un’area di maggiore consistenza non è sinonimo di tumore: essa potrà essere causata anche da una calcolosi prostatica o da una infiammazione cronica della prostata. Infine il referto palpatorio, in alcuni casi, può essere anche completamente negativo come nei carcinomi incidentali, nelle forme mute o nei tumori della zona parauretrale della prostata. Da tutto ciò ne risulta che l’esplorazione rettale è una metodica dotata di alta sensibilità (80% circa) e di bassa specificità in quanto il 35% circa dei noduli biopsiati, risultano negativi all’esame istologico.

 

Ecografia prostatica transrettale

Probabilmente non rappresenta una indagine migliore dell’esplorazione rettale, ma possiede l’indubbio vantaggio di costituire un ottimo mezzo di stadiazione.
All’ecografia il tumore viene descritto per lo più come un’area ipoecogena e periferica. Attualmente l’impiego di sonde a frequenza variabile tra 7.5 e 9 Mhz ha reso molto più agevole il riscontro di aree sospette o francamente ipoecogene ele sonde sono grado di guidare l’ago bioptico nel punto della lesione ogniqualvolta si renda necessaria la biopsia prostatica transrettale.
Con l’ecografia transrettale vengono abitualmente indagate anche le vescichette seminali, la vescica e tutte le altre strutture periprostatiche.
In questi pazienti risulta anche utile una ecografia addominale e renale per escludere eventuali dilatazioni di tratti urinari

Scintigrafia ossea
La scintigrafia ossea è un esame codificato per la stadiazione del cancro prostatico, poiché le ossa sono la sede più comune di metastasi, dopo i linfonodi pelvici. Il suo limite principale è comunque la sua aspecificità: infatti, qualsiasi condizione infiammatoria, post-traumatica o maligna delle ossa darà luogo ad un’area “calda”. In questi casi, per dirimere qualsiasi dubbio è necessario eseguire una radiografia mirata della zona di ipercaptazione. 
Attualmente si ritiene che la scintigrafia ossea sia utile nella valutazione iniziale dell’estensione metastatica della malattia, mentre risulterebbe meno affidabile per il monitoraggio della risposta terapeutica o della progressione del tumore: per esempio, rispetto al dosaggio del PSA, l’esame avrebbe una inerzia che spesso conduce ad un ritardo di diagnosi di progressione di circa un anno.

Rx delle ossa

Le radiografie della colonna vertebrale e del bacino possono individuare aree di osteolisi o di osteosclerosi che indicano metastasi da carcinoma prostatico

Biopsia prostatica

La diagnosi di carcinoma prostatico deve essere sempre confermata dalla biopsia che può essere eseguita per via perineale o per via transrettale. La prima richiede l’anestesia locale o regionale e viene effettuata con l’aiuto della ecografia transrettale che è in grado di guidare la punta dell’ago bioptico nella sede della lesione.

Entrambi i tipi di biopsie sono generalmente precedute e seguite da un breve ciclo di farmaci antibatterici o antibiotici, per evitare eventuali infezioni.

In caso di lesioni agevolmente palpabili, l’agobiopsia transrettale, con ago sottile guidato dal dito o dall’ecografia prostatica, conduce quasi sempre alla dimostrazione citologica del tumore.

Dopo aver accertato la presenza del tumore prostatico, prima di procedere a qualsiasi tipo di terapia è indispensabile effettuare, attraverso gli esami finora descritti, quella che in termini tecnici viene chiamata Stadiazione del tumore

 

Inquadramento Diagnostico del pazienti con Tumore Prostatico

ESPLORAZIONE RETTALE
SCINTIGRAFIA OSSEA
PSA
RX SCLELETRO E TORACE
ECOGRAFIA PROSTATICA
ECO ADDOMINALE O
TAC TRANSRETTALE
BIOPSIA PROSTATICA (ECOGUIDATA)

 

Stadiazione
La stadiazione clinica del carcinoma prostatico è un procedimento standard impiegato da urologi e oncologi per valutare l’estensione del tumore primitivo e determinare la presenza o assenza di metastasi.
A livello internazionale, attualmente sono utilizzati due sistemi di stadiazione: Il sistema A-D (Whitmore-Jewett) è più diffuso nel Nord America e in Italia per la sua semplicità (tab 4) Lo stadio A indica il tumore non palpabile; lo Stadio B un tumore palpabile ma confinato alla ghiandola prostatica, lo stadio C un cancro esteso al di fuori della ghiandola prostatica, infiltrante la capsula o le vescichette seminali; lo stadio D indica una neoplasia metastatizzata

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

<>Nella maggior parte dei Paesi i tassi di mortalità sono comunque in aumento

 

 

 

 

Stadiazione del Carcinoma Prostatico secondo L’America Urological Society (AUS)

STADIO A: Carcinoma latente o incidentale
A1: monofocale limitato ad un lobo
A2: diffuso o multifocale
STADIO B: Tumore confinato alla prostata
B1: lesione di 1,5 cm di diametro o minore, in un solo lobo
B2: lesione superiore di 1,5 cm di diametro, coinvolgente più di un lobo, ma non si estende oltre la capsula prestata
STADIO C: Estensione del tumore oltre la capsula prostatica, senza metastasi
C1: invasione della capsula prostatica e solchi laterali
C2: coinvolgimento delle vescicole seminali
C3: Invasione della vescica (Collo e Trigono) e parete del retto
STADIO D: Malattia metastatica
D1: linfonodi regionali positivi
D2: metastasi viscerali e scheletriche
D3: Ormono dipendenza

 

Il secondo sistema TNM (Tumor, Nodes,Metastases)

viene adottato di più in Europa e considera separatamente le dimensioni della neoplasia, la presenza e l’entità delle metastasi linfonodali, nonchè la presenza di metastasi a distanza

Più del 95% dei tuòori maligni della prostata sono classificati come adenocarcinomi

La classificazione della citologia viene fatta in base ad una scala da 1 a 3 (Mostofi) ed in base al grado di differenziazione cellulare:
G l = elevata differenziazione cellulare
G2= moderata differenziazione
G3= scarsa differenziazione

 

Classificazione Clinica T.N.M.

Categoria “T” - Tumore Primitivo
T0 – nessuna evidenza di tumore primitivo
T1 – tumore incidentale non evidenziabile clinicamente
T1 a- tumore presente in meno del 5% del tessuto resecato
T1 b- tumore presente in più del 5% del tessuto resecato
T1 c- biopsia positiva in pazienti con livelli di PSA elevati
T2 – tumore clinicamente manifesto limitato alla prostata
T2 a- Il tumore interessa 1/2 lobo o meno
T2 b- Il tumore interessa più di mezzo lobo o un lobo
T2 c- il tumore interesse due lobi
T3 – tumore infiltrante la capsula prostatica ed oltre
T3 a- estensione extracapsulare monolaterale
T3 b- estensione extracapsulare bilaterale
T3 c- il tumore invade le vescicole seminali
T 4 – tumore fisso o invasione di strutture limitrofe oltre le vescicole seminali
T4 a- invasione del collo vescicale e/o dello sfintere esterno e/o del retto
T4 b- invasione dei muscoli elevatori e/o tumore fisso alla Parete pelvica

 

Categoria “N” - Linfonodi regionali
N0 – linfonodi regionali indenni
N1 – metastasi in un singolo linfonodo < 2 cm
N2 – metastasi in un solo linfonodo > 2 cm < 5 cm o a più linfonodi
N3 – metastasi in un singolo linfonodo > 5 cm


Categoria “M” - Metastasi a distanza
M0 – non segni di metastasi a distanza
M1 – segni di metastasi a distanza

Follow up del paziente oncologico

Terapia del Carcinoma Prostatico

follow up del paziente oncologico

MARKERS (PSA)

ERCOGRAFIA ADDOMINALE PROSTATICA
SCINTIGRAFIA OSSEA
RX TORACE

 

A- terapia chirurgica
La terapia ottimale per il carcinoma della prostata clinicamente localizzato è ancora oggi altamente controversa. Le possibilità terapeutiche includono la chirurgia, con la prostatectomia radicale, la radioterapia e l’approccio conservativo. Storicamente i pazienti erano scoraggiati a sottoporsi alla prostatectomia radicale a causa della significativa mortalità e complicanze legate alla procedura chirurgica. Negli ultimi anni, l’abilità da parte del chirurgo e le nuove acquisizioni di anatomia chirurgica hanno consentito di effettuare l’intervento con scarse complicanze e limitate riduzioni della qualità della vita. Noi, assieme alla maggior parte degli altri autori, riteniamo che la prostatectomia radicale, inequivocabilmente, rappresenti la più efficace terapia per il tumore confinato alla prostata, in quanto permette la guarigione completa della malattia. L’intervento prevede l’asportazione completa della prostata e di tutti i linfonodi regionali (iliaci e otturatori), che spesso possono essere sede di metastasi. Dopo gli studi di Walsh, questo tipo di intervento viene eseguito secondo la tecnica “Nerve sparing” e cioè preservando quelle fibre nervose (nervi erigendi) che permettono di ottenere l’erezione. 
Le più alte sopravvivenze si ottengono nei pazienti con le seguenti caratteristiche:
- malattia confinata alla prostata (stadio A2-B; T1-T2)
- grado di differenziazione cellulare medio-basso.
- étà inferiore a 70 anni.
Al di fuori di questi criteri di selezione è incerto che la chirurgia radicale o la radioterapia consentano di ottenere la cura completa del tumore.
Già da qualche anno però la chirurgia radicale viene riservata anche agli stadi più avanzati della malattia prostatica (stadio C-D1: pT3 N0 N1); in questi casi la terapia chirurgica viene talora preceduta dalla terapia ormonale neoadiuvante allo scopo di ridurre il volume ghiandolare e la massa neoplastica. In questi casi si è visto che la terapia combinata (chirurgia + terapia ormonale) risulta efficace e garantisce risultati superiori alle singole modalità terapeutiche.
Gli effetti collaterali della prostatectomia radicali sono rappresentati dall’incontinenza urinaria e dalla impotenza; la prima è stata riscontrata in una percentuale inferiore al 5% .
La potenza sessuale viene conservata in percentuale variabile dal 35 al 70 %. Questa estrema variabilità crediamo sia determinata, oltre che da una corretta esecuzione dell’intervento nerve sparing (preservazione dei nervi crigendi), anche dall’età, dalla vascolarizzazione e dallo stato psichico che, proprio per la malattia, può essere alterato.
Oggi, a differenza del passato, quando il paziente, per motivi non del tutto ancora chiariti, non beneficia della tecnica “nerve sparing”, può risolvere il problema della potenza sessuale mediante terapie intracavernose con farmaci vasoattivi o, in ultima ipotesi, mediante l’impianto di moderne e sofisticate protesi peniene. Infine la chirurgia può essere condotta con scopi palliativi per risolvere le complicanze ostruttive (TURP)

b) Radioterapia
La radioterapia riveste sicuramente un ruolo di primo piano nel trattamento del carcinoma prostatico sia da sola che in associazione ad altre possibilità terapeutiche
Indicazioni alla radioterapia esistono sia negli stadi ad estensione locoregionale limitata che negli stadi ad estensione locoregionale avanzata o addirittura negli stadi metastatici.
Il trattamento radiante può essere utilizzato anche in associazione alla chirurgia o alla terapia medica.
La radioterapia come alternativa alla chirurgia è stata spesso oggetto di discussione, in quanto i risultati sembrano decisamente inferiori rispetto all’intervento chirurgico radicale
La Criochirurgia è una moderna terapia praticata per via percutanea, che è stata di recente sperimentata e divulgata in America con risultati tuttora da definire.

Terapia ormonale
E’ noto da tempo (Huggins e Hodges 1941) che il tessuto prostatico normale, quello ipertrofico e quello carcinomatoso rispondono alla somministrazione degli ormoni androgeni. Nel corso di questi anni la terapia medica sistemica del carcinoma prostatico è stata indirizzata alla ricerca di farmaci in grado di contrastare la stimolazione dell’ormone maschile. Il 95% del testosterone circolante e altri androgeni sono prodotti dai testicoli, mentre il surrene produce il rimanente 5%. La terapia ormonale viene utilizzata essenzialmente per trattare il tumore prostatico metastatizzato. In presenza di una malattia con metastasi ossea non trattata, con conferma alla scintigrafia ossea, la terapia ormonale è in grado di produrre un miglioramento nel 60-80% dei casi(Sogani-Fair, 1987) solo il 30-40% dei pazienti possono rivelarsi non rispondenti alla terapia endocrina

 

Trattamento endocrino

sembra migliorare la sopravvivenza globale, ma la scelta del tempo giusto del trattamento è ancora controversa: sembra comunque che una terapia ormonale precoce sia in grado di influenzare positivamente la sopravvivenza rispetto ad una terapia dilazionata o instaurata non appena compaiono i primi sintomi. L’elenco dei farmaci impiegati nella terapia del carcinoma prostatico è lunga e molto eterogenea.

Terapia del Carcinoma Prostatico in Fase Avanzata

1) Antiandrogeno per tre mesi

a) ciproterone acetato (Androcur Depot*) 1 fiala intramuscolo ogni 7 giorni

b) flutamide (Eulexin*) 1 cps x 3 al di

c) bicalutamide (casodex*) 1 cps al di

dal trentesimo giorno inizio della terapia con LHRH

2) LHRH Analoghi
a) Buserelin (SUPREFACT RETARD*) l fiala sottocute ogni due mesi
b) Goserelin (Zoladex 10,8*) 1 fiala sottocute ogni tre mesi
c) Leuprolide (Enantone Depot*) 1 fiala intramuscolo ogni mese

d) Triptorelin (Decapeptyl*) 1 fiala intramuscolo ogni mese

 

Orchiectomia bilaterale
Ha rappresentato per molti anni la terapia iniziale e più comune del carcinoma prostatico; ancora oggi, in caso di neoplasie in fase avanzata, per alcuni autori (Schroder 1991, Deins 1992), viene considerata una terapia standard. Attualmente crediamo però che, considerata l’alta possibilità di scelta di farmaci, l’intervento sia da proscrivere.

Estrogeno terapia
(Dietistilbestrolo) per molti anni ha rappresentato una alternativa alla castrazione chirurgica. Gli estrogeni, con differenti meccanismi di azione determinano un azzeramento della produzione di testosterone. Fra gli effetti collaterali degli estrogeni bisogna ricordare la depressione, l’impotenza, le vampate di calore, ginecomastia dolorosa e tossicità cardiovascolare.

Progestinici di sintesi
(Medrossiprogesterone acetato, megestrolo acetato) per le loro caratteristiche, vanno affermandosi come farmaci di seconda linea nel trattamento del carcinoma avanzato e possono essere utilizzati sia per la loro attività antitumorale, che come farmaci di supporto in quanto dotati di azione antidolorifica, stimolazione dell’appetito, miglioramento dello stato soggettivo con riduzione della stanchezza.

Antiandrogeni
Sono in grado di ridurre le concentrazioni di testosterone plasmatiche a valori che sono uguali a quelli ottenuti con la castrazione. Tra gli antiandrogeni steroidei va ricordato il ciproterone acetato. Tra gli antiandrogeni puri vanno ricordati la flutamide, la nilutamide e bicalutamide (Casodex*)
I farmaci che sicuramente hanno avuto maggiore successo nella terapia del carcinoma prostatico sono gli analoghi dell’LHRH. Tali composti sono stati introdotti in terapia agli inizi degli anni 80 ottenendo vasti consensi per gli scarsi effetti collaterali. 
La terapia medica con analoghi agonisti dell’LHRH riveste oggi un ruolo di primaria importanza nei pazienti con carcinoma prostatico disseminato per diversi motivi:
a) efficacia dell’azione terapeutica paragonabile alla castrazione chirurgica con una risposta positiva che si realizza in un’alta percentuale di pazienti nei primi due o tre mesi di terapia
b) scomparsa del dolore quando presente;
c) assenza di effetti collaterali di rilievo, se si escludono quelli legati all’azione del farmaco (abolizione della libido, deficit della potenza e dell’erezione nel 60% dei casi).Circa la metà dei pazienti lamenta comparsa di vampate di calore e sudorazione anche modeste, che possono anche scomparire nel tempo
Per prevenire alcuni effetti collaterali legati alle prime somministrazioni degli LHRH ANALOGHI agonisti è necessario far precedere questa terapia dalla somministrazione di antiandrogeni per tre mesi. Gli analoghi attualmente disponibili sono rappresentati dal Buserelin (Suprefact Retard*), Goserelin (ZOLADEX*),Leuprolide(ENANTONE Depot*), 
Triptorelin (DECA­PEPTYL *).
Gli analoghi antagonisti dell’LHRH (non ancora in commercio) esercitano la loro azione a livello recettoriale, determinando una inibizione della secrezione delle gonadotropine e quindi di testosterone. Infine gli Inibitori della biosintesi steroidea quali Aminoglutamide e Chetoconazolo, rivestono un ruolo di secondaria importanza nel trattamento del carcinoma prostatico anche per la frequenza e gli effetti collaterali. Tali farmaci sono impiegati nelle forme in progressione dopo un iniziale trattamento endocrino ed anche in associazione con analoghi allo scopo di ottenere un blocco androgenico totale.

GIORGIO CARMIGNANI – Direttore Istituto Clinica Urologica

ALDO DE ROSE – Aiuto Istituto Clinica Urologica

 

Pubblicazione del 1997

TRATTAMENTO MEDICO DELL’IMPOTENZA

La possibilità di ottenere una erezione sufficiente per un rapporto sessuale dopo l’iniezione intracavernosa di farmaci vasoattivi, oltre a modificare radicalmente l’approccio diagnostico-terapeutico dell’impotenza ha permesso una maggiore comprensione della fisiopatologia dell’erezione.
Ancora oggi però, da parte di numerosi gruppi di studi, proseguono le ricerche per identificare possibili forme di terapia orale dei deficit erettivi e risultati interesanti sono stati annunciati recentemente al congresso degli Urologi Americani: sembra infatti che una nuova molecola (Seldenafil), inibitore di un enzima (5fosfodiesterasi) sia in grado di favorire una buona erezione, dopo qualche ora dalla sua assunzione orale. Lo studio ancora in fase sperimentale in Europa ed in America, dovrebbe essere completato fra un anno e consentirne la commercializzazione fra due. Fino ad oggi i farmaci proposti per la cura dell’impotenza sono stati numerosi e, a secondo dei casi, somministrati per via sistemica (os e intramuscolo) o locale (intracavernosa, topica e intrauretrale).
La terapia, che sicuramente ha raccolto maggiori consensi è la farmacoerezione.
L’esperienza di molti anni e i risultati di studi su vaste casistiche, dimostrano inequivocabilmcnte che la farmacoerezione intracavernosa rappresenta una possibilità terapeutica di sicura efficacia con incidenza positiva anche nei confronti delle forme psicogene. E’ ormai acquisito che la farmaco infusione intracavernosa possa, in taluni casi, rappresentare una terapia a termine, svolgendo un ruolo riabilitativo di ginnastica vasoattiva sul tessuto erettivo. Il 40% di questi pazienti riferisce infatti ripresa spontanea delle erezioni dopo 6­7 iniezioni intracavernose, mentre il restante 60% continua a praticare l’autoiniezione, 10 minuti prima del rapporto sessuale: dopo 4-5 mesi (in alcuni casi anche più di un anno) un’ altra grossa percentuale, riferisce una ripresa spontanea dei rapporti sessuali. Solo il gruppo di pazienti con lesioni neurologiche, pur essendo i più responsivi a questo trattamento, per ovvie ragioni, non possono sperare in un recupero spontaneo della potenza sessuale.
Al contrario, quelli che non possono mai beneficiare di questo trattamento farmacologico locale sono i pazienti che presentano una vascolarizzazione compromessa: questi, a secondo dei casi, possono essere sottoposti ad intervento di rivascolarizzazione (ostruzione arteriosa traumatica) o impianto protesico (arteriosclerosi diffusa). I farmaci utilizzati, da soli o in associazione tra di loro, per la farmaco erezione sono rappresentati dalla papaverina-fentolamina e Prostaglandine E1 (cavelject*), che è il farmaco più adoperato nel mondo. Questi farmaci vanno usati con molta cautela e consigliati da uno specialista andrologo-urologo, endocrinologo o sessuologo dopo attenti indagini diagnostiche. Nel personalizzare la dose si procede ad aumenti graduali del dosaggio partendo dalla dose minima standard che è di 5 microgrammi, fino ad arrivare a 40 microgrammi. Rispetto alla Papaverina. la PGE1provoca una erezione più fisiologica che generalmente scompare dopo l’eiaculazione.
L’erezione persistente, dolorosa e non sostenuta da alcun stimolo sessuale, meglio conosciuta come priapismo, costituisce la complicanza più temibile della farmacoerezione per cui i pazienti devono essere sempre informati in modo da avvisare lo specialista urologo o andrologo in caso di erezione prolungata (più di sei ore dall’inizio della farmacoerezione: alcuni consigliano anche dopo tre ore). Attualmente la papaverina e la fentolamina raramente sono utilizzate da sole: più spesso, esse vengono adoperate in associazione alle prostaglandine (tab. l).

-Tab. 1-

 

Meccanismo d’azione dei farmaci impiegati per la farmacoerezione.

PGEl: partecipa alla produzione di ossido nitrico ed è un potente miorilassante della muscolatura liscia.

Papaverina: interferendo con il flusso del calcio intracellulare, inibisce la contrazione della fibra muscolare, provoca un rilasciamento diretto.

Fentolamina: bloccando i recettori alfa adrenergici induce il rilassamento della muscolatura liscia (e quindi anche l’itertono adrenergico ).

 
Terapia farmacologia per os.
Nella pratica quotidiana, esiste un gran numero di pazienti che rifiuta di essere sottoposto a farmacoerezione, perché ritiene tale metodica un trattamento cruento, non fisiologico e richiede spesso solo una terapia sintomatica di “supporto” somministrata per via orale. Tra i numerosi farmaci proposti per os quelli che hanno avuto un discreto successo sono rappresentati dal Trazodone e le Yoimbina. Il Trazodone è un inibitore della captazione di 5-HT: facilitando il turn-over della dopamina è utilizzato per via orale come antidepressivo. Studi spe­rimentali in vitro hanno evidenziato capacità all’a-antagoniste nei confronti del tessuto cavernoso e per questo capa­ce di indurre l’erezione. L’insorgenza di priapismo associato ali’ assunzione del farmaco ha accresciuto il suo interesse nel trattamento dell’ impotenza. I pochi studi effettuati al riguardo hanno però evidenziato un’efficacia limitata. La Yoimbina è sicuramente il farmaco più antico impiegato nel trattamento dell’impotenza: da più di un secolo è utilizzato come afrodisiaco. Si tratta di un alcaloide indolico con proprietà antagoniste dei recettori adrenergici alfa-2, fornito di effetti centrali profondi e periferici negli animali e negli esseri umani. Uno studio controllato su pazienti con diagnosi di impotenza psicogena ha evidenziato una risposta positiva per il 62% nel gruppo trattato con Yoimbina e del 16% nel gruppo controllo. Il farmaco è ben tollerato e può essere raccomandato come farmaco di prima scelta alla dose giornaliera di 15 mg (5mg x 3/die) (Il farmaco non è in commercio in Italia)
Differente è il discorso quando esiste un deficit ormonale per cui è necessario instaurare una terapia sostitutiva. I deficit erettivi da carenze ormonali sono quelli che risentono più favorevolmente di una terapia sostitutiva. Fortunatamente rappresentano meno del 3% di tutti i casi di impotenza.
Le anomalie ormonali più frequentemente associate a deficit erettivi sono rappresentate da ipogonadismo e dall’iperprolattinemia. Ipogonadismo: entrambe le forme (iper ed ipogonadotropo) necessitano di una terapia sostitutiva: androgeni o gonadotropine: la terapia per os è generalmente più accettata dal paziente ma spesso non è in grado di assicurare livelli ematici stabili di testosterone in quanto nessun preparato viene assorbito a livello intestinale nella precisa quantità richiesta. Proprio per questo la terapia con androgeni dovrebbe essere instaurata con preparati iniettabili (testosterone enantato 300 mg i.m. ogni 3-4 settimana.
Iperprolattinemia: può essere con seguente ad altra terapia farmacologica oppure alla presenza di tumori ipofisari prolattinomi) costituisce una causa di impotenza molto rara con incidenza stimata al disotto del 5%. Quando si rende necessaria la terapia con bromocriptina, l’inizio del trattamento deve essere sempre a basso dosaggio, per arrivare poi alle dosi di 5-7,5 mg/die. (Tab. 2).

-Tab.2-

 

Complicanze della farmacoerezione

A) A BREVE TERMINE
- dolore
- ecchimosi
- erezione prolungata
- priapismo

B) A LUNGO TERMINE
- fibrosi dei corpi cavernosi
- incurvamento del pene

 

 

Terapia topica
A causa della conformazione anatomica del pene, la terapia topica nel trattamento dell’impotenza coeundi non ha avuto molta fortuna. Infatti, una volta superata la cute, il passaggio del farmaco viene drenato nel circolo sistemico da parte della ricca rete vascolare sottocutanea. La quantità residua di farmaco che riesce a superare la fascia di Buck e la spessa tonaca albuginea raggiunge il tessuto cavernoso in quantità molto scarsa e sicuramente incapace di provocare una erezione.
I farmaci utilizzati sono stati la papaverina sotto forma di crema in veicolo liposolubile (preparazione galenica al 10%), un unguento di nitroglicerina al 2% o al 10%: la Yoimbina cloridrato come unguento al 5%)
Una solida alternativa all’uso intracavernoso di farmaci vosoattivi sembra essere rappresentata dalla somministrazione intrauretrale delle prostaglandine. Questo ultimo preparato sembra possedere un’efficacia sovrapponibile alla farmacoerezione, evitando tutti gli aspetti legativi: inoculazione cruenta e dolorosa, formazione di ematomi, cavernosità, noduli di fibrosi.

 
Aldo F. De ROSE
urologo – andrologo
pubblicazione del 1997

ANEURISMI ARTERIOSI

Sopratutto non è così immediato percepire la gravità di una malattia le cui complicanze possono essere disastrose.
Definizione
L’aneurisma e’ una dilatazione localizzata, abnorme e permanente di un’arteria, dove le pareti del vaso abbiano perso il loro naturale parallelismo. In particolare si può parlare di aneurisma nel caso di un’ arteria che presenti una dilatazione localizzata il cui diametro superi almeno della metà il valore del diametro di settori normali. Se l’aorta addominale di un soggetto presenta un diametro di 2 cm. un settore dilatato si dice aneurismatico se il rispettivo diametro supera i 3 cm. Dilatazioni di calibro minore sono dette “ectasie”

ANATOMIA & FISIOLOGIA
Le arterie sono condotti dotati normalmente di pareti robuste in grado di resistere alle pressioni generate dalla pompa cardiaca. Sono costituite da tre strati (”tonache”) sovrapposte.
La più interna si chiama “intima” ed e’ a diretto contatto con il sangue , la più esterna si chiama “avventizia” ed aderisce ai tessuti e agli organi vicini alle arterie. Lo strato principale delle arterie di grosso e medio calibro e’ la tonaca ”media” che è formata da fibre elastiche e cellule muscolari lisce.
Grazie alle proprietà elastiche di questo strato l’arteria si distende sotto l’impulso di ogni battito cardiaco, e riprende poi il suo calibro iniziale contribuendo così alla progressione e alla velocità del sangue ricco in ossigeno che scorre verso le cellule di tutti gli organi.
Se nella parete arteriosa si verifica un mancamento, un cedimento delle caratteristiche elastiche, la pressione vigente all’interno del condotto tenderà ad aumentarne il diametro.
E’ la stessa cosa che si verifica nelle camera d’aria dei pneumatici difettosi o troppo compressi. Un settore del condotto tende a rigonfiarsi in modo più vistoso (adesso abbiamo imparato che si potrebbe dire “aneurismatico”). Quando questo fenomeno si verifica basta un piccolo aumento di pressione per aumentare sempre più il diametro del settore bozzoluto, dove la parete si assottiglia vieppiù, fino all’inevitabile scoppio.
Esistono leggi fisiche che stanno alla base di questi eventi, come ad esempio la legge di Laplace o il teorema di BemouIli che fanno comprendere come l’equilibrio tra pressione, diametro dell’arteria e tensione sviluppata dalle caratteristiche elastiche della parete possa modificarsi per il variare anche di uno solo di questi parametri. Questo spiega come un aneurisma tenda inesorabilmente a crescere di diametro progressivamente nel tempo, come la sua parete tenda a resistere sempre meno a pressioni interne, assottigliandosi sino alla inevitabile rottura.

CLASSIFICAZIONI
La classificazione di una malattia consente di interpretarla con maggiore precisione, analizzarne le cause e le localizzazioni. Nel caso della malattia aneurismatica delle arterie e’ adottato questo schema:
CLASSIFICAZIONE ANEURISMI ARTERIOSI

 

Degenerazione
Aneurismi arteriosclerotici
Necrosi cistica della tonaca media
Fibrodisplastici
In corso di gravidanza

Infiammazione
Micotici
Batterici

Da cause meccaniche
traumatici
post stenotici
anastomotici

Congeniti
Sindrome di Marfan
Ehlers – Danlos

 

 

Forma
Sacculare
Fusifome

 

 

Localizzazione
Centrale (aorta)
Periferica
Renale
Splacnica
Cerebrale

 

 

Struttura
Veri aneurismi
Falsi Aneurismi

 

La maggioranza degli aneurismi ha cause degenerative, imputabili alla malattia arterioscIerotica. Per quanto riguarda l’aorta il 95 % dei casi di aneurisma è riconducibile a questa malattia
E’ dimostrata in questi casi una predisposizione ereditaria, con una maggiore probabilità di sviluppare la malattia tra consanguinei, fratelli e sorelle.
A determinare la comparsa dell’aneurisma concorrerebbero fattori biomeccanici (progressivo deterioramento con debolezza della parete arteriosa) e fattori congeniti geneticamente determinati come è il caso di particolari enzimi attivi contro il collagene e l’ elastina.
I pazienti colpiti presentano nella loro maggioranza un’ età superiore ai 60 – 65 anni, rappresentano il 2 -10% della popolazione di quell’età e sono prevalentemente maschi.
Gli aneurismi degenerativi non arterosclerotici sono molto rari.
Quelli legati alla gravidanza riconoscerebbero come causa l’aumento nel sangue di un enzima elastolitico, la relaxina, che potrebbe determinare maggiore cedevolezza di alcune arterie viscerali ed in special modo dell’arteria splenica.
Gli aneurismi infiammatori possono essere di natura sifilitica per distruzione delle tonache dell’aorta da parte del Treponema Pallidum. Sono forme attualmente molto rare.
Nei pazienti immunodepressi o portatori di endocardite batterica si possono avere emboli settici (materiale con colonie di batteri che viene trasportato dal flusso del sangue) e infiammazione della parete arteriosa (“arterite”) con distruzione parziale della media e relativo sfiancamento della stessa.
Anche cause traumatiche possono danneggiare le arterie e portare a queste manifestazioni. Tipico è il caso di gravi traumi che coinvolgono il torace e l’aorta, determinando la comparsa di aneurismi anche a distanza di tempo.
Gli aneurismi congeniti dipendono da una debolezza della parete arteriosa presente sino dalla nascita per anomalie importanti e molto rare del tessuto connettivale.
Per quanto riguarda la forma l’aneurisma può manifestarsi come una “sacca” per cedimento di una limitata porzione di arteria. Si presenta come una bozza talvolta sferiforme con un limitato colletto di comunicazione con l’arteria più sana. Oppure la degenerazione si estende longitudinalmente per estesi tratti e quindi l’aneurisma si presenta come un fuso aumentando progressivamente di diametro dai settori meno ammalati via verso i settori più alterati che presentano diametro maggiore per maggiore debolezza.
Nella maggioranza dei casi l’aneurisma colpisce l’aorta sia nella sua porzione toracica che in quella addominale. Quest’ultima localizzazione è la sede dell’80% di tutti i casi di aneurisma, con interessamento di una o di entrambe le arterie iliache.
Meno frequentemente si verificano aneurismi nelle arterie periferiche degli arti e in questi casi le sedi più tipiche sono le arterie poplitee e le arterie femorali comuni e superficiali.
Molto rare sono le localizzazioni delle arterie viscerali (arteria epatica, renale, splenica) o alle arterie a destino cerebrale (carotide comune, interna ed esterna e vertebrale)
Gli aneurismi delle arterie dell’arto superiore (arteria ascellare e succlavia) sono anch’essi rari e spesso secondari a compressioni od esiti traumatici.
La distinzione tra Vero e Falso Aneurisma distingue tra la dilatazione di un tratto di arteria ove sono presenti tutte e tre le tonache del vaso (aneurisma vero) e aspetti dilatativi in esiti di puntura o trauma dove la tumefazione non e’ altro che la reazione infiammatoria o cicatriziale senza che i costituenti della parete siano chiaramente riconoscibili (falso aneurisma o ematoma pulsante).

SINTOMI E COMPLICANZE
Tratteremo inizialmente l’aneurisma aorto-iliaco, il più frequente nella popolazione E’ abbastanza frequente il riscontro di questa malattia in soggetti assolutamente privi di ogni sintomo.
Solo una piccola parte degli aneurismi viene riconosciuta durante una visita medica. Infatti la palpazione dell’addome permette al medico attento di riconoscere aneurismi di dimensioni già cospicue ,almeno 4-5 centimetri di diametro.
In soggetti poco collaboranti oppure obesi la palpazione non e’ significativa.
Talvolta è il paziente stesso che avverte una abnorme pulsazione addominale all’inguine oppure al cavo popliteo e si presenta per questo al Chirurgo.
E’ molto frequente che l’ aneurisma venga incontrato occasionalmente durante l’ esecuzione di un esame ECOGRAFICO o di una TAC dell’addome eseguiti per valutazione di sintomi non correlati o per il controllo di malattie concomitanti (problemi urologici o calcolosi biliare ad esempio ). Talvolta la radiografia della colonna lombosacrale o dell’addome mette in evidenza calcificazioni aortiche che fanno sospettare la presenza dell ‘aneurisma.
Purtroppo molto spesso il riconoscimento dell’aneurisma coincide spesso con l’accadere della sua più temibile complicanza: la rottura.
La quota di aneurismi che si presentano con la rottura varia dal 10 al 30%. La rottura dell’aneurisma causa emorragia più frequentemente verso lo spazio retroperitoneale (posteriormente ai visceri addominali) o nel cavo peritoneale. In questo caso la perdita di sangue è massima, ed il paziente può giungere a morte in pochi minuti.
Se la rottura è limitata e l’emorragia tende a Iimitarsi il paziente può sopravvivere, lamentando tuttavia dolore violento alla regione dorso lombare o al fianco. Si verifica ipotensione, pallore, anemia, tachicardia e spesso sudorazione profusa. Il malato si presente intensamente sofferente ed angosciato.

Un altro sintomo legato alle complicanze dell’aneurisma è la comparsa di ischemia(“mancanza di sangue”) alla periferia.
All’interno della sacca aneurismatica tende ad accumularsi sangue trombizzato che si deposita progressivamente. Frammenti di trombo parietale possono staccarsi ed essere trasportati dal flusso ematico sino in periferia.
Si verificano cioè embolie.
Accade anche che aneurismi in arterie di calibro più piccolo (arterie femorali o poplitee) si occludano per trombosi. In entrambi i casi il paziente accusa dolore alle estremità. Il piede o un dito di questo si presentano pallidi e freddi, qualche volta si apprezza anche un colore bluastro (cianosi).
Come in tutti i casi in cui l’apporto di sangue non e’ sufficiente può verificarsi la necrosi dei tessuti con gangrena.

DIAGNOSI
Di fronte ad un sospetto di aneurisma con i seguenti esami strumentali si ottiene una diagnosi di certezza e la definizione delle caratteristiche della malattia.
ECOGRAFIA
E’ l’esame strumentale forse meglio conosciuto e diffuso in molti campi della Medicina. Gli uItrasuoni possono penetrare nei tessuti ed essere riflessi dalle strutture del corpo. Opportune sonde ed apparecchi permettono cioè di “guardare ” all’interno del corpo umano. Il Medico si addestra a riconoscere i vari organi e a capirne la consistenza, i limiti e le forme osservando le immagini ottenute su un monitor.
Non e’ necessaria alcuna manovra cruenta ed è un esame ripetibile senza disagio e con bassi costi. La tipica immagine ottenuta in caso di aneurisma è una dilatazione dell’ arteria che presenta pareti più o meno ispessite. E’ bene individuabile la presenza di trombi. Ovviamente possono essere effettuate misurazioni dei diametri massimi.
Con gli apparecchi dotati di analisi Doppler con codici di colore (ECO COLOR DOPPLER) si possono visualizzare i flussi di sangue all’interno delle vene e delle arterie e quindi sono possibili migliori definizioni delle trombosi e dei rapporti con le arterie e le vene che sono vicine aIl’aneurisma. L’esame Ecografico può essere effettuato in pochi minuti, direttamente sul lettino del Pronto Soccorso anche in pazienti con condizioni critiche e permette di diagnosticare la rottura dell’aneurisma e la presenza di emorragia interna.
Si tratta della metodica più affidabile che viene utilizzata sia in esami di screening della popolazione sia come monitoraggio nel tempo di piccoli aneurismi o di ectasie.

TOMODENSITOMETRIA
E’ un esame più complesso e costoso. Permette di definire con esattezza i rapporti dell’aneurisma con le strutture e gli organi vicini.
Ottiene precise misurazioni dell’aneurisma e della trombosi endoluminale .
E’ una tecnica insostituibile nello studio dell’aorta toracica dove gli ecografi non possono ottenere immagini di qualità per tutta la sua estensione.

RISONANZA MAGNETICA
E’ un esame che permette di visualizzare con precisione le strutture interne del corpo solo sfruttando ed amplificando i campi magnetici dei tessuti. Non sono normalmente necessari mezzi di contrasto. E’ un esame molto costoso, riservato a casi dubbi e complessi.

ANGIOGRAFIA
E’ un esame “invasivo” che prevede la puntura di una vena del braccio o di una arteria (normalmente l’arteria femorale all’inguine) e l’introduzione di un liquido radio-opaco (mezzo di contrasto) all’interno delle arterie da esaminare.
Vengono così a definirsi i contorni del lume delle arterie e la geometria del loro decorso.
Si evidenziano le occlusioni, le trombosi endoluminali e i settori di arteria non colpiti dalla malattia.
Le pareti non sono visualizzate, sono intuite .E’ come se si vedesse il liquido contenuto in una bottiglia senza vedere il contenitore. E’ un esame che viene riservato ai pazienti candidati all’intervento chirurgico. Nel caso di aneurismi toracici o addominali permette di identificare le arteria renali ed evidenziarne il loro coinvolgimento nel processo patologico o di lesioni stenosanti associate.

TERAPIA
La sola terapia possibile il caso di rottura dell’aneurisma è l’intervento chirurgico urgente, effettuato in Centri qualificati da equipes esperte. Secondo alcuni studi almenoiIl 50 % dei pazienti colpiti non giunge vivo in ospedale. La mortalità dei pazienti che arrivano vivi ma in condizioni critiche e che sono operati è del 50-70%. Il decorso post operatorio dei sopravvissuti è gravato da molte complicanze essenzialmente legate alla ipoperfusone di importanti organi determinatasi prima e durante l’intervento. Possono comparire ad esempio infarto miocardico e cerebrale, insufficienza renale, ischemia intestinale ed insuffilcienza respiratoria.
La rottura dell’ aneurisma dell’aorta addominale rappresenta l’1,2% delle cause di morte degli uomini che hanno superato i 65 anni. Negli Stati Uniti è la causa di morte al tredicesimo posto e dovrebbe essere la causa di almeno un terzo delle morti improvvise dell’uomo.
Come sappiamo ogni aneurisma è destinato a crescere di diametro sino alla rottura oppure può determinare complicazioni emboliche o ischemiche.
I risultati del trattamento chirurgico degli aneurismi addominali senza rottura sono molto validi con una mortalità inferiore al 5% (nelle casistiche più moderne è del 2-3%). Le complicazioni post operatorie sono infrequenti e normalmente bene controllare nelle sale di terapia intensiva post-chirurgica.
Da quanto detto appare evidente che il comportamento corretto è quello di trattare chirurgicamente tutti gli aneurismi diagnosticati, evitando al paziente il rischio della rottura.
Nella maggioranza dei Centri specializzati si tende a sottoporre ad intervento chirurgico tutti i pazienti che presentino un aneurisma dell’aorta addominale di diametro uguale o superiore a 4 cm. e gli aneurismi più piccoli che presentino ai ripetuti controlli strumentali una crescita superiore al 0,5 cm all’anno (considerata come valore “normale”).
I pazienti che incorrono in queste condizioni presentano un rischio di rottura statisticamente maggiore e quindi non appare logico e prudente procrastinare per essi la corretta terapia
Gli aneurismi, addominali e periferici, che siano divenuti sintomatici per ischemia dovrebbero essere trattati con urgenza, possibilmente dopo valutazione generale del paziente e dopo studio agiografico

TECNICHE CHIRURGICHE
Il segmento di Arteria aneurismatico viene sostituito da un innesto, una protesi in materiale plastico che viene collegata ai settori di arteria sana. Il chirurgo isola l’arteria ammalata per tutta la sua estensione e nel caso dell’aorta addominale deve spostare molti visceri per arrivare alla sua sede.
Prima di sostituire l’arteria viene interrotto il flusso ai due capi con speciali pinze: l’arteria viene quindi sezionata senza importanti emorragie e sostituita da un tubo di calibro e forma adeguata.
Nel caso di rottura già in atto il chirurgo si trova nella necessità di isolare l’aorta in pochissimi minuti, ostacolato da una grande quantità di sangue già presente nell’addome e da una attiva emorragia dal punto di lacerazione del vaso.
Quando finalmente sono posizionate le pinze che interrompono l’emorragla si può procedere alla sostituzione come precedentemente iIIustrato.
Anche nel caso di aneurismi isolati delle arterie femorali o poplitee si procede con identica modalità: isolamento, sezione e sostituzione delle zone aneurismatiche. Quando è’ possibile viene utilizzata la vena safena prelevata dallo stesso individuo.
Recentemente sono state messe a punto protesi miniaturizzate che vengono collocate dall’interno delle arterie senza la necessità di incidere la parete addominale ed eseguire l’intervento chirurgico tradizionale.
Attraverso particolari strumenti è possibile praticare una piccola incisione o una puntura dell’arteria femorale all’inguine e così raggiungere l’interno dell’aneurisma aortico.
Qui viene dispiegata la particolare protesi, senza sostituire l’arteria ammalata, impedendone così la rottura. Sono procedure consigliate per pazienti ad alto rischio operatorio e con aneurismi piuttosto piccoli. Sono in corso di realizzazione protesi di questo tipo sempre più perfezionate ed è lecito attendersi importanti sviluppi di questa modernissima tecnica.

CONCLUSIONI
La malattia aneurismatica delle arterie e’ un evento relativamente frequente dopo il 65 anni, i sintomi sono quasi sempre assenti o molto modesti.
La diagnosi può essere facilmente ottenuta con esami ecografici che rendono possibili anche frequenti controlli periodici di iniziali dilatazioni.
La terapia razionale degli aneurismi è il trattamento chirurgico che in mani esperte e dopo adeguata preparazione del paziente presenta un rischio molto basso, sicuramente inferiore all’elevata probabilità di morte in caso di rottura.

Vittorio Villa -Specialista in Chirurgia Vascolare
pubblicazione 1996

I FIORI DI BACH E L’ETA’ DEL PENSIONAMENTO

E’ mia norma assoluta non generalizzare mai perciò ammetto che ci siano persone liete di smettere di lavorare.
In caso contrario, la fine dell’ attività lavorativa porta lo spettro del tempo futuro che a molti sembra di non saper come riempire e la paura della perdita di un certo riconoscimento sociale. Eppure l’uomo può essere “felice” a qualunque età intendendo per felicità la pace con se stessi, il raggiungimento di un equilibrio psichico, di una serenità mentale.
Nei momenti dei grandi cambiamenti come quello che si vive con il pensionamento, propongo ai miei pazienti il fiore di Bach di nome Walnut. Dà coraggio e determinazione, ci aiuta a essere liberi, svincolati da luoghi comuni.
Non più costretti a “timbrare il cartellino” riempiremo il tempo libero con ciò che ci piace.
Perché non uno sport? Assolutamente non agonistico in quanto non voglio più dimostrare, neppure ai miei coetanei, un’eventuale superiorità. Non amo più la differenza penalizzante tra i più bravi e i meno bravi, tra vinti e vincitori. Lascio tutto questo a chi é ancora e soltanto all’inizio di un cammino spirituale. “lo sono cresciuto, non invecchiato” dice il saggio che é maturato interiormente. Insieme a Walnut prescrivo sovente il farmaco omeopatico adatto a ognuno dei miei pazienti. Da questi ascolterò il racconto del loro passato ma non sempre lo ascolterò tacendo. Considero mio dovere da medico dare un consiglio, dire al paziente della necessità di trovare il senso della vita e la propria identità. Dare senso, dare significato, non separare il corpo dalla psiche.

 

Bach flower remedies
Necessario é quindi ricercare non soltanto quali sono i sintomi fisici ma anche quali i pensieri, le preoccupazioni che hanno provocato tali sintomi.
Ai demotivati prescrivo il fiore di Bach Gentian. Aiuta a ritrovare fiducia, ottimismo, voglia di crescere.
Il personaggio Gentian ha quel tipo di diffidenza che gli impedisce di aprirsi al mondo intero. Si isola per proteggersi da delusioni e ferite. Ogni disagio gli porta sensi di fallimento, di insicurezza, di pessimismo che possono, nei casi più gravi, sfociare in depressione.
Da non sottovalutare, soprattutto per migliorare il tono dell’umore, l’efficacia della “Pet therapy”. La presenza di un animale che ci ama e che ci chiede in cambio così poco, può dare serenità a persone sole o tristi.
Con tutte le risorse che l’uomo, creatura divina, ha in sé, con tutti i mezzi che la terapia medica sa usare, ci si può riaprire alla socialità, agli amici, al sole, all’ossigeno della natura e dell’ anima. Alla vita, in sostanza.

Maria Vittoria BRIZZI TESSITORE
Dott. in Medicina e Chirurgia
Dott. in Lingue e Letterature Straniere
Prof. in Materie Letterarie
Genova
pubblicazione del 2005

ESERCIZIO AEROBIOTICO PER RIDURRE IL PESO

E’ stata studiata una popolazione femminile dai venti ai quarant’anni, sana e solo lievemente sovrappeso.
La percentuale di grasso corporeo era stimata attorno al 30%-40%; si raccomandò a tutte le donne di continuare la dieta abituale durante il trattamento. Un gruppo di donne camminava a passo veloce, un altro pedalava sulla cyclette ed un altro ancora nuotava; dopo circa sei mesi il primo gruppo aveva perso il 10% del peso corporeo, il secondo il12%; quelle che avevano nuotato in piscina non erano dimagrite.
Lo spessore delle pliche cutanee dell’ avambraccio era ridotto nelle cicliste e nelle marciatrici, mentre era invariato nelle nuotatrici.
Fu notato che piccole perdite di peso si manifestavano già nel periodo iniziale e che quando il tempo dedicato all’ esercizio superava la mezz’ ora al giomo, il peso continuava a ridursi in modo progressivo e continuo di circa mezzo chilo alIa settimana.
II nuoto ha evidenziato di essere una forma gradevole di attività, procura benessere e mantiene la forma fisica, ma non è in grado di ridurre il peso corporeo ed il tessuto adiposo.

a cura dell’Istituto di
MEDICINA DELLO SPORT
di Genova della F.M.S.I.
Pubblicazione Giugno 1996

AIDS & METISOPRINOLO

L’AIDS è una malattia di origine virale e per non diventare un malato di AIDS nella fase conclamata il sieropositivo non deve essere colpito da infezioni opportunistiche cioè da quelle malattie che trovano la “opportunità” di penetrare nell’organismo a causa delle cattive condizioni immunitarie presentate dal sieropositivo.
Pare che in alcuni casi sia stato dimostrato anche che la carenza del sistema immunitario permetta la riattivazione di infezioni acquisite in anni precedenti e rimaste latenti nell’organismo.
In una recente conferenza internazionale tenutasi a Roma tutti gli esperti sono stati concordi nel sostenere che, se una speranza c’e, essa consiste nell’aumentare il più possibile le difese immunitarie del sieropositivo.
Una speranza in più si ha con l’impiego del Metisoprinolo che ha dimostrato di mantenere più a lungo una certa efficienza del sistema immunitario e pare abbia anche una qualche azione diretta sul virus HIV.
La più recente proposta terapeutica consisterebbe pertanto nell’attaccare l’AIDS con un cocktail di farmaci (AZT e Metisoprinolo o simili) in cui si abbia la doppia azione di “curare” il sistema immunitario (AZT) e di aggredire il virus (Metisoprinolo.). Purtroppo ogni medaglia ha il suo rovescio infatti bisogna tener presente l’ alta tossicità dell’ AZT che non permette lunghi periodi di cura.
Pare che l’associazione con il Metisoprinolo consenta di diminuire il dosaggio dell’ AZT e quindi un periodo di cura di più lunga durata.
Il vaccino risolverebbe indubbiamente il problema alla radice ma purtroppo siamo ancora molto, molto lontani.

LA RICETTA DEL SESSUOLOGO

E’ mia opinione che chi si occupa di Sessuologia dovrebbe sempre dedicare la prima parte del suo intervento ad identificare qual’è l’ atteggiamento cul­turale ed educativo di chi ha di fronte e partire da lì.
Ancora poco tempo fa, chi soffriva di disturbi psichici (fossero anche sempli­cemente di natura nevrotica) si rivolgeva raramente ed in casi estremi allo psichiatra o allo psicanalista: preferiva recarsi da un neurologo perché ciò gli confermava indiretta­mente di soffrire di un disturbo prevalentemente organico e che, su questa base, sarebbe stato affrontato e risolto. La stessa cosa avviene ancora oggi nei confronti del sessuologo cui si accede come estrema ratio, superando con fatica il disagio di varcare la porta del suo studio.
Quando una persona che ha un problema sessuale si presenta al proprio medico di famiglia o al ginecologo (se donna), la richiesta di “aiuto” è sempre mascherata da altre richieste o viene presentata per ultima, quasi per caso. Questa della sofferenza è una caratteristica comune a tutti coloro che presentano disturbi psico­sessuali: un soggetto che soffre a causa di un disturbato del comportamento ses­suale soffre proprio perché lo giudica inadeguato e ciò incide sempre di più nella valutazione di sè e questo rende sempre più inadeguato quel comportamento. Si instaura cioè un circolo vizioso tale che certi atteggiamenti, dirette conseguenze del sintomo, finiscono proprio per rafforzare il sintomo stesso.
D’ altra parte i vari disturbi sessuali sono caratterizzati da profili anamnestici e da storie individuali di sviluppo che pos­sono presentare delle analogie legate, ad esempio, al fatto che la sessualità appare come un’ area debole del sistema che cede prima di altre, ma sono in genere sostenute da esperienze individuali del tutto opposte (ca­ratterizzate ad esempio da ansia, rabbia, colpa, depressione, ecc) nei confronti di uno stesso obbiettivo (che potrebbe essere l’ atteggiamento nei confronti delle donne). Comune è soltanto il meccanismo etiopato­genico che, ad esempio, in caso di impotenza erettiva maschile è dovuto ad un’iperattivazione del sistema nervoso simpatico che finisce per antagonizzare il sistema parasimpatico responsabile della va­sodilatazione e, quindi, in ultima analisi dell’ erezione.
Gli esami che si potrebbero fare sono numerosi (sia per l’uomo che per la donna) ma ciò che preme sottolineare è che colui che soffre di un disturbo sessuale venga messo dal terapeuta sessuale nelle condizioni di comprendere che psiche e soma sono un’ unità imprescindibile e che solo armonizzando queste due componenti è possibile affrontare la soluzione del proprio disagio.
Da questo punto di vista il medico sessuologo ha forse una marcia in più rispetto, ad esempio, allo psicologo o allo psicoterapeuta: la possibilità di visitare, di esaminare, di richiedere indagini diagnostiche da interpretare, dà al o alla paziente (o alla coppia) la garanzia di avere o non avere un disturbo organico. Tale valutazione richiede un periodo di tempo durante il quale il/i soggetti interessati hanno modo di capire se si trovano di fronte alla persona giusta oppure no, se accettare il “contratto terapeutico” che viene proposto oppure no: questo è estremamente importante per la soluzione del problema, indipendente­mente dalla causa e dalla metodologia di intervento adottata.
In una società “miracolistica” come la nostra, dove sembra esserci una soluzione tecnica per tutto (e subito), comprendere che, ad esempio, dietro un’impotenza erettiva, un’eiaculazione precoce, un’impossibilità a raggiun­gere l’orgasmo ci stanno senza dubbio fattori di ordine nervoso, vascolare, biochimico, endocrino, ecc. ma anche la propria educa­zione, la propria storia personale, la propria relazione di coppia è fondamentale per superare il pro­blema. Nel contempo bisogna comprendere che non esiste sempre la pillola che fa “guarire” presto e bene, che spesso non si può medicalizzare tutto, ma che ogni tanto occorre fermarsi a riflettere un po’ su noi stessi, sulla nostra vita, sulle nostre relazioni con gli altri, sulle nostre prospettive. Ricordo un paziente che venne da me per un problema di eiaculazione precoce, presente da molto tempo ma che si era accentuato negli ultimi tempi; la descrizione che egli faceva della sua vita sembrava giustificare pienamente il disturbo: professione impegnativa che si era accresciuta ultimamente di nuove responsabilità, conflitti con i figli adolescenti, incomprensioni sul lavoro con i propri superiori, pochi periodi di riposo durante l’anno, ecc. A questo andava aggiunto l’uso eccessivo di tabacco, il ricorso a numerosi caffè, una preoccupante (per lui) ipercoleste­rolemia non giustificata dalla dieta. I colloqui condotti dapprima con lui e poi insieme alla moglie dimostrarono che egli, in pratica, viveva “di corsa”; la sua giornata “doveva” essere piena, non esisteva spazio per fermarsi a riflettere, per tirare il fiato, per tenere un po’ di tempo per sè: pochissimo tempo in bagno al mattino, velocissima colazione, spostamenti rapidissimi in auto, pranzi e cene rapidi e senza gusto. Anche il rapporto di coppia, che veniva da entrambi descritto come molto buono, si rivelò, ad un maggiore approfondimento, problematico: i “gusti” di entrambi si rivelarono molto diversi in termini di interessi culturali, di metodi educativi dei figli, di tempo libero e, ovviamen­te, di sesso. Il difetto reale stava nella difficoltà di comunicare con franchezza, a verbalizzare ciò che era racchiuso nel cuore o nel cervello, ad esprimere con natura­lezza ciò che si desiderava o si sarebbe desiderato dall’altro. Per la cronaca si dirà che in un periodo di tempo non troppo lungo, il problema di lui fu superato ma non senza migliorare prima la relazione di di coppia. Non sempre queste storie finiscono bene, ma spesso ciò accade.
Tutto dipende dalla “ricetta” che si segue: un insieme ben amalgamato di ingredienti spesso difficili da ricono­scere e da descrivere ma in grado di raggiungere l’obbiettivo.
pubblicazione del 1994

AIDS – ALCUNE IPOTESI

II prof. Zagury considera l’A.I.D.S. una malattia come un’altra, solo molto più potente e giudica estremamente positivo il fatto che il primo gruppo colpito, gli omosessuali, abbiano provocato polemiche e clamori, poiché questo ha impedito la diffusione vastissima e inavvertita attraverso le donazioni di sangue dei sieropositivi, e ha consentito di dare l’allarme prima che la situazione diventasse ancora più tragica di quello che già è, dati anche i lunghissimi tempi di incubazione.
Si sa infatti che il virus può dimorare 5 o 10 anni prima che le difese annullate facciano esplodere le infezioni proprie della malattia.
Proprio per questa lunga incubazione si considera inattendibile l’ipotesi che il virus sia opera di ingegneria genetica utilizzata a fini bellici, infatti non avrebbe nessuna funzione immediata.
Alla fine dell’85 si accese una polemica, con accuse reciproche tra Unione Sovietica e Stati Uniti.
Per i russi il virus proviene da un incidente, con fuga del virus stesso, nell’ ambito della ricerca spietata e cinica di armi batteriologiche da parte degli Stati Uniti. Alle ricerche, condotte utilizzando per gli esperimenti la feccia della società rinchiusa nelle carceri, è probabilmente sopravvissuto qualcuno che, liberato, ha diffuso il contagio. Gli Stati Uniti non si difendono che contrattaccando e indicando come sospetti i laboratori sovietici.
C’e anche chi crede – ed è un premio Nobel, Francis Crick, che ha scoperto le strutture del DNA ­che il virus nascerebbe da spore provenienti dallo spazio.
Luc Montagnier dell’Istituto Pasteur, ritiene che sia assurdo pensare alla costruzione in laboratorio del virus per due motivi: il primo è che il virus è molto simile a quelli della pecora e del cavallo quindi non c’e nulla di assolutamente nuovo; il secondo motivo è che per produrre un virus i cui effetti mondiali si osservano ora, occorreva già nel settanta avere conoscenze che solo nell’ottanta si sono fatte strada nella scienza.
Ogni pericolo che varca le frontiere -come Chernobyl- ci ripropone l’interrogativo sull’uso che l’uomo può fare delle sue conoscenze e la conseguente riflessione su come non si possa dimenticare l’elemento grezzo costituito dal pianeta e dal corpo in cui viviamo. La contraddizione enorme tra il potere della mente e la fragilità del corpo insieme alla imprevedibilità degli eventi naturali dovrebbe aumentare l’umiltà con cui accoglie il sapere intorno a tutto ciò che è elemento naturale. Invece sembra che la logica del dominio sia prioritaria. Dominare gli elementi, dominare le malattie.
E’ chiaro che l’uomo non accetta di morire, vorrebbe essere immortale, e per illudersi si nasconde l’evenienza della morte con un vitalismo vuoto. Ogni evento, e l’A.I.D.S. ne è un esempio, che lo mette di fronte alla sua possibile fine lo spaventa. Tra qualche anno probabilmente la libertà legale di scegliere la morte garantirà paradossalmente, ancora una volta e solo apparentemente, il dominio dell’uomo sulla natura.

Antonina Nobile Fidanza (psicoterapeuta)
pubblicazione del febbraio 1988